Il pugnale di Tutankhamon, quando il ferro cadeva dal cielo

La testimonianza del fisico torinese che ha scoperto l’origine meteoritica del manufatto egizio

Il pugnale di Tutankhamon.

Fisica di formazione, collabora con diverse testate nazionali ed estere come giornalista e divulgatrice scientifica. Ha collaborato con molti Istituti di Ricerca e Osservatori Astronomici italiani e internazionali. Nel 2008 ha ricevuto il Premio “Voltolino” in giornalismo scientifico.

  

Se “La strada per Menfi e Tebe passa per Torino” come disse quasi due secoli fa il decifratore più famoso dei geroglifici, Jean-François Champollion, giunto per studiare le collezioni del neonato Museo Egizio, oggi dimostreremo che Torino è ancora al centro di questa attenzione. Parafrasando potremmo dire che per dirimere certe controversie attuali, inerenti all’Antico Egitto, la strada passa per la fusione termonucleare e i georadar, e approfittando del racconto di chi ha vissuto in diretta queste ricerche multidisciplinari, introduciamo Francesco Porcelli.

Francesco Porcelli
Francesco Porcelli

Da Torino al MIT e ritorno

Dal 2005 professore ordinario di Fisica della Materia presso il Politecnico di Torino, ha iniziato la sua carriera scientifica in campi canonici come la Fisica dei Plasmi e la fusione termonucleare controllata fino ad arrivare all’archeofisica.

Il mio periodo di formazione presso il Massachusetts Institute of Technology negli USA, MIT, risale agli anni 1983-1987. Nel gennaio 1983, all’età di 24 anni, dopo aver conseguito la laurea in Fisica presso l’Università di Torino, entravo nella Scuola di Perfezionamento in Fisica della Normale di Pisa, ma avevo già in testa di iniziare il mio lavoro di ricerca sulla fisica dei plasmi di fusione termonucleare con il professore Bruno Coppi, titolare di una prestigiosa cattedra presso il MIT e, allo stesso tempo e per alcuni anni, professore di Fisica presso la Scuola Normale.
Massachusetts Institute of Technology (MIT)
Massachusetts Institute of Technology (MIT)

La fusione termonucleare controllata ha come obiettivo la realizzazione di un reattore per la produzione di energia elettrica che sfrutta la fusione nucleare tra nuclei di idrogeno e che, in quanto tale, presenta enormi vantaggi rispetto ai reattori a fissione nucleare attualmente in servizio. Infatti, a differenza dei reattori a fissione, non è presente un nocciolo che potrebbe fondere; questa caratteristica, unitamente al fatto che i suoi prodotti di fusione sono gas innocui e non radioattivi, lo rende un reattore a fusione intrinsecamente sicuro.

I risultati ottenuti da Porcelli al MIT erano adatti per lo studio delle nuove fenomenologie sperimentali e così ricevette l’offerta di lavorare presso il gruppo di Teoria Analitica dei Plasmi del JET in Inghilterra. A seguito della vincita di un concorso per professore associato al Politecnico di Torino decise però di ritornare in Piemonte.

Verso lidi più caldi

La collaborazione internazionale è sempre stata di grande attrazione per il professore così, quando si presentò la possibilità di lavorare presso l’Ambasciata d’Italia in Egitto come Attaché Scientifico, inviò il suo curriculum alla Farnesina.

Evidentemente la mia esperienza internazionale nel settore della fusione termonucleare controllata fu valutata molto positivamente per il ruolo al quale stavo ambendo. Tuttavia, era chiaro che non stavo andando in Egitto per continuare le mie ricerche sui plasmi di fusione, anzi, tutt’altro!
Il professor Porcelli davanti all'Alexandria University, Egitto.
Il professor Porcelli davanti all'Alexandria University, Egitto.

Il ruolo al Cairo era quello di facilitare la cooperazione scientifica e tecnologica tra Italia ed Egitto in tutti i settori dove tale cooperazione potesse portare, da un lato, a vantaggi reciproci per i ricercatori e le aziende coinvolte, dall’altro, a favorire legami sempre più stretti tra le società civili dei due Paesi: quel che viene comunemente inteso come Diplomazia Scientifica.

In pratica, le mie giornate di lavoro erano riempite dalla cura dei programmi di scambio e di cooperazione scientifica tra Italia ed Egitto per conto di università e istituti di ricerca. Ultimo, ma non ultimo, organizzare quello che mi piace chiamare fact-finding missions ovvero missioni presso realtà egiziane dove lo scopo principale era quello di scoprire, valorizzare e stimolare attività di potenziale interesse per ricercatori e tecnologi italiani.

Il mio interesse per le tecnologie applicate ai beni culturali è nato soprattutto in relazione a quest’ultima attività. È chiaro che, non essendo l’Egitto un Paese tecnologicamente avanzato, non era semplice scoprire qualcosa di cui valesse la pena di riferire al mondo della ricerca italiano, eccetto che nel settore culturale appunto. Come ho sempre sostenuto nel corso delle mie missioni, Italia ed Egitto sono le due super-potenze a livello mondiale per quanto riguarda i beni culturali, ed è soprattutto su questo che ho ritenuto si dovesse investire per sviluppare rapporti sempre più stretti tra i due Paesi.

Un firmamento fatto di ferro

Tra i risultati principali conseguiti in questo settore delle tecnologie applicate ai beni culturali spicca la presenza di Porcelli nel team che ha dimostrato l’origine meteoritica della lama di ferro della spada di Tutankhamon, sulla base di misure di fluorescenza a raggi-X. È interessante soffermarci su questa importante scoperta.

Sembra che gli antichi egizi fossero ben consapevoli del ferro che cadeva dal cielo. Citando da George Frederik Zimmer, The Antiquity of Iron (1915):

Il nome più antico per il ferro era "Metallo dal Cielo". Nella lingua geroglifica, era pronunciato BA-EN-PET, che significa pietra o metallo dal cielo. Un'idea egiziana di base, espressa negli antichi testi egizi, era che il firmamento fosse fatto di ferro. Questa credenza probabilmente è nata dal colore blu del ferro e dalla caduta occasionale di ferro meteoritico dal cielo. 

Come il team fu in grado di stabilire che la lama di ferro della spada di Tutankhamon fosse di origine meteoritica è una storia lunga, con un antefatto che merita di essere raccontato: la scoperta, nel 2010, dell'unico cratere d'impatto meteoritico in Egitto da parte di una equipe italo-egiziana di ricercatori.

Il cratere Kamil...

All'inizio del 2009, Mario Di Martino, astronomo dell'Osservatorio Astronomico di Torino, riferì al professore di un sospetto cratere da impatto meteoritico in Egitto, identificato da Vincenzo De Michele, ex curatore del Civico Museo di Storia Naturale di Milano, a partire da immagini satellitari di Google Earth. Di Martino spiegò quanto fosse assolutamente necessaria una spedizione per accertare l'origine meteoritica del cratere. C’era però un problema: la posizione del sospetto cratere era nel deserto egiziano profondo, vicino a un rilievo montuoso chiamato Gebel Kamil da cui prese poi nome il cratere d’impatto, al confine con il Sudan, in una zona complicata dal punto di vista militare.

Il cratere Kamil in Egitto.
Il cratere Kamil in Egitto.

Fu subito chiaro che una simile spedizione sarebbe stata possibile soltanto con il pieno supporto delle autorità egiziane e nel quadro di un progetto scientifico italiano-egiziano. Per fortuna, il 2009 era stato ufficialmente designato Anno Italo-Egiziano della Scienza, e pertanto ogni canale di cooperazione scientifica e tecnologica tra i due Paesi era facilitato. Grazie a questo, il professore riuscì a negoziare un accordo bilaterale, firmato il 31 luglio 2009 da Di Martino, per conto dell'Istituto Nazionale di Astrofisica (INAF) e da Tarek Hussein, allora Presidente dell'Accademia Egiziana per la Scienza e la Tecnologia.

...e i fantastici “Kamillers”

I “Kamillers”, come furono chiamati i membri della spedizione, raggiunsero il sito del cratere nella primavera del 2010, confermando l’ipotesi di De Michele e Di Martino. La spedizione fu un enorme successo e la notizia della scoperta, pubblicata sulla prestigiosa rivista scientifica Science nel luglio 2010, fece presto il giro del mondo e fu riportata sui quotidiani di moltissimi paesi.

Fu nel corso della spedizione dei Kamiller che venni a sapere dell'acceso dibattito sull'origine della lama di ferro del pugnale di Tutankhamon. Gli egittologi erano più o meno equamente divisi in due campi.

Una linea di pensiero sosteneva l'idea che la lama del pugnale di Tutankhamon fosse probabilmente fatta di ferro meteoritico. La loro argomentazione era basata sul fatto che manufatti in ferro erano davvero molto rari nell'antico Egitto al tempo della XIV dinastia, e quelli che erano stati trovati erano molto probabilmente di ferro meteoritico, come, ad esempio, delle perline molto antiche trovate nel sito archeologico di Gerzeh. Inoltre, la metallurgia del ferro in Egitto ebbe sviluppo almeno tre secoli dopo il regno di Tutankhamon. Per questo motivo, il ferro nell’antico Egitto era considerato più prezioso dell’oro.

Collana ritrovata nel sito archeologico di Gerzeh, con le perline in ferro meteoritico.
Collana ritrovata nel sito archeologico di Gerzeh, con le perline in ferro meteoritico.

Gli esperti che si contrapponevano ai precedenti sostenevano che la lama del pugnale di Tutankhamon – se non il pugnale completo, manico e pomello inclusi – con ogni probabilità era stata importata dall'Anatolia. Infatti, documenti diplomatici degli archivi reali egiziani del XIV secolo a.C. – le lettere di Amarna – menzionano doni reali fatti di ferro nel periodo immediatamente prima del regno di Tutankhamon. In particolare, è stato riferito che Tushratta, re della nazione dei Mitanni, inviò preziosi oggetti di ferro ad Amenhotep III, nonno di Tutankhamon. Nella lista dei regali sono menzionati pugnali con lame di ferro e un bracciale in ferro dorato. Nel XIV secolo a.C. i Mitanni occupavano un'area dell'Anatolia orientale tra l'Assiria e l'Impero Ittita.

L'impiego dei raggi-X

Furono Mario Di Martino e altri due Kamiller, Luigi Folco e Massimo D'Orazio dell'Università di Pisa, che nel 2010 coinvolsero il professore in questo dibattito. Il modo migliore per risolvere la controversia sarebbe stato un’analisi della lama del pugnale di Tutankhamon utilizzando un metodo chiamato spettrometria di fluorescenza a raggi X o XRF.

Mi attivai subito in tal senso presso il Ministero delle Antichità e la Direzione del Museo Egizio del Cairo. La nostra proposta, tuttavia, fu inizialmente rifiutata, nonostante la gentile insistenza e diversi tentativi da parte mia. Tra il 2010 e il 2014, diversi ricercatori italiani si rivolsero all'Ufficio Scientifico dell'Ambasciata d'Italia in Egitto, manifestando interesse a svolgere questo tipo di analisi XRF sul pugnale di Tutankhamon e, ogni volta che questo accadeva, sollevavo la questione con le autorità egiziane, ma senza riuscire ad ottenere da loro i necessari permessi.

Nel 2014 il Dr. Mahmoud El-Halwagy fu nominato Direttore del Museo e, circostanza altrettanto fortunata, un team di fisici guidati dalla Prof.ssa Daniela Comelli del Politecnico di Milano venne in missione al Museo Egizio del Cairo con lo strumento giusto: uno spettrometro XRF di ultima generazione sviluppato da XGLab srl, società spin-off fondata da ex-studenti del Politecnico di Milano.

Intervista a Daniela Comelli.

In effetti, Comelli con il suo team arrivò al Museo del Cairo per analizzare altri oggetti non collegati al tesoro funerario di Tutankhamon, nell'ambito di un progetto di cooperazione italo-egiziano in parte finanziato dal Ministero degli Affari Esteri italiano, e l'ufficio scientifico dell'Ambasciata avrebbe dovuto monitorare il progetto.

Quando mi telefonarono per farmi sapere che erano arrivati ​​al Cairo con lo spettrometro XRF e che stavano per iniziare il loro lavoro al Museo Egizio, quasi caddi dalla sedia. Mi recai immediatamente al Museo, e chiesi loro se fossero interessati a eseguire l'analisi della concentrazione elementale della lama del pugnale di Tutankhamon utilizzando il loro spettrometro XRF. Non erano a conoscenza del dibattito sull'origine della lama di ferro del pugnale, tuttavia, mostrarono immediatamente grande interesse.

La mossa successiva fu quella di convincere il Direttore El-Halwagy, fortunatamente molto più motivato dalla ricerca scientifica rispetto ai suoi predecessori. Lo speciale permesso per utilizzare la strumentazione XRF sulla spada di Tutankhamon fu concesso.

Fu subito chiaro che, per poter svolgere un lavoro scientifico di prim'ordine, era necessario coinvolgere nell'analisi dei dati XRF anche esperti di meteoriti, in quanto avrebbero aiutato nella ricerca degli elementi specifici di cui i meteoriti sono composti. Decisi pertanto, di coinvolgere i due Kamiller Folco e D'Orazio. Suggerii di invitare anche un'egittologa italiana, la dott.ssa Giuseppina Capriotti, che, insieme al Direttore del Museo Egizio del Cairo e ai suoi curatori, avrebbe potuto fornire una consulenza sull'impatto egittologico del nostro lavoro.
Il dottor Porcelli insieme alla dottoressa Capriotti.
Il dottor Porcelli insieme alla dottoressa Capriotti.

Ferro, Nichel e Cobalto

I risultati dell’analisi XRF rivelarono che la lama della spada di Tutankhamon era composta prevalentemente di Ferro, ma con la presenza di circa l’11% di Nichel e tracce di Cobalto, circa lo 0,6%. Una tale concentrazione di elementi è tipica del materiale meteoritico, conclusione a cui il gruppo di ricerca italiano arrivò con ragionevole certezza.

I risultati dell’analisi sono stati pubblicati nel 2016 sulla rivista Meteoritic and Planetary Science e misero una convincente parola fine al dibattito circa l’origine della spada di Tutankhamon. I ricercatori cercarono anche di mettere in relazione il materiale della spada con il meteorite di Gebel Kamil, ma la concentrazione relativa di Nichel del meteorite di Gebel Kamil sembra essere diversa da quella della spada di Tutankhamon.

Tra i meteoriti noti, quello la cui concentrazione più si avvicina alla composizione della spada di Tutankhamon è il meteorite di Kharga, anch’esso scoperto in Egitto nel 2000, benché privo del cratere d’impatto. Questo perché il meteorite di Kharga è molto più antico di quello di Gebel Kamil, e per questo motivo il cratere d’impatto di Kharga si è dissolto nel tempo.

Dimora di Nefertiti: sogno o realtà?

Nel 2017 il professore ricevette l’incarico da parte del Ministero delle Antichità egiziano, Khaled El-Anany, di coordinare la terza scansione geo-radar della Tomba di Tutankhamon, al fine di dirimere una controversia riguardante la presunta presenza di camere nascoste dietro le pareti della camera funeraria, da alcuni ipotizzate come la dimora della leggendaria regina Nefertiti. La presenza di una camera nascosta e di un corridoio che avrebbe condotto alla dimora della matrigna di Tutankhamon, era stata teorizzata dall’egittologo inglese Nicholas Reeves. Dando credito a questa ipotesi, l’allora Ministro egiziano delle Antichità, Mamdouh El-Damaty, predecessore di El-Anany, aveva autorizzato una prima scansione radar (GPR, Ground Penetrating Radar, semplicemente tradotto con Geo-Radar in italiano) della tomba. Questa fu assegnata al geofisico giapponese Hirokatzu Watanabe, scelto da Reeves, che nel 2016 confermò al 100% l’ipotesi di Reeves, suscitando estremo interesse e fibrillazione nella comunità egittologica internazionale.

Ingresso della tomba di Tutankhamon e le pareti della camera di sepoltura.

Per confermare le osservazioni di Watanabe venne assegnato ad alcuni esperti di National Geographic il compito di trivellare un piccolo foro e di verificare lo spessore della parete utilizzando un Georadar. Questa seconda scansione georadar non fornì alcuna evidenza della presenza di camere o di spazi vuoti dietro le pareti della camera funeraria e pertanto non fu in grado di confermare le conclusioni di Watanabe. El-Anany, che era stato nominato Ministro delle Antichità il giorno prima di questa seconda scansione radar, ordinò immediatamente di sospendere la trivellazione affidata a National Geographic e decise che sarebbe stata necessaria una terza indagine georadar per giungere ad una conclusione definitiva.

3 team, 3 Georadar, 1 certezza

Fu così che io venni coinvolto in questo progetto. Il mandato era di fornire indicazioni conclusive. Decisi pertanto di coinvolgere il migliore esperto di Geofisica del Politecnico di Torino, il professore Luigi Sambuelli insieme al suo collega Cesare Comina dell’Università di Torino, e due aziende private di studi di geofisica, la 3DGeoimaging di Torino, diretta dal dottore geologo Gianluca Catanzariti e la Geostudi Astier di Livorno, diretta dal dottore ingegnere Gianfranco Morelli. Decidemmo di portare nella tomba di Tutankhamon non uno, ma bensì tre diversi Georadar di diversa frequenza in grado di fornire indicazioni complementari così da minimizzare la possibilità di “falsi positivi”.

I dati georadar raccolti nel 2017 all’interno della tomba di Tutankhamon furono analizzati in maniera indipendente dai tre gruppi che formavano la collaborazione. Ogni gruppo utilizzò tecniche ed esperienze diverse per l’analisi dei dati in modo da eliminare possibili distorsioni. Inoltre, i dati furono raccolti nel corso di scansioni radar della durata complessiva di circa 60 ore nell’arco di sette giorni o, per meglio dire, notti dopo l’orario di chiusura al pubblico del sito, contro le poche ore, meno di otto, dedicate da ciascuna delle due scansioni precedenti.

All'interno della tomba di Tutankhamon.

Potemmo così ripetere, tramite scansioni successive, la raccolta di dati che sembravano indicare la possibile presenza di falsi positivi. Purtroppo, malgrado avessimo cercato in tutti i modi, non trovammo nei nostri dati alcuna evidenza della presenza di camere nascoste o di corridoi dietro le pareti della camera funeraria di Tutankhamon. Possiamo pertanto concludere, con ragionevole certezza, che queste pareti e questi corridoi non esistono.

Il team di ricerca fornì anche una spiegazione dei falsi positivi che portarono Watanabe, autore della prima scansione radar, a conclusioni errate. I risultati del lavoro italiano sono stati pubblicati nel 2019 in due articoli successivi sulla rivista scientifica internazionale Journal of Cultural Heritage.

L’archeofisica, una disciplina promettente

Avremmo di gran lunga preferito poter confermare la teoria di Reeves e passare alla storia come uno dei team che portarono alla scoperta della tomba della leggendaria Nefertiti. Purtroppo, le cose sono andate diversamente, ma devo comunque dire che siamo orgogliosi di aver avuto il privilegio di lavorare in uno dei siti archeologici più importanti del pianeta e di aver dimostrato al mondo intero che l’archeofisica è in grado di dirimere questioni aperte di natura così importante come l’origine meteoritica della spada di Tutankhamon e la possibile presenza della dimora di Nefertiti.
Il prof. Porcelli durante un'intervista vicino alle piramidi di Giza.
Il prof. Porcelli durante un'intervista vicino alle piramidi di Giza.

L’archeofisica, infatti, è l’applicazione di metodologie fisiche all’archeologia che ben si è adattata ai due studi descritti e che, come ricorda il professore, si tratta di una disciplina molto promettente anche se ancora agli esordi e vista con sospetto da molti archeologi tradizionali.

È giusto sottolineare che, mentre il Ministero delle Antichità egiziano ha accettato i risultati del nostro lavoro, lo stesso non si può dire di Reeves e dell’ex-Ministro El-Damaty, che continuano a insistere sul bisogno di continuare a cercare la tomba di Nefertiti intorno a quella di Tutankhamon. Anche se non condivido il loro giudizio sul nostro lavoro, comprendo il loro punto di vista, poiché scoprire la dimora di Nefertiti vorrebbe dire fare la scoperta archeologica del secolo.

Purtroppo, o per fortuna, le misure non vengono influenzate dai desideri degli sperimentatori. Nel frattempo, il successo di questi studi ha portato ad un più ampio progetto che vede coinvolto il Professor Porcelli e altri docenti e ricercatori del Politecnico di Torino denominato La mappatura geofisica completa della Valle dei Re. Un’altra sfida che lega ancor più il capoluogo piemontese alle scoperte sulla civiltà egizia.

👍 Si ringrazia il professore per la diretta testimonianza su queste affascinanti ricerche.

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