Luigi Ambrosini, una vita tra giornalismo e letteratura

Versatilità e vivacità letteraria dello scrittore antifascista

Una delle illustrazioni interne del capolavoro di Ambrosini “Ringhi Tinghi”, disegnate da Carlo Nicco.
Felice Pozzo
Felice Pozzo

Appassionato di storia delle esplorazioni e di letteratura avventurosa, italiana e non, è considerato uno dei maggiori studiosi della vita e delle opere di Emilio Salgari. Ha dedicato all’argomento numerose pubblicazioni e ha curato l’edizione di alcune ristampe salgariane.

  

Se mai si corresse il rischio che Luigi Ambrosini finisca nel dimenticatoio, sede impietosa che non conosce giustizia, resteranno la via che lo ricorda a Fano, dove è nato il 2 novembre 1883, e la via che lo ricorda a Torino, dove è morto nella notte di martedì 10 dicembre 1929 a soli quarantasei anni, lasciando la moglie Maria Majoni e il figlio Luigi Antonio. A quella morte prematura, provocata dalla setticemia, è collegato un episodio arduo da dimenticare.

Una perdita non annunciata

Ambrosini, sin dal 1910, era stato un validissimo collaboratore de La Stampa, quotidiano al quale aveva legato gran parte della sua vita professionale, persino come articolista di fondo e inviato all'estero, eppure sulle pagine di quel giornale non comparve neppure un rigo di cordoglio. Ne era direttore, dal febbraio di quell'anno, il fascista Curzio Malaparte, memore del fatto che tre anni prima Ambrosini era stato processato per le sue dure critiche alle grandi manovre militari volute da Mussolini e svoltesi nel Canavese nel 1925. Quelle critiche furono giudicate oltraggiose per l'esercito, La Stampa fu censurata e ad Ambrosini fu addirittura proibito di circolare liberamente in Piemonte. Nel 1926, appunto, fu processato a Napoli e si vide chiudere le porte dei giornali italiani. Addirittura il segretario della federazione fascista di Torino stabilì “l'obbligo morale” per ogni fascista di schiaffeggiare il giornalista dovunque lo si incontrasse. A informare i lettori del giornale torinese fu dunque un annunzio mortuario a pagamento dettato dalla famiglia, come ha ricordato il professor Andrea Aveto sulla rivista genovese Nuova Corrente nel 2013.

Ritratto di Luigi Ambrosini
Ritratto di Luigi Ambrosini

I due fratelli, Giuseppe e Giorgio

A quella prestigiosa famiglia appartenevano i fratelli di Luigi, Giuseppe, nato a Bologna nel 1886, e Giorgio, nato a Fano nel 1890. Giuseppe, laureatosi in legge a Torino, sarebbe diventato un famoso giornalista sportivo. Nel capoluogo piemontese, nel 1912, fu tra i fondatori del Guerin Sportivo con Giulio Corradino Corradini, che ne fu direttore per ventiquattro anni, con Nino Salvaneschi e altri. È stato caporedattore dei servizi dedicati allo sport proprio a La Stampa; direttore della Gazzetta dello Sport (dal 1950); direttore del Giro d'Italia, nonché autore di libri sul ciclismo, tra cui il fondamentale Prendi la bicicletta e vai! Manuale dell'istruttore e del corridore ciclista, più volte ristampato. Una carriera che ha scandito ogni aspetto della vita sportiva e soprattutto degli anni d'oro del ciclismo italiano. A Cesena esiste un Fondo Ambrosini presso l'archivio fotografico della Biblioteca Malatestiana che lo riguarda.

Giorgio, invece, avrebbe fondato a Torino, nel 1926, la SIATA (Società Italiana Applicazioni Tecniche Auto-Aviatorie, diventata nel dopoguerra Società Italiana Auto Trasformazioni Accessori), attiva sino al 1970. Collegata alla FIAT per numerose realizzazioni, diventò una realtà destinata a lusinghieri successi, con la costruzione di parti meccaniche e di vetture apprezzate in tutto il mondo automobilistico, spesso grazie alla preziosa collaborazione del famoso designer torinese Giovanni Michelotti.

Copertina di
Copertina di "Prendi la bicicletta e vai", Giuseppe Ambrosini, 1952.

Allievo di Carducci

Ma torniamo al nostro Luigi. Laureatosi il 26 giugno 1906 a Bologna in Lettere, fu allievo, fra gli altri, di Giosuè Carducci, al quale proprio in quell'anno fu assegnato il premio Nobel per la letteratura, e del suo successore Giovanni Pascoli.

Il formidabile imprinting ricevuto da Carducci, docente a Bologna dal 1860 al 1904, segnò indelebilmente il suo pensiero e la sua attività, non solo per quanto riguarda la ricerca di una lingua e di una scrittura che avessero dignità letteraria, ma soprattutto, più in generale, con riferimento allo spirito libertario e persino rivoluzionario e all'esigenza di una società dove regnassero incontrastate giustizia e libertà. Non v'è dubbio che, in futuro, il suo antifascismo si sarebbe ispirato a quella scuola.

Nella stessa università aveva studiato Renato Serra, laureandosi nel 1904 con una tesi sul Petrarca discussa proprio con Carducci, e anche Serra, anticipatore della critica stilistica, resterà per sempre legato al modello carducciano, sino alla prematura morte a soli trent'anni sul monte Podgora, durante la terza battaglia sull'Isonzo.

Giosuè Carducci
Giosuè Carducci

L'amicizia con Renato Serra

Nelle aule universitarie bolognesi, i passi di Luigi Ambrosini e Serra si incrociarono ripetutamente, sino a creare un'amicizia rinsaldata dagli stessi ideali e dagli stessi interessi culturali. Il loro sodalizio sarà cementato da un lungo e interessantissimo epistolario (che è stato pubblicato a cura di Andrea Menetti) e già nella primavera del 1907 i due erano impegnati, a Torino, nella creazione di un dizionario italiano-latino per l'editore Paravia. La proposta inerente il lavoro era partita da Ambrosini, e Serra teneva molto a un lavoro del genere pensato per l'uso nel ginnasio.

Il 4 febbraio 1907 aveva scritto a Luigi: "Se ci fosse qualcosa [da fare] a Torino o in vicinanza, che fortuna sarebbe per me!" e Luigi non esitò a inserirlo nel progetto, che coinvolgeva anche Tito Gironi, scrittore e funzionario della Paravia, e il bolognese Francesco Gozzi, compagno di scuola di Serra. Eppure l'impegno si dimostrò particolarmente arduo e si arenò definitivamente nel settembre 1907, dopo pochi mesi. A complicare le cose contribuì l'eccentricità di Serra, che confessava a Luigi: "dopo qualche ora [di lavoro] resto immoto, inerte, colla testa vuota d'ogni pensiero...". Arriverà, a riempire il vuoto di quel progetto fallito, lo storico dizionario Campanini-Carboni, edito da Paravia nel 1911, che andò a sostituire il vetusto vocabolario ottocentesco di Luigi della Noce e Federico Torre.

Copertina dell'edizione del centenario (2011) dello storico dizionario Campanini-Carboni.
Copertina dell'edizione del centenario (2011) dello storico dizionario Campanini-Carboni.

Va aggiunto, per curiosità, che Serra, dotato di naturali disposizioni per diversi sport, sarebbe diventato fraterno amico anche di Giuseppe Ambrosini, il già citato fratello minore di Luigi, con il quale condividerà lunghe ed entusiasmanti gite in bicicletta, ispiratrici di versi intonati all'atmosfera, alla natura, alla vita.

Il periodo a "La Voce"

Per Paravia, Luigi Ambrosini aveva già dato alle stampe, nel 1906, uno studio su Alfredo Trombetti e l'unità d'origine del linguaggio, ma trovò più conveniente, per le sue aspirazioni, trasferirsi a Firenze. Il 20 dicembre 1908 Giuseppe Prezzolini e Giovanni Papini vi avevano fondato, con sede in via della Robbia, La Voce, destinata a diventare una delle più importanti riviste culturali e di costume del Novecento e Luigi Ambrosini vi collaborò da subito, per protrarre la propria poliedrica attività su quelle pagine sino al maggio del 1913. Noto con lo pseudonimo Cepperello, si occupò degli argomenti più disparati, coinvolgenti il costume, la letteratura, la pedagogia, la politica, il giornalismo italiano contemporaneo, la critica. A La Voce, nel 1910, approdò anche Serra, a creare un ulteriore rapporto intellettuale con Luigi, d'altronde mai sopito. Tuttavia, a causa di posizioni sempre più distanti, i rapporti con i colleghi della prestigiosa rivista non erano dei migliori. Ha scritto Gaspare De Caro:

Nonostante il lavoro in comune, l'A. rimaneva culturalmente isolato tra gli scrittori abituali della “Voce”; sul piano politico, poi, dopo un iniziale atteggiamento ostile, di prevalente carattere moralistico, si era andato sempre più accostando a Giolitti, non senza grande scandalo di Prezzolini. Con questo e col Salvemini finì per entrare in polemica aperta e vivacissima, accusandoli, non senza ragione, di dottrinarismo, di trattare "le questioni sempre separate dagli uomini". In particolare ne rifiutò le posizioni sulla questione della spedizione in Libia, respingendone le argomentazioni di carattere economico e sostenendo la necessità di un intervento che tutelasse il prestigio italiano.
Prima pagina de
Prima pagina de "La Voce", edizione di marzo 1911.

Scrisse infatti su La Voce del 5 ottobre 1911:

[...] la politica non è fatta solo di calcoli economici e si può ben mandare una corazzata per uno straccio di bandiera insultata.

"La Stampa" e l'attività di corrispondente all'estero

Aveva d'altronde maggiori possibilità di trattare l'argomento sulla giolittiana La Stampa di Torino, alla quale, come si è detto, aveva cominciato a collaborare nel 1910, persino come inviato a Rodi e in Cirenaica. Convinto sostenitore di Giolitti, collaborò altresì a numerosi giornali di orientamento democratico, quali La Nazione, Il Resto del Carlino e Il Mattino e la circostanza lo condurrà durante il periodo 1920–21 al fianco del potente politico piemontese nel ruolo di capo dell'ufficio stampa della Presidenza del Consiglio.

La Stampa lo inviò anche in Germania, all'inizio del conflitto europeo e raccolse poi le sue corrispondenze nel libro Un mese in Germania durante la guerra. Con un'appendice sul Movimento dei Partiti Politici a cura di F. Rosina, pubblicato da Treves nel 1915. Per qualche tempo trascurò la letteratura, la didattica e la filosofia che lo avevano coinvolto in passato in lavori impegnativi, quali i componimenti poetici Terra, liriche (1906) e Canzoniere Minimo (1912), oppure quali le opere per la scuola Letture per i giovani delle Scuole Popolari, pubblicato a Torino nel 1908, e Il secondo libro di lettura (1912). Senza dimenticare il volume su Francesco Acri, filosofo e storico della filosofia italiana, intitolato appunto Un filosofo mistico e dialettico: Francesco Acri (1909).

Le ultime opere

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Copertina di "Racconti di guerra", Lattes, seconda edizione del 1924.

Ci fu, per la verità, persino un azzardato tentativo teatrale, realizzato con la collaborazione dell'amico e collega Gigi Michelotti: si tratta della commedia Paolo e Virginia, che dopo una deludente rappresentazione nel gennaio 1916 al Teatro Alfieri di Torino, sparì dalle scene, tanto più dopo una stroncatura senza appello di Antonio Gramsci, peraltro dispiaciuto "per l'Ambrosini, del quale ricordiamo con sempre vivo godimento i bozzetti storici di grandissimo valore".

I suoi nuovi libri saranno dunque: Racconti di guerra, pubblicato a Torino da Lattes nel 1917, contenente le sue esperienze di combattente-giornalista e le sue corrispondenze dal maggio 1915 al novembre 1916; Fra Galdino alla cerca. Per la coscienza politica dei Popolari (1920), relativo ai suoi rapporti tutt'altro che idilliaci con il partito popolare di don Luigi Sturzo (1871–1959), nonostante la sua breve adesione a quel partito, inizialmente pensato come potenziale supporto alla politica giolittiana; Teste di legno (dei miei contemporanei) (1920), pagine di accesa polemica politica.

Non v'è dubbio che una delle sue peculiarità fu appunto lo spirito polemico, esibito senza tentennamenti, persino dopo l'avvento di Mussolini, per il quale nutrì una particolare avversione, sino alle conseguenze che già abbiamo anticipato. Fu così che, dopo il 1926, ritornò agli studi letterari, perché impossibilitato dal regime a svolgere la professione giornalistica. Il risultato fu il volume Teocrito, Ariosto – Minori e minimi (1926), raccolta dei suoi migliori saggi critici, e poi Una nuova edizione dell'Orlando Furioso (1929). Nel 1931 è stato pubblicato postumo Cronache del Risorgimento e scritti letterari, a cura di Arrigo Cajumi.

La narrativa per giovani

Abbiamo lasciato per la conclusione la narrativa per la gioventù, come si lascia con un sorridente argomento e una gioiosa stretta di mano un interlocutore con il quale si è parlato forse troppo a lungo di argomenti forse troppo seri. In quell'ambito Luigi Ambrosini ha riversato intenti pedagogici e una sorta di atmosfera poetica, persino in un libro contenente le vicende di Massimo D'Azeglio, Giuseppe Govone, Giovanni Lanza e Quintino Sella ("i bozzetti storici di grandissimo valore" elogiati da Gramsci), che fu pubblicato dalla torinese Paravia nel 1911 con il titolo Cavalieri senza macchia e senza paura.

Copertina di
Copertina di "Cavalieri senza macchia e senza paura", Paravia, 1911.

Lo stesso editore diede alle stampe nel 1922 Sempronio e Sempronella, ristampato nel 1935 e nel 1944 con alte tirature, per accontentare sia la gioventù di quei decenni, sia gli estimatori di Enrico Mario Pinochi, egregio illustratore del libro, molto attivo nell'editoria torinese e futuro realizzatore per Mondadori, tra il 1939 e il 1940, di fumetti disneyani con nuove avventure di Topolino e Paperino.

Ringhi Tinghi

Copertina di
Copertina di "Ringhi Tinghi", edizione Bemporad, 1908.

Il capolavoro di Ambrosini in questo ambito è sicuramente Ringhi Tinghi cucciolo di tigre – storia della giungla, pubblicato nel 1908 da Bemporad di Firenze con 83 illustrazioni del grande Attilio Mussino e ristampato con rinnovata fortuna da Paravia nel 1926 e nel 1944 arricchito da nuove illustrazioni dell'altrettanto grande Carlo Nicco. Terminato nell'estate del 1906, non senza ricordare la celebre giungla di Kipling, fu tenuto in gran conto dall'autore che lo distribuì agli amici con dediche autografe, definendo l'opera “storie d'animali umani”: fra quegli amici figura il torinese Giuseppe Gallico, docente di letteratura italiana e di storia, giornalista, scrittore e cultore di memorie piemontesi.

Ringhi Tinghi è un tigrotto la cui madre è rimasta vittima dei cacciatori e viene accudito dal vecchio rinoceronte Nala Gala, che lo fa allattare da mamma rinoceronte insieme ai suoi cuccioli. I due vivono in una giungla sempre più occupata dall'uomo bianco, tra le disgrazie che una simile presenza può provocare alla svariata fauna che incrocia i destini dei due amici, e chi ne sa più degli altri racconta loro cose inaudite. Così, ad esempio, racconta un vecchio elefante che ha conosciuto la schiavitù impostagli dall'uomo:

Quando è il momento si uccidono l'un l'altro, come fra noi bestie del medesimo sangue non accade se non forse in primavera, mentre l'aria odorosa ci mette in corpo non so quale follia. Gli uomini si uccidono fra loro talvolta a centinaia e migliaia, senza neppure la scusa che abbiamo noi bestie di aver fame, perché gli uomini fra loro non si mangiano.
Dedica di Ambrosini a Giuseppe Gallico.
Dedica di Ambrosini a Giuseppe Gallico.

Il fuoco rosso degli uomini

Cosa di più utile dunque, pensa il tigrotto, di una confederazione che affratelli tutti gli animali della giungla allo scopo di contrastare quell'insolita bestia bianca, che ama persino formare delle cose chiamate eserciti, ossia "moltitudini di uomini tutti vestiti dello stesso colore per andar meglio d'accordo nell'uccidere altri uomini"?

L'idea pare buona e dunque si organizza una utopica e grande assemblea per decidere il da farsi. Tuttavia le riunioni sono soltanto due ed è agevole osservare come l'autore abbia voluto rappresentare una sorta di umanità parallela, dove per giustizia non esiste se non "la vittoria dei forti sui deboli e dei furbi sugli sciocchi", tanto più che gli animali hanno una cosa che li divide e li arma gli uni contro gli altri regolando la loro esistenza, ed è la fame.

Sentenzia il saggio leopardo Cobo:

Mangiarsi gli uni con gli altri sarà sempre la legge principale della nostra vita. Siamo fatti differenti apposta per questo. Strisciando, correndo, volando, non si vede animale che non abbia il suo contrario, voglio dire il suo inferiore che possa mangiare e il suo superiore da cui debba, oggi o domani, essere mangiato.

Illustrazioni interne dell'edizione Paravia del 1926 di "Ringhi Tinghi", disegnate da Carlo Nicco.

Così, senza accordi, l'assemblea si scioglie per sempre, con il beneplacito del grosso leone Zampa Terribile, che afferma con dubbia generosità: "Come capo e signore della giunga ho il dovere di conservare la mia vita a beneficio di voi tutti, amatissimi sudditi". I cuccioli di tigre crescono in fretta ed è arrivato il tempo che Ringhi Tinghi e il suo padre adottivo Nala Gala, il rinoceronte, si separino, al chiarore di una splendida luna piena che evidenzia le loro espressioni pensierose, quasi tristi, e illumina un sentiero che si divide in due, come a sollecitare un distacco imposto dalla natura. Ma si ritroveranno, forse, in una notte come quella, nel luogo dove si incontrarono la prima volta.

"Ma se io non ti vedessi venire, dove potrei cercarti?", chiede Nala Gala. "Se tu non lo vedessi venire al luogo convenuto nel tempo convenuto", risponde il tigrotto, prima di iniziare la sua baldanzosa corsa verso l'ignoto, "vorrebbe dire che Ringhi Tinghi è morto sotto il fuoco rosso degli uomini".

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Bibliografia

  • Ambrosini L., Ringhi Tinghi cucciolo di tigre, Firenze, Bemporad, 1908.

  • De Caro G., Luigi Ambrosini in Dizionario Biografico degli Italiani, vol. 2, Roma, 1960.

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