Storia di un manoscritto misterioso

Da un cassetto segreto, il ritrovamento di un romanzo dal sapore salgariano

Illustrazione tratta dal manoscritto misterioso “La Montagna Fatale”.
Felice Pozzo
Felice Pozzo

Appassionato di storia delle esplorazioni e di letteratura avventurosa, italiana e non, è considerato uno dei maggiori studiosi della vita e delle opere di Emilio Salgari. Ha dedicato all’argomento numerose pubblicazioni e ha curato l’edizione di alcune ristampe salgariane.

  

Agli albori del Novecento, sull'onda del successo di Emilio Salgari, proliferò una quantità indefinita di emulatori che, trainati dalla coinvolgente narrazione di avventure in località esotiche e selvagge, si misero alla prova scrivendo analoghe storie. A questa schiera di alter ego si aggiunge l'autore di un misterioso manoscritto, ritrovato in modo fortuito all'interno di una scrivania in un appartamento torinese. Scorrendo le pagine del documento inizia un'indagine per svelarne i segreti e riflettere sull'influenza stilistica del celebre autore che inaugurò il genere avventuroso in Italia.

Quattro moschettieri in Congo

Il primo capitolo, intitolato Il documento, inizia con una doppia detonazione. La vittima è un'antilope africana, che giustamente l'autore definisce cudù, ed è un grosso maschio con le sue caratteristiche corna elicoidali. Chi, dei due cacciatori che hanno sparato contemporaneamente, lo ha ucciso? Il primo è Porthos, il cui nome da moschettiere è ribadito da quello dei suoi compagni di avventure, Athos, Aramis e D'Artagnan. Il secondo cacciatore, che sapremo essere anche uno scienziato poco raccomandabile, si chiama invece O'Donnel, e il caso ha voluto far incrociare i suoi passi con quelli dei “moschettieri”.

Prime pagine de “Il documento”, il capitolo iniziale del manoscritto misterioso.

Ma non siamo nella Francia del XVII secolo, bensì in Congo all'inizio del XX secolo e dunque l'autore intende rendere omaggio ad Alexandre Dumas. L'antilope risulta colpita mortalmente da entrambi gli spari, circostanza che crea un tenue legame tra tutti quegli uomini, destinati a condividere ben altre avventure, in seguito alla scoperta d'un piccolo contenitore in pelle, fissato al collo dell'antilope, e contenente un inquietante biglietto. In esso uno sconosciuto, che si firma Deborah Whity, dichiara di essere tenuto prigioniero dai selvaggi a Kisigali in Ruanda, e promette in ricompensa a chi lo libererà "un importante deposito di diamanti". Ma, intanto, chi è questo scrittore che assegna il nome Deborah a un uomo?

Fin qui, in ogni caso, è possibile riconoscere facilmente almeno due indizi che ci ricordano l'opera di Emilio Salgari e dopo poche pagine se ne aggiungono molti altri. Ne parleremo.

O'Donnel ha realizzato un gigantesco pallone dirigibile a forma di sigaro, denominato “Artico”, che utilizza per viaggiare con un equipaggio di africani. Ed è con quello che partiranno tutti alla ricerca dell'uomo da salvare e del giacimento di diamanti. Senonché O'Donnel, che ha ereditato le caratteristiche dell'ingegnere misterioso già proprie del Capitano Nemo di verniana memoria e già transitate in seguito nelle pagine di Salgari (che era “allievo”, tra gli altri, di Verne) in diverse opere aeree o sottomarine, ha qui il ruolo dell'antagonista. Perciò non ci stupirà, più avanti, assistere alla sua morte e all'esplosione del suo dirigibile. Il tutto fra avventure in giungle e montagne, tra belve feroci, tribù e ambienti ostili, che oggi definiremmo risapute ma che lo erano un po' meno quando l'opera è stata scritta.

Alcune illustrazioni del manoscritto e la pagina recante il nome di Deborah Whity.

Un lavoro incompiuto

Il romanzo – definiamolo così – si intitola La Montagna Fatale. Le sue 160 pagine, puntualmente numerate dall'autore, sono suddivise in 124 di testo, 17 di illustrazioni dello stesso autore e il resto sono pagine bianche (ad esempio il retro delle illustrazioni). E poi ci sono il frontespizio, che reca il bizzarro timbro “Pro-Nobis”, e la copertina, pure essa illustrata dall'autore. Come finisca la storia, non lo sappiamo. Le ultime parole leggibili sono:

E ciò dicendo non ebbi nemmeno il coraggio di volgermi verso i miei amici, che cercavano il corpo di Aramis...

Frontespizio e pagina finale de “La Montagna Fatale”.

Si tratta dunque di un lavoro incompiuto. A questo punto è evidente che non stiamo parlando di un libro, ma di un misterioso manoscritto. Misterioso perché l'autore si è firmato in copertina con uno pseudonimo: “Porthos de Litaldor” e perché è stato rintracciato nel cassetto segreto, con tanto di chiave e lucchetto, di una vecchia scrivania in stile barocco piemontese nel soggiorno di un appartamento a Torino acquistato ammobiliato. L'appartamento era appartenuto a una coppia di anziani appassionati di arte locale e cultura piemontese, ai quali non è più possibile rivolgersi per ottenere notizie. E lo scrivente non è collegabile a queste intriganti vicende se non per il fatto di aver ottenuto l'incarico di scriverne, tanto più che il documento, sorprendente come quello rintracciato appeso al collo dell'antilope uccisa, va a collocarsi in un capitolo di sociologia della nostra letteratura di consumo che potremmo definire “salgarismo”. Inoltre è stato ritrovato in modo fortuito in quella Torino dove Salgari ha dato il meglio di sé stesso, creando il genere avventuroso in Italia.

La magica influenza di Salgari

Scritto ordinatamente (forse in bella copia), con qualche correzione in corso d'opera e con quel nero inchiostro del tempo antico su pagine non completamente sfuggite all'usura del tempo, presenta l'innegabile fascino della testimonianza di quanto è stata dirompente l'opera di Salgari, quando ancora viveva e, pagato male, compiva la grande magia di descrivere, con la precisione allora possibile, e cioè quando il mondo era ancora immenso e in parte sconosciuto, l'intero globo terracqueo senza staccarsi dal suo traballante tavolino di lavoro. Ciò otteneva il risultato di esaltare le fantasie e persino di innescare in molti la voglia di scrivere, sulla sua scia, così da inondare letteralmente l'editoria italiana di seguaci, imitatori, plagiatori, e così via, in un modo di cui è persino arduo rendere l'idea, considerata l'estensione del fenomeno. Salgari, insomma, aveva creato un genere inedito in Italia e perciò un mercato nuovo, dilagante, irrefrenabile.

Firma dell'autore del manoscritto misterioso.
Firma dell'autore del manoscritto misterioso.

Che poi quel manoscritto sia stato quasi religiosamente conservato, è indizio di entusiasmi e nostalgie proprie di un contesto che oggi forse non sappiamo più apprezzare e indica anche un lavoro eseguito per sé stesso, per puro piacere e senza velleità letterarie. E riusciamo solo a immaginare il gusto con il quale, sotto lo pseudonimo in copertina, il nostro sconosciuto Porthos abbia aggiunto in bella grafia: "Autore, Disegnatore, Pittore & Litografo".

Prove schiaccianti

Perché abbiamo messo in scena Salgari e non altri? Si è accennato a indizi che si andavano accumulando proseguendo nella lettura del manoscritto, ed è tempo di darne conto. In Il capitano della Djumna (1897), Salgari ha scritto degli eroi di turno che, dopo aver fucilato nel Bengala occidentale un'oca migrante, trovano sotto un'ala un piccolo involto contenente una richiesta di aiuto scritta il mese precedente, circostanza che avvia le successive avventure. In Attraverso l'Atlantico in pallone (1896) uno dei protagonisti si chiama O' Donnel e che il nome sia ripreso in un'opera dove compare un dirigibile non è certo casuale.

Copertina del romanzo di Emilio Salgari
Copertina del romanzo di Emilio Salgari "Attraverso l'Atlantico in pallone" pubblicato dagli editori Speirani di Torino nel 1896.

E poi c'è la prova lampante. Si tratta del romanzo La Montagna d'Oro – Avventure nell'Africa Centale (1901), pubblicato da Salgari con lo pseudonimo Guido Altieri presso l'editore Salvatore Biondo di Palermo. Noto anche col il titolo Il treno volante, vi si narra infatti di un viaggio avventuroso a bordo di una sorta di dirigibile Zeppelin, e la spedizione trae le mosse da un sacchetto contenente una lettera, trovato appeso al corno di un'antilope uccisa. Nella lettera un esploratore inglese, John Kambert, chiede aiuto perché prigioniero di una tribù selvaggia e promette a chi lo libererà la rivelazione d'un luogo in montagna contenente ricchezze incalcolabili. E non vi sono, in quel romanzo (oltre al titolo), la copertina e alcune illustrazioni che hanno con sin troppa evidenza ispirato i disegni presenti nel manoscritto?

Copertina del manoscritto misterioso e del romanzo “La Montagna d’Oro” pubblicato da Emilio Salgari, a confronto.

Sulle tracce di Porthos de Litaldor

Il nostro Porthos de Litaldor ha una grafia che non è affatto così infantile come lo sono i suoi disegni, ma anche gli adolescenti o gli adulti non sono tutti bravi a disegnare, perciò non è agevole assegnargli un'età così come è impossibile assegnargli un'identità. Anagrammando la parola “Litaldor” si ricavano alcuni nomi: Italo, Dario, Aldo, ma – si capisce – è come cercare un quadrifoglio tra gli scogli. Si può solo affermare con certezza che il suo lavoro è successivo al 1901 e molto vicino al momento in cui fu terminata la lettura della Montagna d'Oro, se si considera come e quanto quelle pagine abbiano influenzato l'autore del manoscritto.

Pagine interne del romanzo “La Montagna d’Oro – Avventure nell’Africa Centale” con le illustrazione di Corrado Sarri.

Altra cosa certa è che costui adorava le opere di Dumas e di Salgari, due autori che hanno infiammato le fantasie di molte generazioni, se ancora Cesare Pavese, nel 1929, scriveva a Carlo Pinelli d'aver trascorso l'inverno "rileggendo Salgari e il ciclo dei moschettieri". C'è anche da dire che quel manoscritto, previa una revisione (non ci sta che un uomo si chiami Deborah, ad esempio) utile ad attenuare qualche ingenuità, avrebbe potuto facilmente trovare pubblicazione in uno dei tanti giornali e riviste di viaggi e avventure, che, in fondo, non pubblicavano nulla di migliore e vivevano sulle collaborazioni non solo gratuite ma altresì richieste con ardore da migliaia di giovani, ansiosi di apparire su quelle pagine che occupavano il posto, nelle edicole, che sarebbe poi appartenuto ai fumetti, allora inesistenti.

Cercasi nuovo Salgari disperatamente

La rivista “Il Giovedì”.
La rivista “Il Giovedì”.

A Torino avevano da tempo grande diffusione i periodici degli editori Speirani, in particolare Il Giovedì, Il Novelliere Illustrato e il Silvio Pellico, che la precedente e assidua presenza di Salgari aveva praticamente trasformato da – potremmo dire – bollettini parrocchiali, in settimanali di avventure. Dopo l'esodo di Salgari, sul finire del 1897, i disperati editori torinesi avevano accolto a braccia aperte chiunque dimostrasse di poterlo sostituire con un minimo di decoro. Fu così che iniziarono la loro carriera autori come Guglielmo Stocco, che esordì nel 1900 su Il Giovedì a soli 14 anni, e Francesco Cazzamini Mussi, con lo pseudonimo Francesco Margaritis, all'opera ancor più giovane, solo per citare due nomi che avrebbero fatto strada nel mondo letterario, imitando sfacciatamente Salgari prima di trovare strade nuove.

Autori come Antonio Garibaldo Quattrini (1880–1937) e Luigi Motta (1881–1955), i più noti e risoluti imitatori e plagiatori di Salgari, entrambi esordienti giovanissimi, non solo avrebbero pubblicato racconti e romanzi a tamburo battente, ma avrebbero anche diretto settimanali avventurosi, sorti ad imitazione di quello diretto e fondato dallo stesso Salgari a Genova: quel Per Terra e per Mare (1904–1906) che il creatore di Sandokan dovette abbandonare nel pieno del successo, decretandone la fine, dopo aver cambiato editore.

Frontespizio de “Il Novelliere Illustrato” del 1901.
Frontespizio de “Il Novelliere Illustrato” del 1901.

Quattrini, sul suo Viaggi e Avventure di Terra e di Mare, e Motta, sul suo L'Oceano, l'un contro l'altro armati in polemiche concorrenziali, ospitarono centinaia di operine giovanili, incoraggiando così esordienti e appassionati. Qualcuno di loro sarebbe poi apparso nelle librerie con nuove imitazioni salgariane, in una proliferazione che sembrava non conoscere tramonto e che a Salgari, impotente di fronte al mostro che lui stesso aveva involontariamente creato, appariva giustamente sia come una concorrenza sleale, sia come un imponderabile rischio di saturazione di quel mercato che forniva di che vivere, sia pure in modo inadeguato, a lui e alla sua numerosa famiglia.

E si moltiplicavano anche le riviste analoghe. Comparvero nelle edicole Il Vascello (1906), Il Mare (1907), redatti entrambi da Mario Contarini (1887–1907), nuova leva salgariana, mancato giovanissimo prima di poter esprimere tutte le proprie potenzialità, e poi Atlantide (1907), che fece una comparsata anche a Torino per poi trasferirsi a Genova, La Sfinge e molte altre. Chi ricorda più autori come Icilio Bianchi, Umberto Cei, Guido Molinari (esordiente sul Per Terra e per Mare di Salgari), Americo Greco (diventato ghostwriter di Salgari dopo la sua morte), Carlo Merlini, Italo Quirini, Anton E. Zuliani? La lista sarebbe infinita, come è stata, e in buona misura è tuttora, la storia del salgarismo in Italia, se si pensa alle ricadute importanti che l'opera di Salgari ha avuto ed ha ancora nel mondo dei fumetti, del cinema, della televisione, del teatro e nei mille rivoli di cui si nutre la cultura popolare (e non solo).

Il periodico in cui non si parla d'amore

Anche Torino ha avuto il suo duraturo eppure dimenticatissimo periodico settimanale illustrato di avventure e viaggi, fondato nel 1902, da aggiungersi a quelli più noti editi da Speirani. Si chiamava La Gioventù.

Il dimenticatoio, mai così inclemente, è forse dovuto al fatto che si trattò di una pubblicazione cattolica, stampata appunto dalla Tipografia Editrice Cattolica con sede in Via Passalacqua n. 4 a Torino. Era diretta da un certo Teol. G. Magliano, il quale accoglieva in prevalenza collaborazioni nel suo ambiente e, nella Piccola Posta, avvertiva:

Non pubblichiamo lavori in cui si parli d'amore se, per la maniera in cui sono condotti, non manchi loro ogni incentivo alla passione, e non tornino di notevole eccitamento alla virtù.
La rivista torinese
La rivista torinese "La Gioventù".

In compenso vi trovò ampio spazio il già citato torinese Italo Quirini, e il fatto che il suo nome di battesimo sia tra quelli che si ricavano anagrammando "Litaldor" non intende essere un'allusione. Costui collaborò assiduamente anche con gli editori Speirani, in particolare, nel 1905, nella collana "Piccole Avventure di Terra e di Mare – Bibliotechina Illustrata", sorta espressamente per ospitare Salgari, nascosto dallo pseudonimo "Cap. Guido Altieri", che vi pubblicò tredici racconti. Poi dovette smettere, perché impegnato in esclusiva altrove, lasciando, come in passato, spazio agli imitatori. Il nostro Quirini, di cui mancano notizie biografiche, pubblicò in quella bibliotechina i racconti Fra i Tuareg del Sahara, Alle prese con un elefante, L'odissea di uno schiavo, I feticisti dell'Alta Guinea, e su La Gioventù apparve a puntate il suo interminabile romanzo Il figlio del Rajah (mai comparso in volume) con tanto di strangolatori e belve di salgariana memoria.

Se mancano notizie biografiche su di lui è perché si tratta di uno pseudonimo, considerato che alla Biblioteca nazionale centrale di Firenze è conservato il romanzo di avventure Drammi esotici, pubblicato dalla Tipografia Cecchini di Torino nel 1930 e firmato Alfonso Scassa seguito, tra parentesi, da “Italo Quirini”. Come dire: Alfonso Scassa meglio noto come Italo Quirini. Ma anche cercare notizie su Alfonso Scassa è tutt'altro che agevole.

Le maschere e gli alter ego di Emilio Salgari pullulano nella giungla dell'avventura di carta del passato (e non solo) come in estate le zanzare a Vercelli e dintorni, perché, dopo tutto, si trattava di una letteratura che molti affrontavano con disinvoltura senza metterci la faccia, consapevoli di far parte di una moltitudine di imitatori senza futuro, spinti da quella scossa elettrica che emanava dalle pagine di Salgari alla quale non si poteva resistere.

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Bibliografia

Pozzo F., Emilio Salgari e dintorni, Napoli, Liguori, 2000.

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