Nell’immaginario collettivo, il ritorno di re Vittorio Emanuele I a Torino nel maggio del 1814 inaugurò quel periodo comunemente conosciuto come Restaurazione che, tra tutti gli stati preunitari italiani, proprio nel Regno di Sardegna raggiunse il suo apice per esaltazione e furore ideologico. Tuttavia, è oramai storicamente assodato che la Restaurazione in Piemonte sia stata più ideale che reale e che molte delle innovazioni amministrative del periodo napoleonico che avevano dimostrato la loro utilità ed efficacia, abbiano continuato a vivere sotto altre vesti, accanto magari a vecchie istituzioni d’Antico Regime riportate di nuovo in vita. Uno dei rami della cosa pubblica che conobbe maggiormente questa curiosa commistione tra vecchie e nuove istituzioni fu quello dell’ordine pubblico.
Nel settore della pubblica sicurezza, il quindicennio di dominazione francese aveva effettivamente tracciato un solco, sostituendo il farraginoso sistema repressivo del Regno di Sardegna con l’introduzione nelle campagne della gendarmeria, composta da reparti armati agili e radicati sul territorio, e nelle città di una polizia di tipo moderno che avrebbe attuato un controllo capillare su tutti i settori della società urbana. Soprattutto nelle campagne la repressione della gendarmeria era riuscita a ottenere notevoli risultati, ridimensionando il fenomeno del brigantaggio piemontese che, nei secoli precedenti, era stato uno dei problemi non risolti dell’amministrazione sabauda. Così, al momento del ritorno nei propri domini di Terraferma, i Savoia decisero di non stravolgere un sistema che aveva dato così buona prova di sé, istituendo già nell’estate del 1814 un corpo armato, quello dei Carabinieri Reali, che avrebbe dovuto svolgere le funzioni di controllo della scomparsa gendarmeria francese.
Allo stesso modo, dopo alcuni tentativi abortiti, le Regie Patenti del 15 ottobre 1816 portarono alla costituzione di un Ministero di Polizia che, pur ispirandosi al modello del francese Ministère de la police gènèrale, presentava una curiosa commistione di personale civile e militare che era una caratteristica tutta sabauda. Infatti, le funzioni di polizia erano svolte dai governatori militari posti a capo di ciascuna provincia, che, tuttavia, erano affiancati, nei capoluoghi, da un ispettore e da un sotto-ispettore civile cui erano affidati i compiti più espressamente operativi. Questo sistema, già di per sé poco coerente, ebbe comunque vita breve: poco dopo la repressione del moto della primavera del 1821 il Ministero che aveva dato ben scarsa prova di sé facendo poco o nulla per prevenire l’insurrezione, venne abolito e l’amministrazione di polizia, passata sotto le dipendenze della Segreteria per gli affari Interni, venne militarizzata con il passaggio delle competenze di ordine pubblico alla burocrazia militare.
In questo scenario, la capitale sabauda rappresentava un’eccezione. Infatti, a Torino i compiti di controllo dell’ordine pubblico vennero affidati all’Ufficio del Vicariato, un’istituzione antichissima che i Savoia ripristinarono appena ritornati nella capitale. Le origini del Vicariato sprofondavano addirittura nell’età comunale, ma le numerose trasformazioni di cui l’ente era stato oggetto tra Seicento e Settecento ne avevano fatto un ufficio che, pur conservando il proprio carattere municipale, era saldamente incardinato nell’impianto statale dello Stato sabaudo. Le sue competenze spaziavano dall’ordine pubblico all’igiene, all’annona, fino alla sorveglianza sui mercati. La struttura dell’ufficio era alquanto complessa: oltre al vicario che era scelto ogni due anni dal sovrano in una rosa di tre candidati fornitagli dal consiglio comunale, vi era un luogotenente che ne faceva le veci in caso di assenza, due assessori che presiedevano il locale tribunale del Vicariato, e quattro commissari deputati al controllo dell’ordine pubblico e alla vigilanza sui mercati e sulle questioni relative all’igiene. Le competenze propriamente esecutive erano affidate a una forza esigua, composta da ventisei guardie civiche, incaricate del servizio giornaliero presso l’ufficio, e da quattordici arcieri che avevano il compito di provvedere agli arresti, alle perquisizioni e al servizio di custodia.
L’esistenza di nuovi apparati di controllo accanto a quelli che più incarnavano la continuità con l’Antico Regime, rimase un tratto peculiare dell’apparato di polizia sabaudo fino al 1848. Parimenti, gli stessi metodi di sorveglianza presentavano un'unione tra nuovi e vecchi elementi: alle ambigue modalità di controllo utilizzate nel passato come il ricorso ad “agenti segreti” prezzolati o alla denuncia per lettera anonima, o l’importanza data alla “voce pubblica” per l’individuazione del reo, si accompagnavano valide innovazioni dal punto di vista pratico portate dalla dominazione francese, come l’introduzione dei libretti di lavoro e dei passaporti per l’interno. Sempre dal periodo della dominazione francese derivò una migliore organizzazione burocratica e una spiccata attenzione alle opinioni politiche reputate pericolose, come il liberalismo e il mazzinianesimo. Negli anni della Restaurazione e, a maggior ragione, dopo i moti del 1821, la polizia sabauda “politicizzò” l’attività repressiva, ampliando il proprio sguardo, prima circoscritto ai soli ceti subalterni, anche sui membri della borghesia e dell’aristocrazia. In mancanza di una legge che ne fissasse i limiti, l’azione della polizia sabauda aveva modalità del tutto discrezionali, tanto da sfociare in atti di arbitrio indiscriminato in moltissimi casi.
Neanche la salita al trono di Carlo Alberto nel 1831 cambiò la situazione. Pur rendendosi fautore di un generale rinnovamento delle strutture amministrative dello stato (la promulgazione del Codice Civile nel 1835 e del Codice Penale nel 1839), il nuovo sovrano, riguardo al settore della polizia, deluse le aspettative di chi lo sosteneva, innovando poco o niente l’apparato repressivo. Anzi, fu proprio durante i primi anni del suo regno che l’apparato di polizia sabaudo acquisì un peso e una preponderanza nella vita politica e sociale del paese fino ad allora sconosciuti. Del resto, la pericolosa presenza di organizzazioni settarie esigevano provvedimenti duri. Già solo qualche giorno dopo la morte di Carlo Felice, nella capitale sabauda si era sparsa la voce che una piccola società segreta formata da giovani ufficiali e da avvocati, definitisi “Cavalieri della libertà”, stava preparando un’insurrezione per ottenere la concessione di una costituzione. Data la scarsissima consistenza del gruppo e la palese impossibilità di far scoppiare una rivolta, Carlo Alberto non infierì con la repressione, tanto più che molti congiurati, ai primi arresti, avevano pensato di rifugiarsi immediatamente all’estero. Tuttavia, la sua reazione fu ben diversa quando nel 1833 si scoprì un vasto progetto di congiura, coordinato dalla neonata “Giovine Italia”, che avrebbe dovuto toccare tutti i punti nevralgici del Regno: quattordici persone vennero giustiziate, altre trentasette vennero condannate a vari anni di galera e circa duecento furono esiliate o costrette a rifugiarsi all’estero prima di cadere nelle mani della polizia. La durezza delle condanne e le procedure con le quali erano stati condotti i processi suscitarono un’ondata di proteste da parte dell’opinione pubblica liberale internazionale contro la “piena illegalità morale” con cui era stata condotta la repressione.
È molto probabile che, con lo stabilizzarsi della situazione politica interna e con l’avvicinarsi, a partire dagli anni Quaranta, ad ambienti più moderati, il sovrano prevedesse un mitigamento dell’azione repressiva e una generale riforma degli apparati di polizia del Regno di Sardegna. Qualunque fossero i suoi progetti, tuttavia, nell’ottobre 1847 il malcontento popolare e la montante agitazione dell’opinione pubblica lo convinsero a orientarsi verso soluzioni più liberali. Il 29 ottobre, alcuni decreti reali rivoluzionarono tutto il settore dell’ordine pubblico: il Vicariato venne soppresso e la gestione della polizia fu trasferita dalle mani dei governatori militari a quella degli intendenti, preludio alla nascita un anno dopo dell’Amministrazione di Pubblica Sicurezza. Si trattò di un'innovazione fondamentale per tutto il settore, poiché per la prima volta i poteri della polizia vennero detenuti unicamente da funzionari civili. Con le riforme dell’ottobre 1847 la monarchia sabauda, in modo del tutto rapido e imprevisto, completò, cancellando quanto era rimasto dell’Antico Regime, quel lungo percorso di rinnovamento delle proprie strutture amministrative che aveva incominciato gradualmente nei giorni del suo ritorno in Piemonte. I settori della giustizia e della polizia che, seppure in grado diverso, avevano mantenuto un’impronta settecentesca, ne uscirono completamente rinnovati. Di lì a poco la promulgazione dello Statuto, concedendo nuovi diritti individuali, aprì un nuovo dibattito sul rapporto tra queste e i poteri pubblici, polizia in primis.
Al termine della Prima guerra d’indipendenza, infatti, il nuovo governo liberale dovette trovare una risoluzione alle annose questioni legate all’ordine pubblico, complicate ancor di più dalla massiccia emigrazione politica proveniente soprattutto dal Lombardo-Veneto. Il problema centrale era formare moderni ed efficienti strumenti di controllo delle cosiddette “classi pericolose” senza andare contro alle garanzie che lo Statuto accordava all’individuo. Gli anni Cinquanta videro quindi un torrenziale avvicendarsi di leggi, regolamenti e circolari che risistemarono tutto l’apparato di polizia: tra queste, passi decisivi furono l’emanazione del regolamento organico per le Guardie di Pubblica Sicurezza e soprattutto la legge provvisoria sulla pubblica sicurezza del 26 febbraio 1852, che delineò già una parte di quei provvedimenti e di quei meccanismi che sarebbero poi passati nella più estesa legge dell’8 luglio 1854, e da qui a quella, emanata a parlamento chiuso, del 1859.
Nonostante questo vero diluvio legislativo, se analizziamo con attenzione tutto questo materiale è facile osservare come, al di là delle dichiarazioni d’intenti, il conflitto tra garantismo costituzionale e nuovo ordinamento di polizia rimase sostanzialmente irrisolto: la nuova legislazione, infatti, non applicò il principio retributivo, per cui la pena doveva sempre essere proporzionata al reato commesso, poiché non prese in considerazione l’operato dell’individuo ma la sua pericolosità sociale, cioè i rischi, veri o presunti, per l’ordine pubblico. Questa visione del problema fece sì che, mentre il garantismo costituzionale e i progressi della cultura giuridica portarono alla separazione tra amministrazione della giustizia e poteri di polizia e a tutta una serie di limiti processuali a favore del cittadino, parallelamente nella disciplina della sicurezza pubblica si affermò una logica volta a colpire tramite misure amministrative comportamenti o modi di essere su cui non si poteva più intervenire altrimenti. Da questo punto di vista, la repressione sul mondo degli emarginati e dell’opposizione politica mazziniana non cambiò molto tra il prima e il dopo Statuto.
All’arbitrio e alla confusione precedenti al 1848 subentrò una normativa volta a creare strumenti di controllo e repressione verso determinate categorie quali gli oziosi, i vagabondi, i ladri di campagna, gli emigrati politici sospettati di crimini comuni o di idee repubblicane, nei quali le garanzie giuridiche erano attenuate e potevano anche venire del tutto sospese, come accadde per i mazziniani dopo la rivolta di Genova del 1849, il moto milanese del 1853 e il tentativo insurrezionale, ancora a Genova, nel 1857. In queste occasioni il governo procedette a drastiche epurazioni degli elementi indesiderati, incarcerandoli e deportandoli oltremare. A volte bastava semplicemente essere un esule senza mezzi di sussistenza per venire arrestato e condannato a qualche mese di carcere. Proprio di fronte a un forte elemento di novità e di vivacità politica per il Piemonte post-quarantottesco, quale fu la presenza di decine di migliaia di fuoriusciti, sia italiani che esteri, si colgono appieno le continuità tra le pratiche di polizia del governo assoluto e quelle del governo liberale. Disparità di distribuzione dei soccorsi, privilegi ingiustificati, inflessibili dinieghi che colpivano i più poveri o coloro che erano considerati avversari politici, il controllo poliziesco attraverso il ricorso a spie e a continui ricatti per estorcere informazioni, furono prassi corrente, sino a che, alla vigilia della Seconda guerra d’indipendenza, gli emigrati, oramai in gran parte favorevoli alla politica cavouriana, apparvero sotto una luce diversa: non più un fardello a malapena tollerato, ma una pedina preziosa da muovere in funzione antiaustriaca.
Infine, in materia di sicurezza dello Stato, il processo inverso, dall’autorità civile a quella militare, e l’attenuazione della distinzione tra poteri di polizia e amministrazione della giustizia, era sempre possibile, e così avvenne con la promulgazione di semplici decreti reali di stato d’assedio nel 1849 a Genova e nel 1852 in Sardegna. La facilità e la rapidità con cui lo stato d’assedio fu proclamato, soprattutto nel secondo caso, quando non si dovette fronteggiare una vera e propria sommossa, favorì la piena accettazione da parte dell’élite liberale della tesi per cui la sua dichiarazione era di sola competenza dell’esecutivo, senza alcuna ingerenza del legislativo, creando un precedente ai successivi impieghi di questo strumento eccezionale negli anni postunitari. Così, nonostante la costante attenzione da parte del parlamento e della pubblicistica a far sì che i diritti individuali garantiti dallo Statuto fossero rispettati, le varie “emergenze” delinquenziali, reali o presunte, che costellarono il Piemonte per tutto il decennio, fecero prevalere le ragioni dell’ordine e indussero alla conservazione delle contraddizioni e delle ambiguità del sistema. Ben prima che i problemi d’ordine pubblico causati dall’unificazione imponessero la presa di misure drastiche per il mantenimento dell’ordine pubblico, già nel Piemonte preunitario il motivo dell’emergenza fu la giustificazione adotta per l’attuazione di provvedimenti legislativi severi o di misure lesive della libertà individuale. In questo senso, sono significative le parole che Angelo Brofferio, già antico “Cavaliere della libertà” e ora esponente della sinistra parlamentare e battagliero segnalatore delle violazioni operate dalla polizia e dalla magistratura, pronunciò per motivare la propria decisione di votare a favore della legge di pubblica sicurezza del 1852:
Nulla, o signori, di più grave e di più arduo che la discussione di una legge di sicurezza pubblica, imperocché si ha a risolvere il difficilissimo problema di tutelare più che si può la pubblica sicurezza, e di offendere meno che si può la libertà individuale. Se io volgo la mente a questo progetto di legge provvisoria del Ministero, debbo confessare che si ebbe assai più rispetto alla sicurezza pubblica che non alla libertà individuale; e se io dovessi approvarla in circostanze e in tempi normali, ricuserei assolutamente la chiesta approvazione. Tuttavolta ragion vuole si riconosca che viviamo in tempi eccezionali, in cui i delitti sono moltiplicati e frequenti. E ciò vuolsi in parte attribuire alle dure prove per cui dovemmo passare, in parte alle infelici condizioni dell’Italia, d’onde ci sono con protervi intendimenti mandati uomini di mal affare e di ree consuetudini. Queste considerazioni sino ad un certo punto m’indurranno ad accostarmi, se non totalmente, almeno in parte al progetto ministeriale.
In sostanza, nel Regno di Sardegna liberale è presente in nuce già l’inevitabile esito di quel conflitto tra la necessità di una severa repressione dei comportamenti illegali e la tutela dei diritti che lo Statuto concedeva all’individuo. Una questione rimasta sostanzialmente irrisolta e che sarebbe poi esplosa all’avvio del processo di unificazione nazionale con tutti i problemi d’ordine pubblico che ne conseguirono, e i provvedimenti che furono varati per contrastare le proteste e il brigantaggio delle province meridionali: solo questa gravissima crisi farà sembrare, a posteriori, il Piemonte liberale degli anni Cinquanta un’oasi di ordine e di tranquillità, ben gestita da istituzioni eque e garantiste, poi degenerate con la nascita dello stato unitario.
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