Il periodo comunemente conosciuto come Risorgimento (che, secondo il dettato di alcuni storici, iniziò nel 1814 con il ritorno dei Savoia e si concluse nel 1861 con l’unificazione nazionale) fu denso di cambiamenti per Torino e per il Piemonte, non solo dal punto di vista politico, ma anche sociale ed economico. Un ottimo punto di osservazione per lo studio di questi processi può essere quello del mondo della criminalità che, nel caso di Torino, ha lasciato un’ampia documentazione, oggi conservata presso l’Archivio di Stato e presso l’Archivio Storico della Città di Torino. È proprio dall’analisi di questi ricchi fondi archivistici che parte la mia ricerca, confluita poi nel libro, Torino fuorilegge. Criminalità, ordine pubblico e giustizia nel Risorgimento, edito da Franco Angeli.
Come era la criminalità a Torino nel momento del ritorno dei Savoia nella loro antica capitale? Prima di rispondere a questa domanda, dobbiamo, innanzitutto, fare il punto su come fosse Torino all’inizio del XIX secolo. Sembra scontato da dire, ma la capitale sabauda era una città radicalmente diversa da quella città industriale che si avvierà a essere alla fine del secolo e poi nel Novecento. A inizio Ottocento, Torino basava la propria economia cittadina essenzialmente sul proprio ruolo di capitale e sull’indotto che le garantiva di essere il centro del potere e dell’amministrazione dello Stato. Infatti, la presenza della corte, della nobiltà, dell’alta burocrazia e dei più importanti istituti religiosi del Regno esercitava un forte richiamo creando attorno a sé un nugolo di servizi e di commerci che prosperavano per la loro vicinanza con le élites.
In tutte le statistiche elaborate nella prima metà dell’Ottocento, i lavoratori del settore dei servizi (servi, domestici, cuochi e cocchieri) occupavano il primo posto in quanto a numero di lavoratori, coinvolgendo una fetta della popolazione torinese che si avvicinava al 10% degli abitanti, ed erano poi seguiti a una certa distanza dai commercianti e dai negozianti. Molto limitato era, invece, il settore più propriamente produttivo: a parte pochissime grandi o medie industrie, peraltro legate perlopiù al mondo della tessitura o ai grandi monopoli statali (Arsenale, Manifattura Tabacchi, Zecca di Stato), quasi tutte le lavorazioni mantenevano un carattere artigianale ed erano disperse in una miriade di laboratori di piccolissime dimensioni. Inoltre, cosa da non dimenticare, l’esteso contado che circondava la città, oltre a rappresentare un ricco serbatoio di risorse alimentari per gli abitanti della capitale, dava a molte aree del territorio comunale uno spiccato carattere agricolo.
In questa realtà dai caratteri molto tradizionali, la malavita torinese dell’inizio dell’Ottocento manteneva le caratteristiche di quella dei secoli precedenti, proprie di una società d’Antico Regime e di una realtà agricola come quella del Piemonte di allora. I fatti di sangue erano sporadici, i crimini con uso di effrazione o con lo scasso numericamente poco rilevanti, mentre vi si registrava una netta prevalenza di piccoli reati contro la proprietà che comprendevano il furto da strada, il borseggio, le piccole truffe. Questa criminalità da strada, percepita dai contemporanei come più molesta che pericolosa, era alimentata dagli onnipresenti fenomeni di vagabondaggio e di mendicità che, partendo dalle campagne, trovavano in Torino il suo più attivo catalizzatore. Per quanto le autorità sabaude cercassero di contrastare qualsiasi movimento non autorizzato sul territorio dello Stato, ben poco potevano fare con questi spostamenti di massa, connaturati a una realtà rurale come quella piemontese, segnata da una povertà endemica e, in molte zone, da una piccola proprietà fortemente sottoposta alle congiunture negative.
Per quanto le statistiche dell’epoca non possano ovviamente dirsi precise, si stima che negli anni Quaranta dell’Ottocento nello Stato sardo vi fossero 450.000 indigenti, ovvero incapaci di vivere con i propri mezzi e con il proprio lavoro, con una proporzione di nove ogni cento abitanti, superiore a quella di Inghilterra, Francia, Austria, Spagna e Portogallo. Inoltre, per i contadini dei dintorni di Torino era una consuetudine abituale, una volta finiti i lavori nei campi, spostarsi temporaneamente in città per cercare un modo di sopravvivere alla stagione invernale. In molti, soprattutto se uomini e adulti, riuscivano a riconvertirsi in lavori di ripiego, tuttavia, per chi non ci riusciva (per ragioni di salute, di età, di sesso o per mancanza di capacità professionali) non restava che affidarsi alla carità pubblica e privata, o, in alternativa, ricorrere ad espedienti più o meno legali per sopravvivere.
Se in città la criminalità rimaneva una delinquenza dalla bassa pericolosità, ben più turbolenta era la situazione nelle campagne. Qui il livello di violenza era decisamente più alto e gli atti di brigantaggio e le aggressioni a scopo di rapina erano frequenti e arrivavano a lambire fin quasi le porte della capitale. Soprattutto il cosiddetto Pian dei Boschi, un piccolo altipiano sulla strada tra Torino e Pino Torinese, e i dintorni del ponte sul Sangone presso Moncalieri erano particolarmente mal frequentati tanto che era pratica comune per i viandanti percorrere le strade in gruppo, soprattutto di notte. Le statistiche elaborate a partire dagli anni Trenta, pur nella loro precarietà, ci confermano chiaramente l’entità di questi pericoli. Il reato di “grassazione” (l’aggressione a mano armata a scopo di rapina) occupava il terzo posto, dopo il furto e la rissa, tra i reati più frequenti sul territorio del Regno di Sardegna e, nonostante le pene pesantissime, è probabile che godesse di un largo margine di impunità dato il non altissimo numero di individui condannati annualmente per questo crimine.
Questo scenario così statico, tuttavia, andò incontro a graduali cambiamenti con il passare dei decenni. La ragione principale fu la sostenuta crescita demografica che Torino conobbe nell’arco di un cinquantennio: la città passò dagli 84.000 abitanti del 1814 ai 136.000 del 1848 con una crescita superiore all’aumento di residenti di tutto il secolo precedente, e poi esplose letteralmente durante il decennio preunitario, arrivando in pochi anni a superare la quota-simbolo dei duecentomila abitanti. Questa esplosione demografica ebbe degli effetti devastanti sugli strati urbani più poveri dato che il tessuto produttivo ed economico della città non riuscì a svilupparsi con la stessa velocità producendo così un eccesso di manodopera che il mercato del lavoro cittadino non era in grado di assorbire. Inoltre, la gran parte degli immigrati, provenendo dalle campagne, non aveva particolari specializzazioni professionali e spesso, una volta insediatasi a Torino, si ritrovò a stretto contatto con gli strati cittadini più poveri ed emarginati. Anche il boom economico degli anni Cinquanta non influì più di tanto sulle condizioni economiche dei cittadini più poveri che, in gran parte, continuarono a rimanere esclusi dallo sviluppo produttivo e commerciale del Regno di Sardegna.
All’interno della città si vennero così a formare vere e proprie sacche di povertà ben individuabili nel tessuto urbano come nel caso di alcune zone della città vecchia o del Moschino. Quest’ultimo ne è forse l’esempio più clamoroso: nato come modesto quartiere di pescatori e di barcaioli sulla riva del Po a poca distanza dall’aulica piazza Vittorio, nel corso dell’Ottocento, grazie alla sua posizione periferica, si trasformò in un ricettacolo di prostitute e di miserabili. L’immaginario collettivo arrivò a fare di questo piccolo borgo un quartiere pericoloso “dove le guardie di polizia non possono nelle ore notturne tranquillamente circolare senza pericolo”, e, sebbene queste immagini fossero largamente esagerate, furono pochi i torinesi che lo rimpiansero quando nel 1872 il Comune ne decise l’abbattimento per la costruzione degli attuali Murazzi.
Accanto alla criminalità scarsamente aggressiva dei decenni precedenti, composta perlopiù da vagabondi, prostitute e accattoni provenienti dalle campagne, iniziò così ad affiancarsi una delinquenza più moderna che traeva origine dal crescente disagio dei ceti urbani più poveri. Mentre nelle campagne, da sempre il punto debole del sistema di sicurezza interno dello Stato sabaudo, il generale miglioramento della rete stradale rese più facile per le forze dell’ordine il controllo delle aree rurali, rendendo più complicato il formarsi di grosse bande di briganti, la situazione dell’ordine nella capitale peggiorò drasticamente e Torino incominciò a essere percepita come una realtà urbana dai caratteri inquietanti e pericolosi, in maniera non dissimile a quanto stava capitando a città ben più grandi in Francia o in Inghilterra.
Per quanto i contemporanei esagerassero ampiamente le loro cupe visioni, è indubbio che proprio in questo periodo la criminalità torinese assunse delle caratteristiche nuove, ben più problematiche e turbolente. Le aggressioni a scopo di rapina, un tempo quasi esclusivamente limitate alle strade di campagna del contado, iniziarono a registrarsi anche nel centro urbano, specialmente di notte, e, parallelamente, gli omicidi e i fatti di sangue subirono un notevole incremento. Negli anni Sessanta il tasso annuo degli omicidi a Torino arrivò a oscillare tra i sette e gli undici omicidi per centomila abitanti, una quota non indifferente che, seppur inferiore a quella delle città dell’Italia centro-meridionale, era di gran lunga più elevata di quella delle realtà urbane più moderne come Londra e Parigi.
L’aumento dei crimini violenti all’interno della città fu sicuramente l’aspetto più preoccupante dei mutamenti della criminalità torinese, ma non fu certo l’unico. Un’altra questione molto preoccupante fu il robusto aumento della delinquenza giovanile. Da secoli la gioventù delle classi popolari torinesi usava trascorrere le proprie giornate in strada finendo spesso per mettersi nei guai, ma solo dalla fine degli anni Trenta il numero degli arrestati con età inferiore ai diciotto anni raggiunse quote allarmanti. Le stesse iniziative di Don Bosco nacquero dalla constatazione che servissero delle soluzioni urgenti per il gran numero di giovani “abbandonati, pericolanti e pericolosi” che si potevano osservare tutti i giorni per le strade di Torino.
Anche le migliorie tecnologiche giocarono un forte peso nel cambiare il volto della delinquenza torinese. Lo sviluppo dell’industria metallurgica portò alla creazione di attrezzi più efficienti che resero più facili da compiere le effrazioni e i furti con scasso. Per molte famiglie torinesi benestanti divenne una triste consuetudine trovare la propria casa svaligiata, soprattutto una volta tornate dal periodo di villeggiatura estiva in campagna. Questi furti, che necessitavano spesso di notevoli accortezze e di un certo grado di pianificazione, erano il più delle volte messi a segno da vere e proprie bande di scassinatori professionisti, alcuni dei quali colpirono molto l’opinione pubblica dell’epoca. Il caso più noto fu sicuramente quello di Antonio Bruno detto il “Cit ëd Vanchija”, figura ancora oggi non completamente dimenticata: abile scassinatore attivo alla fine degli anni Sessanta, mise a segno diversi colpi negli appartamenti di ricche e importanti famiglie torinesi prima di fuggire rocambolescamente dalla polizia e non dare più notizie di sé.
Questi criminali, temuti e allo stesso tempo ammirati per le loro capacità, suscitarono un forte interesse nella società dell’epoca e divennero i protagonisti di un “mercato del delitto” che si sviluppò a un ritmo vorticoso a partire dall’editto che, nel 1848, aveva introdotto nel Regno di Sardegna la libertà di stampa. In breve tempo nacque una vasta produzione di romanzi, resoconti giudiziari e feuilleton che intercettarono il nascente interesse della società alfabetizzata per i fenomeni criminali e innalzarono la figura del delinquente a loro inquietante quanto fascinoso protagonista, mischiando spesso la cronaca nera a esigenze commerciali o a scopi di polemica politica. Fu sicuramente questa la novità più rilevante che produsse un vero cambiamento di mentalità nell’opinione pubblica: da materia di esclusiva competenza dei magistrati, il delitto divenne un argomento di cui parlare tutti i giorni, su cui dibattere e su cui fantasticare, subendone la torbida malia.
Non furono pochi i casi che passarono direttamente dall’aula di tribunale al Parlamento o ai salotti governativi. Il cosiddetto scandalo della Cocca, una vicenda dai contorni ancora oggi in parte oscuri, ne è forse l’esempio più emblematico. Tutto ebbe inizio nel maggio 1858 con l’arresto del nastraio ventenne Vincenzo Cibolla per un furto di scarso valore. Durante la sua detenzione, Cibolla confessò di aver partecipato assieme ad altri complici ad alcuni gravi delitti avvenuti anni prima e rimasti fino ad allora senza colpevoli. Si trattava di alcune aggressioni a scopo di rapina e all’omicidio di una bambina di nove anni, Angela Allaria, stuprata e strangolata nel gennaio del 1857. Al termine del processo, che si concluse nella primavera del 1860, Cibolla ammise la sua partecipazione anche a un altro grave delitto: l’omicidio a scopo di rapina di due macellai nella loro abitazione in piazza Corpus Domini. L'uccisione, avvenuta il 1° giugno 1856, secondo le sue rivelazioni era stata pianificata da un alto funzionario di polizia, Filippo Curletti, in quel periodo incaricato di importanti affari politici nelle province meridionali appena annesse al Regno di Sardegna.
La fuga del Curletti, riparato frettolosamente all’estero e resosi latitante, scandalizzò l’opinione pubblica e i giornali dell’epoca ne approfittarono per accusare la Questura di Torino e i più alti gradi del Ministero degli Interni di avere formato un’alleanza con una fantomatica società di criminali denominata Cocca. Per quanto l’esistenza di questa banda criminale non venne poi mai accertata, il processo che ne seguì si concluse con pene detentive pesantissime e addirittura con la condanna a morte di Luigi Gervasio, riconosciuto autore materiale del delitto e giustiziato il 14 gennaio 1862. Curletti, riconosciuto come mandante dell’aggressione, fu condannato in contumacia a venti anni di lavori forzati. Lo scalpore suscitato dalla sentenza fu poi accentuato dalla misteriosa comparsa di un libello intitolato Rivelazioni per J. A. antico agente segreto del conte di Cavour che descriveva le vicende dell’Unità come frutto di macchinazioni e intrighi. L’opuscolo di cui si riconobbe l’autore nel Curletti, divenne presto un testo cruciale della propaganda reazionaria ed è ancora oggi letto dagli ambienti filoborbonici. A tutti gli effetti, in poco meno di cinquant’anni i criminali torinesi avevano fatto molta strada.
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