Di alpinisti, re cacciatori e riserve reali

Come si intrecciarono caccia e salvaguardia della fauna nelle Alpi piemontesi dell’Ottocento

Re Vittorio Emanuele II fotografato in abiti da caccia accanto a uno dei suoi cani.
Carlo Bovolo
Carlo Bovolo

Storico, docente a contratto all’Università di Torino, si divide tra collaborazioni editoriali, progettazione culturale e ricerca storica. Proprio la passione per la storia l’ha portato in giro per l’Italia e l’Europa per biblioteche, archivi e musei, sulle tracce di eroi risorgimentali, gesuiti intransigenti, esploratori salgariani, tenaci scienziati. Collezionista di anticaglie, lettore onnivoro, viaggiatore insaziabile di luoghi, esperienze, cibi (e vini).

  

Di professione commerciava tessuti tra il Biellese e il lago di Costanza, ma la sua passione erano le montagne. Joseph Zumstein, detto de la Pierre, nativo di Gressoney, appartenente alla minoranza walser, conosceva bene la natura delle Alpi piemontesi, tanto da essere nominato ispettore forestale. Poi le spedizioni in alta quota, con le ascensioni del Monte Rosa nei primi decenni dell’Ottocento: Punta Zumstein si chiama ancora oggi, infatti, la terza punta per altezza del massiccio. Pioniere dell’alpinismo e naturalista dilettante, Zumstein è uno dei primi protagonisti della storia della conservazione della fauna e della tutela ambientale delle montagne piemontesi, un percorso che cominciò a inizio Ottocento con la protezione di una singola specie sull’orlo dell’estinzione, lo stambecco, proseguì con l’istituzione di riserve reali di caccia a metà secolo grazie alla passione di un re cacciatore, fino alla nascita del movimento protezionista italiano e dei primi parchi nazionali a inizio Novecento. Una storia che vede protagonisti zoologi, alpinisti, sovrani e stambecchi e in cui si intrecciano caccia, scienze naturali e alpinismo.

Esemplare di stambecco nel Parco nazionale del Gran Paradiso. Foto di Dott.elia
Esemplare di stambecco nel Parco nazionale del Gran Paradiso. Foto di Dott.elia

Per l’utilità delle scienze naturali

Fu proprio l’alpinista valdostano a lanciare nel 1820, in un’accorata lettera alla Reale Accademia delle Scienze di Torino, di cui era socio corrispondente, l’allarme sulla critica situazione degli stambecchi: nelle esplorazioni in quota, infatti, aveva chiaramente notato il preoccupante calo delle popolazioni dell’ungulato alpino, ormai ridotto a qualche decina di esemplari sulle impervie vallate del massiccio del Gran Paradiso. L’appello non rimase inascoltato: l’Accademia incaricò i soci Franco Andrea Bonelli e Giacinto Carena di Lanario, i due zoologi piemontesi più influenti dell’epoca, di studiare la questione, arrivando alla conclusione “che la proibizione di uccidere lo stambecco sarebbe opportuna per molte ragioni” e proponendo quindi di inserire la specie montana tra la selvaggina cosiddetta “riservata”, cioè prerogativa della caccia regia (cervi, daini, caprioli). Grazie alla loro autorevolezza scientifica e al prestigio politico-culturale dell’Accademia, il governo sabaudo si persuase della necessità di intervenire. Il 21 settembre 1821 Carlo Felice di Savoia emanò le Regie Patenti per la protezione dello stambecco:

l’utilità della scienza de’ naturali, ed in particolare della zoologia, esige che con ogni maggior cura si conservino le specie di quegli animali, che trovandosi ridotte a piccol numero d’individui, corrono rischio d’annientarsi. Tale appunto ne’ regii Stati è la specie dello stambecco […]. Rimane fin d’ora proibita in qualsivoglia parte de’ regii dominii la caccia degli Stambecchi.

Ritratto di Franco Andrea Bonelli, G.B. Biscarra, 1830 e Ritratto di Giacinto Carena di Lanario, P. Petronilla, 1841.

La legge proibiva la caccia allo stambecco in tutto lo Stato, così come vietata era la compravendita di carne, pelle e corna; i trasgressori incorrevano in una multa di 15 scudi e 9 giorni di prigione, sanzione e pena raddoppiate in caso di recidiva, oltre al sequestro dell’animale ucciso, il cui corpo doveva essere inviato, a cura dei sindaci locali, al museo zoologico di Torino. La sorveglianza era affidata al corpo dei dragoni guardiacaccia, sotto la direzione del Gran Cacciatore. Il provvedimento salvò lo stambecco dall’estinzione, ma non cancellò del tutto il rischio di una sua scomparsa. Le popolazioni dell’ungulato rimasero stabili, senza però riuscire a incrementare il numero in modo significativo o a espandere l’areale nel resto dell’arco alpino. Nonostante il divieto, riconfermato da Carlo Alberto nel 1836, il bracconaggio proseguì, anche per via delle difficoltà nel far rispettare la legge: appena una cinquantina di dragoni guardiacaccia doveva vigilare su tutto il vasto territorio del Regno di Sardegna, al tempo composto non solo dal Piemonte e dall’isola mediterranea, ma anche da Liguria, Savoia e Nizzardo.

Stambecco, da G.T. Tibaldi,
Stambecco, da G.T. Tibaldi, "Lo stambecco. Le cacce e la vita dei reali d’Italia nelle Alpi", 1904.

Il re cacciatore

Vittorio Emanuele II da giovane, litografia di F. Perrin, 1850-51 ca.
Vittorio Emanuele II da giovane, litografia di F. Perrin, 1850-51 ca.

Fu la passione per la caccia in quota di Vittorio Emanuele II che, alla metà dell’Ottocento, consentì di mettere in sicurezza le popolazioni alpine di stambecco e di rafforzare la tutela della fauna e la conservazione ambientale di estesi territori montani, passando dalla protezione di una singola specie a una più ampia preservazione delle risorse faunistiche, anche se per scopi venatori.

L’amore per la caccia in montagna nacque in Vittorio Emanuele già in gioventù, quando insieme al fratello Ferdinando partecipò a numerose battute in quota, e si rafforzò nel luglio 1850, sulle alture di Cogne, quando il giovane re abbatté il suo primo stambecco. Tale passione, unita allo sviluppo tecnologico delle armi da fuoco e, soprattutto, all’imporsi di una visione più avventurosa e romantica della caccia, indussero il sovrano a prediligere le attività venatorie sulle Alpi rispetto alle tradizionali tenute di caccia in pianura di Venaria, Stupinigi e Racconigi. Seguì dunque un’intensa attività della Real Casa ad acquistare, affittare e ottenere in concessione terreni nelle vallate piemontesi e valdostane, finché nel 1856 vennero istituiti due distinti distretti di caccia sui versanti meridionale e settentrionale del Gran Paradiso (rispettivamente Ceresole e Aosta); quasi contemporaneamente fu la volta delle Alpi Marittime, con il distretto di Valdieri-Entracque (1857).

I guardiacaccia

Ogni distretto di caccia era sottoposto a un comandante, che doveva rispondere al Gran Cacciatore, affiancato dal 1863 da un direttore generale, che curava gli aspetti amministrativi per il Ministero della Real Casa. Dal comandante dipendeva un apposito corpo di guardiacaccia, in grado di migliorare l’efficacia e l’efficienza nella sorveglianza. Vero e proprio corpo di polizia, alla metà dell’Ottocento, i guardiacaccia, organizzati gerarchicamente in capo posto, cacciatore guardia scelto, cacciatore guardia di I classe e di II classe, vestivano una divisa costituita da giubba, pantaloni, gilet e cappello in panno bigio; le armi in dotazione comprendevano carabine con baionetta, fucili a doppia canna, revolver. Le loro mansioni includevano il controllo del territorio, la vigilanza sulle proprietà della famiglia reale (terreni, palazzine di caccia, bivacchi), il contrasto al bracconaggio (tramite pattugliamenti, contravvenzioni e, talvolta, scontri a fuoco), l’accompagnamento dei sovrani e dei loro ospiti nelle cacce.

Guardiacaccia (fine Ottocento), Archivio Parco Naturale Alpi Marittime.
Guardiacaccia (fine Ottocento), Archivio Parco Naturale Alpi Marittime.

Tra i compiti assegnati ai guardiacaccia vi era anche l’abbattimento degli animali considerati nocivi. Tanto il prioritario interesse venatorio quanto anche l’idea prevalente tra gli zoologi del tempo consigliavano, infatti, la persecuzione e l’uccisione degli animali da preda e da rapina, ritenuti dannosi sia per la selvaggina sia per le attività agropastorali. Nelle campagne di abbattimento dei nocivi, incentivate da premi in denaro, non solo nelle riserve ma in tutta Italia, divennero dunque bersaglio specie quali lupi, linci, lontre, volpi, martore, tassi, puzzole, faine e donnole, ma anche rapaci, come aquile e falchi, e corvidi, come gazze, cornacchie e ghiandaie. Ad esempio, nella sola estate del 1910, nel distretto di Valdieri-Entracque, vennero uccisi 13 falchi, 12 volpi, 5 faine, 72 donnole, 13 ghiandaie e 2 aquile. Questa politica di contrasto ai nocivi, per la tutela di alcune sole specie di valore venatorio e per la difesa dei capi di allevamento, contribuì alla totale scomparsa o al forte declino sulle Alpi dei grandi carnivori (orso, lupo, lince), soltanto recentemente tornati a ripopolarne le valli.

Nonostante ciò, le riserve reali di caccia ebbero successo nell’obiettivo di conservare e, anzi, accrescere le popolazioni di stambecco e camoscio, le prede favorite delle cacce reali, tutelando così anche altre specie nelle valli e nei fiumi alpini e dando una prima protezione generale di ampi territori montani: oltre ai pregiati ungulati alpini, infatti, i distretti ospitavano e proteggevano piccola selvaggina, come pernici, fagiani, lepri, particolarmente gradita dai sovrani, così come ripopolavano i corsi d’acqua di trote e altri pesci. Prima della nascita dei primi parchi nazionali italiani negli anni Venti del Novecento, le riserve di caccia furono strumenti importanti per la conservazione della fauna: lo sfruttamento venatorio limitato alla prerogativa reale comportava, infatti, più benefici che svantaggi per la natura alpina, grazie a una maggiore efficacia nella sorveglianza e alla più efficiente gestione dei territori.

Umberto I e i battitori nella riserva di Valdieri-Entracque (fine Ottocento), Archivio Parco Naturale Alpi Marittime.
Umberto I e i battitori nella riserva di Valdieri-Entracque (fine Ottocento), Archivio Parco Naturale Alpi Marittime.

Il movimento per i parchi nazionali

Sul finire dell’Ottocento, proprio come stava avvenendo nel resto d’Europa, anche in Italia iniziò a diffondersi sempre più una sensibilità verso la protezione e la conservazione del patrimonio non solo storico e artistico, ma anche ambientale e naturale. Varie anime costituivano il primo movimento protezionista italiano: dalle comunità accademiche di zoologi e botanici al Club Alpino Italiano, dal Touring Club Italiano, con il suo capillare associazionismo turistico, fino a istituzioni, come la Direzione Belle Arti e Paesaggio del ministero della Pubblica Istruzione, che si occupava anche di tutela ambientale.

I due principali obiettivi condivisi da questo variegato movimento erano la necessità di una legislazione a tutela dei beni non solo culturali, ma anche paesaggistici e naturali dello Stato e l’istituzione di parchi nazionali, sulla scia di quanto era già avvenuto negli Stati Uniti d’America e che stava avvenendo in alcuni Paesi europei, come in Svezia e Svizzera. Fu proprio, nel 1910, il progetto di istituzione del Parco nazionale svizzero, in Engadina confinante con il territorio italiano di Livigno, a evidenziare con forza l’urgenza di proteggere la natura alpina e, in generale, italiana con strumenti moderni ed efficaci. Diverse autorevoli personalità del mondo scientifico e noti sodalizi presero posizione a favore della tutela della natura, come lo zoologo biellese Lorenzo Camerano, il botanico torinese Oreste Mattirolo, il Club Alpino Italiano, Società Pro Montibus et Sylvis.

Disegni di lupo e marmotta tratti da
Disegni di lupo e marmotta tratti da "Compendio della fauna italiana", L. Camerano, M. Lessona, 1885.

Lino Vaccari

Il principale intervento sulla difesa della fauna italiana fu però a firma di un giovane naturalista veneto, Lino Vaccari, che nel 1912 rilanciò l’appello del naturalista svizzero Paul Sarasin sul declino in tutto il mondo delle specie animali e il rischio, per molte di queste, di estinzione, principalmente in conseguenza delle attività umane. Vaccari proponeva dunque una più chiara legislazione sulla caccia, un costante impegno nell’educazione popolare e nella sensibilizzazione dell’opinione pubblica e l’istituzione di parchi nazionali, considerati “il più efficace mezzo di tutela degli animali d’Italia”. Si trattava di provvedimenti urgenti, perché “se la fauna mondiale era in diminuzione allarmante, quella d’Italia si trovava in condizioni addirittura pietose”. Vaccari suggeriva alcune aree da porre sotto immediata tutela, tra cui il massiccio del Gennargentu in Sardegna e le Alpi venete, che insieme alle già attive riserve di caccia, dovevano comporre idealmente un sistema di aree protette nazionali, in una visione dalla evidente modernità. Non solo: secondo il naturalista veneto, occorreva cambiare radicalmente la mentalità nella tutela faunistica, non più incentrata soltanto sulla selvaggina, ma sull’“integrità della fauna” nel suo complesso, proponendo un’ottica più moderna, lucida e scientificamente aggiornata della conservazione naturale.

Lino Vaccari, ca. 1900.
Lino Vaccari, ca. 1900.
Per noi il valore economico delle specie animali non deve entrare in gioco. Dobbiamo cercare, come naturalisti e come amanti del bello, di tramandare intatto ai nostri discendenti il ricco e nobilissimo patrimonio della natura che ci è venuto dalle epoche passate e del quale noi siamo non i proprietari ma solo gli usufruttuari.

Questa era la dichiarazione d’intenti di Vaccari. Una visione di indubbia modernità, basata sull’importanza dell’ecosistema nel suo complesso.

La Lega nazionale per la protezione dei monumenti nazionali

L’intervento di Vaccari e la temperie internazionale sulla conservazione naturale fecero sì che nel 1913 nacque in Italia la Lega nazionale per la protezione dei monumenti nazionali (nel cui comitato direttivo sedevano, tra gli altri, Vaccari e Camerano). La Lega riuniva buona parte delle forze protezioniste e riuscì a porre al centro del discorso pubblico l’istituzione dei parchi nazionali e la discussione sulle aree da tutelare. Numerose furono le proposte avanzate, con una predominanza di territori alpini (tra cui, in Piemonte, le Alpi Graie e il massiccio del Gran Paradiso, le Alpi Marittime, il Monte Bego), nell’idea che proprio le cosiddette “montagne della Patria” potessero conservare ancora una natura intatta.

Camoscio nel Parco Nazionale del Gran Paradiso. Foto di Dott. Elia
Camoscio nel Parco Nazionale del Gran Paradiso. Foto di Dott. Elia

Nel dibattito sui parchi nazionali le riserve reali di caccia, baluardi di specie rare come lo stambecco e il camoscio e modelli di conservazione faunistica, divennero inevitabili protagonisti. Non fu un caso, infatti, che i primi due parchi nazionali italiani (Gran Paradiso, 1922, e Abruzzo, 1923) nacquero proprio dalla dismissione di distretti di caccia da parte di Vittorio Emanuele III nel primo dopoguerra. Nel 1919 il re legò la dismissione della riserva di Aosta-Ceresole all’istituzione di un’area pubblica di tutela, sancita dall’istituzione ufficiale del primo parco nazionale italiano, il Gran Paradiso, il 3 dicembre 1922. La riserva di Valdieri-Entracque, prediletta dalla famiglia reale, rimase invece in piedi fino alla fine della Seconda guerra mondiale, quando fu trasformata dal prefetto di Cuneo in parco di ripopolamento faunistico, in cui era vietata la caccia. Sulle ceneri della riserva reale, però, nel 1980 sorse il parco naturale regionale dell’Argentera, che nel 1995, in seguito ad ampliamenti, assunse la denominazione attuale di Parco naturale delle Alpi Marittime.

La storia della tutela della fauna delle Alpi piemontesi, iniziata con l’allarme sul declino dello stambecco lanciato da un alpinista amante della natura e proseguita con una prima forma di protezione garantita dalle riserve reali volute da un re cacciatore, giunge così fino a oggi, dove le nostre montagne, grazie a un esteso sistema di aree protette, anche transfrontaliere, custodiscono ecosistemi ricchi di specie animali e botaniche.

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Bibliografia

  • Aghemo di Perno N., Dello stambecco, Torino, Eredi Botta, 1888.

  • Armiero M., Le montagne della patria. Natura e nazione nella storia d’Italia. Secoli XIX e XX, Torino, Einaudi, 2013.

  • Bianchi P., Passerin d’Entrèves P., La caccia nello Stato sabaudo, 2 voll., Torino, Zamorani, 2011.

  • Conte A. (a cura di), Le Alpi: dalla riscoperta alla conquista. Scienziati, alpinisti e l’Accademia delle Scienze di Torino nell’Ottocento, Bologna, Il Mulino, 2014.

  • Passerin d’Entrèves P., Les chasses royales in Valle d’Aosta (1850-1919), Torino, Umberto Allemandi, 2000.

  • Passerin d’Entrèves P. (a cura di), Le cacce reali nelle Alpi Marittime, Torino, Blu Edizioni, 2013.

  • Piccioni L., Il volto amato della patria. Il primo movimento per la protezione della natura in Italia 1880-1934, Trento, Temi, 2014.

  • Tibaldi G. T., Lo stambecco. Le cacce e la vita dei reali d’Italia nelle Alpi, Torino, Streglio, 1904.

  • Von Hardenberg W. G., A Monastery for the Ibex. Conservation, State, and Conflict on the Gran Paradiso, 1919-1949, Pittsburgh, University of Pittsburgh Press, 2021.

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