Don Molas, illustrazione di Giuseppe Conti.
Raimondo Luraghi, a proposito del libro di memorie in cui racconta i suoi mesi di guerra dall’8 settembre 1943 al 7 maggio 1945, commentava: “Adesso parlare è facile, tanto le parole non costano nulla. Allora morire era difficile…”. Arrivato con la I Divisione Garibaldi nella zona fra Gallareto e Mondonio, presso Castelnuovo, e posto il comando alla cascina Astorre nei boschi fra Mondonio e Capriglio, Luraghi trovò appoggio dall’allora Rettore del Santuarietto dei Becchi (Colle Don Bosco), che per la sua condizione neutrale avrebbe reso preziosi servigi ai combattenti.
José Domingo Molas era nato nel 1901 a San Estanislao, cittadina a 150 km a nord di Asunciòn in Paraguay, da famiglia imparentata con Don Mariano Antonio Molas, notabile dell’Indipendenza del paese. Fu un convertito nella prima adolescenza. A ventun anni venne in Italia all’Istituto Salesiano di Foglizzo nel Canavese, poi studente alla Crocetta, dove si laureò dottore in Teologia, primo della sua classe e con la massima votazione. Nel 1926 venne ordinato sacerdote a Maria Ausiliatrice e ritornò in Paraguay. Nel 1932, giovane direttore della Scuola Agricola di Ypacaraí, partì come cappellano militare paraguaiano per il fronte della Guerra del Chaco.
La guerra tra Paraguay e Bolivia fu la più cruenta del continente nella prima metà del XX secolo, venne combattuta con enorme dispiego di materiale bellico e di uomini: vi caddero 60 mila boliviani e 30 mila paraguaiani, sterminati da malaria e siccità, più ancora che dai colpi che si scambiavano. Per tre anni Molas condivise la vita dei soldati, l’assistenza ai feriti, il recupero dei caduti. A segnarlo profondamente fu la vicenda di due adolescenti, di quattordici e sedici anni, fuggiti di casa per andare al Chaco a combattere e rimasti poi uccisi in uno scontro. Molas riportò i corpi dei due ragazzi alla scuola che avevano lasciato.
Nelle sue considerazioni sulla guerra si rappresenta nel personaggio del Cappellano, al quale fa dire, in dialogo con l’ufficiale medico boliviano:
Una guerra si vince curando quelli che lottano e quelli che soffrono; quelli che cadono nei campi della morte e quelli che restano nei campi della vita, con i loro morti sulle spalle.
Terminata la guerra, chiese di essere inviato “all’Oriente, al Siam” in missione. Raggiunto da tormenti psichici, incubi, fantasmi non rimossi, mise alla prova la sua versatilità linguistica (conosceva cinque lingue) componendo una grammatica della lingua siamese.
Tornato in Italia nel ’38, inviato a dirigere il Santuarietto in località Becchi nell’ambito della comunità diretta da don Marcello Abele Jojeusaz, svolse compiti di animatore giovanile dell’Oratorio. Nei primi anni della guerra la vita proseguiva in apparenza ordinaria, nonostante i rischi di bombardamento e di rappresaglia. Dopo l’8 settembre 1943 tutto cambia. L’Istituto salesiano fu impegnato — Molas in prima persona — negli aiuti ai soldati sbandati, provenienti per lo più dalla IV Armata italiana, già attestata sul confine tra Piemonte e Francia meridionale, che vi cercavano rifugio. Poi l’accoglienza venne estesa a soldati e aviatori inglesi e americani, a giovani dei dintorni renitenti alla leva Graziani, ai primi partigiani.
Nel maggio del ’44, per la prima volta a Molas viene richiesto d’interessarsi per lo scambio di tre uomini “presi dalle autorità nazi-fasciste […] si trattava di un caso che poteva finire colla fucilazione”. Accompagnato con macchina e autista partigiani in un viaggio avventuroso alla Feldgendarmerie di corso Oporto a Torino
dopo un lungo colloquio col comandante si arrivò all’accettazione delle trattative. Il comandante fornì il sacerdote di un lasciapassare valido per tre giorni (i necessari per il perfezionamento dello scambio). In tre giorni gli uomini furono liberi.
Da quel momento Molas, oltre a collocare i rifugiati presso il Santuarietto e nelle cascine circostanti e tenerli al riparo da “soffiate” e perquisizioni, comincia a svolgere una inesausta attività di contatto e mediazione — con i comandi tedeschi di Torino e di Asti e con le formazioni partigiane attestate fra Vallunga e Moncucco — per la liberazione e lo scambio dei prigionieri. La sola eccezione riguardava il trasporto e lo scambio di armi dei soldati. “Non vollero accordarmi questo, ma fui inesorabile e mantenni la parola”. Si muoveva su una Fiat 1100, con il prezioso lasciapassare tedesco, datagli da Rivella, che a Capriglio teneva un deposito-laboratorio di pellicce. Silenzioso e riservato, informava dei suoi spostamenti solo il Direttore, che poi scriverà:
Dal maggio 1944 al 22 aprile 1945 il nostro Don Molas venne addetto esclusivamente a quest'opera umanitaria. Riconosciuto ufficialmente come arbitro anche dai nazi-repubblicani, e dotato di un'automobile, egli continuò per un anno a correre da un comando all'altro per salvare tanti poveri infelici. Avrebbe da fare un volume di tutte le peripezie, dei pericoli incontrati, delle sofferenze patite.
Il 30 novembre 1944, l’Istituto fu occupato da trenta SS e sessanta italiani della Brigata Nera Cuneo. All’arrivo delle truppe, un soldato tedesco, che era stato catturato dai partigiani e nascosto in uno scantinato in vista di un futuro scambio, si mise a gridare per segnalare la sua presenza: fatta irruzione, fu trovato, liberato e Molas fu salvato solo dall’arrivo di un ufficiale, che lo riconobbe. Gli occupanti si stabilirono per tre giorni nell’Istituto; non trovarono i quindici rifugiati nella soffitta del santuarietto (nove renitenti della borgata, tre partigiani e tre inglesi) e ripartirono in direzione di Villafranca e del Po. Sul piazzale antistante la chiesetta, i tedeschi avevano disposto ogni sorta di automezzi militari, mitragliatrici, cannoncini e munizioni varie.
Noi scolari, che frequentavamo le Elementari ai Becchi, dovevamo attraversare lo sbarramento armato dei tedeschi sul piazzale per entrare ed uscire dalla scuola: all’uscita Don Molas comandava alle maestre e ai bambini di uscire in silenzio dalle aule, in fila indiana e senza correre; dividersi in tre gruppi e con il suo sorriso caratteristico ci accompagnava ai punti sicuri, da dove ognuno si avviava verso le proprie case.
Il 29 gennaio 1945, al ritorno da un viaggio in auto ad Asti per trattare la sorte di un confratello — Molas era accompagnato dall’ingegner Pietro Mosso di Cerreto e da Tancredi Cabiati della ditta che costruiva l’Istituto Bernardi Semeria — la vettura fu intercettata presso Sessant da due cacciabombardieri inglesi in ricognizione e mitragliata a bassa quota, mentre una casa vicina venne distrutta dal lancio di due bombe. Disteso sulla neve fra i filari bruni di una vigna, Molas si pose al riparo da un finale attacco di mitragliatore alla macchina e si salvò, mentre da presso si trovarono i corpi di Mosso e di Cabiati. Consegnatili alle famiglie, Molas rientrò il 31 gennaio al Colle, rendendo grazie “per la materna protezione ricevuta avverso le torturanti angosce di questi giorni” (Relazione a firma di “Don Giuseppe Molas, sacerdote salesiano” sul periodico Maria Ausiliatrice del 1945).
Ai primi di febbraio del 1945, cinque soldati tedeschi, giunti a Castelnuovo probabilmente da Chieri, sostarono da un commerciante di vini con bottega presso via Monferrato, dove furono individuati e colpiti a morte da una sopravvenuta pattuglia partigiana. A Torino Molas fu informato del panico della popolazione; rientrò a Castelnuovo, si mise in contatto con le formazioni partigiane, ottenne che le salme gli venissero consegnate e le preparò “in modo degno”, facendo tutto da solo, mentre la popolazione era nascosta per timore di rappresaglie. Iniziò a Torino trattative col comando tedesco, che si conclusero positivamente. La colonna tedesca raggiunse egualmente Castelnuovo e, dopo un’ora di presenza in paese, si ritirò.
Li trovo per istrada al loro ritorno e dico al comandante del gruppo che all’indomani portavo io personalmente le salme a Chieri secondo accordi con il loro comando.
La rappresaglia non ebbe luogo.
A Chieri Molas ottiene dal comandante partigiano “per specialissima cortesia” la restituzione dell’aiutante personale del capitano tedesco, liberando la quarantina di ostaggi catturati ed esposti alla rappresaglia. Dopo la cattura di Giorgio Berruti, GL di Pino d’Asti, ferito nello scontro di Aramengo del 3 marzo del 1945 e portato a Torino per la fucilazione, riesce ad ottenere la liberazione in cambio di Berruti con due ufficiali tedeschi sul ponte della Gran Madre. Da ultimo Dusino: ai primi di aprile ’45, il comandante tedesco, perse notizie di un camion della sua colonna in moto verso Torino, fece raccogliere tutti gli abitanti dinanzi alla piazza (incluso il prevosto settantenne), li rinchiuse in chiesa, minacciando di fucilarli “cinque alla volta” contro il muro esterno se il camion non saltava fuori. Molas arriva a Dusino con la macchina (la Topolino che aveva sostituito la vecchia 1100 mitragliata), la nasconde al riparo dal sorvolo di aerei a bassa quota, prende una bicicletta e raggiunge uno dei capi, “il quale mi assicurò che il suo reparto non aveva attaccato il camion”. Così riferisce al comandante tedesco.
"Si vede che lei conosce dove sono questi partigiani." Risposi: “Io domando nei paesi se qualcuno mi sa dare notizie di qualche capo, altrimenti come potrei compiere la mia missione. Lei ci dice di portare una risposta perentoria: bisogna ben che andiamo a parlare con qualcuno, no?”
L’ufficiale ordina a Molas di non muoversi e alle dodici comincia a prelevare i primi cinque e li mette contro la parete di una casa di fronte alla chiesa. Arriva un altro sacerdote, che avendo raggiunto in bici un comandante partigiano di Valfenera reca una sua lettera, che minaccia inaudite (e improbabili) rappresaglie sui prigionieri tedeschi in mano ai partigiani, qualora le fucilazioni dei civili avessero corso. Molas procede a tradurre in tedesco — “a beneficio dell’ ufficiale” — il testo scritto, “con una certa foga”, che aggiunge peso al contenuto della lettera stessa. Alle dodici e quarantacinque un altro sacerdote arriva da Poirino con la notizia che il camion non era stato preso, ma aveva proseguito verso Torino e, alla conferma, il comandante dopo una sfuriata lascia in libertà gli ostaggi fuori e dentro la chiesa e riparte coi due camion che aveva con sé.
A guerra appena finita, il 1° maggio del ’45, a Torino
arriva un’auto di Patrioti, che guidati dal nostro Don Molas, l’apostolo e il liberatore di tanti paesi e di tanti ostaggi, riportavano dal Colle don Bosco la grandiosa tela del quadro taumaturgo di Maria Ausiliatrice.
La sua attività incessante arrivò fino alle Valli di Lanzo dove il conte Carlo Cotta di Robella (“Gabriele”) comandante della Divisione Autonoma del Monferrato, “fu personalmente scambiato dopo tre mesi di prigionia”, e a sud fin nel cuore delle Langhe. A ridosso dei fatti, nel luglio del 1945, Molas scrive un resoconto di apparente compassata asciuttezza, che rinvia alle informazioni di cui dispongono personalità di primo piano del partigianato piemontese evidentemente da lui ben conosciute (“Barbato”, “Alberti”, ”Milan”). Sottolinea la differenza fra scambi collettivi e ricerca dei casi singoli: quando il numero di uomini era rilevante, gli scambi erano facilmente accordati dalle autorità tedesche; per contro
il singolo partigiano, o i due, o tre che si richiedevano, erano anonimi, bisognava prima ricercarli nelle carceri, sotto quale comando si trovavano, iniziare laboriose pratiche coi diversi comandi (negli ultimi mesi erano ben nove solo a Torino), oppure erano segnalati come elementi pericolosi e quindi non si era affatto disposti a darli. Non ho mai fatto la somma di questi uomini liberati (dei quali almeno il 70% erano segnalati per la fucilazione).
Sul primo foglio dell’originale dattiloscritto della relazione, Joyeusaz premette:
D. Molas è alieno da ostentazione e vanteria e quanto egli scrive, per obbedire agli ordini ricevuti, e qui riportato, è solo la parte più visibile, non la più sacrificata del suo indefesso ed eroico lavoro di questi anni tragici. Ciò che manca, o viene taciuto, risponde ad una definitiva affermazione di Molas, che quanto accaduto (e accadutogli) sono “cose che potrebbero formare i capitoli di un libro, che è meglio rimanga nascosto nella misericordia di Dio (aque es mejor quede escondido en la misericordia de Dios)".
Lasciò definitivamente Castelnuovo nel 1949, e poi l’Italia, per non farvi più ritorno. Rientrato in Paraguay, dal 1952 fu poi al Colegio Pio de Villa Colon a Montevideo, fino alla morte nel 1984. Nel decennale le sue spoglie furono riportate nel Panteón Nacional in Paraguay, per ricevere onori ufficiali e, sempre nel 1994 a cinquant’anni dalla fine della guerra in Europa, si riunirono ai Becchi in suo ricordo molti dei suoi “rescatados”.
Di bassa statura, dal colorito olivastro, dal carattere appassionato e riflessivo, Molas diffondeva il senso di una forte spiritualità, unita ad una chiara risolutezza, non disgiunta da un certo sprezzo “gaucho” del pericolo. Nel diario giovanile scriveva:
In questa vita, ci sono quelli che vivono senza pensare: questi forse seminano molto, ma non hanno preparato il terreno: la semente si perde. Ci sono quelli che pensano nel vivere: costoro preparano molto il terreno, ma seminano poco. Ci sono infine quelli che vivono pensando: questi preparano bene il terreno, e seminano molto: fanno tutto quello che sta in loro: Dio darà il guadagno e la messe sarà abbondante. Io voglio essere di questi ultimi.
Il compito di annunciare il bene e la pace agli uomini lo portò a lasciarsi coinvolgere nelle più rischiose congiunture belliche, senza stare ripiegato “al di sotto delle parti” ad aspettare la fine della bufera.
Ricorda che sarai un soldato di un esercito il cui capo va avanti soffrendo più di ognuno di noi.
Da celebrazioni più recenti, la sua figura di mediatore drammaticamente coinvolto viene inclinata verso l’aspirazione retroattiva a “essere lasciati in pace” da un conflitto venuto a disturbare la tranquillità di operosi civili, “presi in mezzo” da una guerra che si limitavano a subire, come se non li riguardasse.
Sono ricordi paurosi e tristi del periodo della seconda guerra mondiale, tra fascisti tedeschi e partigiani che si combattevano anche in mezzo a noi.
Una commozione generica sul male delle guerre, che ritiene del tutto inutile distinguere le ragioni per cui altri sono vissuti e sono morti, e diviene veicolo di un elementare e passivo irenismo a basso costo, confonde la pace come combattimento con la pace come acquiescenza. Ma, come diceva il cappellano in Polvareda de Bronce:
La pace è un inestimabile dono divino che si impara ad apprezzare solo in guerra. Fiore esotico che ha le radici negli abissi del sacrificio umano.
👉 Si ringraziano l'Istituto Bernardi Semeria — Colle Don Bosco e Giuseppe Febraro per la gentile concessione delle foto.
Agagliate F., Ricordi di Capriglio. Francesco Agagliate racconta la sua gioventù in paese, Capriglio, I Quaderni della Biblioteca. Collana Le radici, n. 7, poligrafato (testi datati 2002—2005).
Carmagnola P., Vecchi partigiani miei (1945), a cura di D’Arrigo A., Milano, Franco Angeli, 2005, p. 113.
Giordano G., Vita di chirurgo fra i partigiani, Chieri, Astesano, 1945, pp. 6—7.
Molas J. D., Polvareda de Bronce. En los caminos tragicos de la guerra del Chaco, Asunción 1934, Asunciòn, Escuela Tecnica Salesiana, 1974.
Pose F. J., Mano de Dios para la vida de muchos. Testimonio semblanza y mensaje de José Domingo Molas, Montevideo, 1984.
Relazione a firma di “Don Giuseppe Molas, sacerdote salesiano”, in Maria Ausiliatrice, 1945, pp. 448—450.
l.b., Castelnuovo ricorda don José — il prete che aiutò i partigiani, in La Stampa, 16 giugno 1984, p. 30.
Indicazioni di opere di bene per soccorrere: prigionieri, oppressi, partigiani, compiute dall’Istituto della Casa nativa di S. G. Bosco in Colle Don Bosco — Castelnuovo Don Bosco, per mezzo del sacerdote salesiano don Giuseppe Molas, in Giraudo A., Salesiani in Piemonte nel periodo bellico: percezione degli eventi e scelte operative, in Cattolici, ebrei ed evangelici nella guerra. Vita religiosa e società 1939—1945, a cura di Gariglio B. e Marchis R., Milano, Franco Angeli, 1999, pp. 202—206.
Il Terzo Giorno, periodico di informazione delle comunità di Marmorito, Passerano, Primeglio, Schierano, a. VII, n. 4, 2013.