Molto è stato scritto sulla valentia attoriale di Gian Maria Volonté e sul suo impegno sociale e politico. Credo, però, che pochi sappiano della sua “piemontesità”: nato in Lombardia, si trasferì ancora in fasce a Torino, dove trascorse i primi vent’anni di vita, anni fondamentali per la sua formazione umana e professionale. E il Piemonte, Gian Maria Volonté lo portò anche sul grande schermo con alcuni personaggi e film intramontabili.
Il padre di Gian Maria, Mario, ha origini lombarde. La situazione economica della famiglia, che si era arricchita grazie al nonno, precipita a fine anni Venti. Mario, fascista della prima ora, è costretto a svestire la camicia nera per trovarsi un lavoro. Disinvolto, loquace, spendaccione, vanesio, Mario è uno che ci sa fare: prima si accasa con Carolina Bianchi, figlia di un industriale lombardo, poi si improvvisa rappresentante di commercio grazie ai buoni uffici del futuro suocero.
Nel 1932 Carolina e Mario si sposano, e il 9 aprile 1933, sempre a Milano, nasce il loro primogenito. Battezzato come Giovanni Maria, iscritto all’anagrafe come Gianmario, sarà per tutti Gian Maria. Un anno più tardi, i Volonté lasciano Milano per Torino. Gian Maria passa i primi due anni insieme alla madre (il padre è sempre fuori casa) in una pensione di corso Galileo Ferraris. Nel 1935 la famiglia si trasferisce a San Salvario, quartiere poi duramente colpito dai bombardamenti. Il padre è sempre più un ectoplasma: allo scoppio della guerra in Etiopia, rientra nella Milizia e parte volontario per l’Africa.
Al termine del conflitto, Mario Volonté riprende il lavoro e gli affari vanno a gonfie vele, tanto da potersi permettere un appartamento migliore e un secondo figlio, Claudio: di bell’aspetto, cercherà di seguire le orme del fratello maggiore benché invaghito del padre, che per lui era un vero esempio.
Nel 1940 i Volonté si trasferiscono al secondo piano dell’elegante Palazzo Priotti, in via Carlo Alberto. Con le prime bombe su Torino, nel 1942 Carolina e i figli sfollano a Valfenera, in provincia di Asti, dove Gian Maria finisce le elementari che aveva iniziato nel 1938 alla scuola statale Rayneri, in corso Marconi.
Dopo la caduta e l’arresto di Mussolini, un gruppo di squadristi, compreso Mario Volonté, si ritrova all’ex casa del Balilla di piazza Bernini, a Torino, per rimettere in piedi il partito. Nel luglio 1944 viene costituita la Brigata Nera “Ather Capelli”: Mario, da ufficiale di picchetto, è promosso a comandante della 1° Squadra “Pantera Nera”, che ha lo scopo di formare un presidio a Chivasso. Il 15 novembre è denunciato per malversazioni e soprusi contro la popolazione, viene espulso dal partito e incarcerato.
Con la Liberazione, Mario riacquista la libertà, ma per poco: il 7 agosto 1945 è di nuovo dentro. L’accusa è gravissima: triplice omicidio durante i rastrellamenti di Rondissone e Verolengo. Il 27 novembre 1946 la Corte d’Assise di Torino emette una pesante condanna: trent’anni di detenzione, il blocco del conto corrente e il sequestro dei mobili.
Intanto Carolina e i figli ritornano da Valfenera. La donna è in difficoltà: sola, senza soldi, in una città martoriata dalla guerra. Gian Maria viene comunque iscritto alla scuola media San Giovanni Evangelista, istituto Salesiano ora convertito a collegio universitario, ma abbandona al secondo anno, preferendo lavoricchiare negli alberghi di Torino e provincia.
A inizio 1948 Gian Maria si trasferisce a Milano dagli zii paterni, proprietari di un sugherificio nel quale il giovane si dà da fare per qualche tempo. A luglio si allontana e lavora per tutta l’estate in un hotel di Courmayeur prima di rientrare a Torino. Carolina, che nel frattempo aveva iniziato una relazione con Achille Rodolfo Follis, rappresentante di tessuti, chiede la separazione da Mario, il quale, dal carcere, prende malissimo la notizia. In mezzo a simili tormente familiari, Gian Maria progetta una nuova fuga in Francia: nella primavera 1950 parte per la Provenza a raccogliere mele, ma ad agosto viene sorpreso senza documenti e condotto a Marsiglia in un istituto per minori. Da qui, grazie a un amico di famiglia, torna a Torino.
Il giovane non si lascia abbattere facilmente. Già a fine agosto prende a frequentare lo Studio Drammatico Internazionale I nomadi, una scuola di recitazione fondata da Edoardo Maltese nel 1947. Non si sa bene come sia nata l’idea di diventare attore: pare che Volonté allora sostenesse che, in quel modo, poteva svegliarsi tardi al mattino.
Il 17 febbraio 1951 I Nomadi esordiscono con la commedia Altitudine 3200, mentre Gian Maria debutta nell’Antigone di Anouilh il 20 aprile dello stesso anno allo Stabile di Torino. A giugno segue la partecipazione a La dea infedeltà di Niccodemi, in replica fino al 1° luglio al Teatro di via Sacchi, quindi a La sculacciata, una commedia brillante francese.
Terminata l’avventura con Maltese, Volonté si rivolge al teatro itinerante, ottenendo un ingaggio presso la compagnia di Mario Ruta. Inizialmente è aiutante di scena, e solo in un secondo tempo trova spazio in piccoli ruoli. Così Volonté:
Giravamo l’Italia del Nord, i paesini che si chiamavano Cento, Mirandola, Carpi… si montava in piazza il tendone con le capriate in legno, le sedie per il pubblico, la pedana per gli attori e, d’inverno, le grosse stufe a segatura, finché non avevamo esaurito il repertorio.
Nell’aprile 1953 la compagnia è a Torino, in corso Matteotti, davanti all’ex-Arsenale, ma da gennaio Gian Maria risulta scritturato dalla compagnia del vecchio Alfredo De Sanctis. Il 20 giugno la compagnia esordisce al Carignano con Fuochi d’artificio di Luigi Chiarelli. Al termine della stagione, e in seguito alla morte di De Sanctis, nel 1954 Gian Maria presenta domanda all’Accademia Nazionale d’Arte Drammatica di Roma per diventare attore. Lo aspettano tre anni faticosissimi. Volonté è introverso e poverissimo, tanto da non potersi permettere più di un pasto al giorno e la maglia di lana in inverno. Malgrado la dizione torinese e il modo di stare in scena poco ortodosso, viene comunque ammesso e, col passare dei mesi, rivela un talento acerbo ma già fuori dal comune. Nel 1956 conosce Giorgio Albertazzi e, durante l’ultimo anno di corso, il suo carattere si fa meno schivo e solitario. È riconosciuto il migliore tra gli allievi benché, ancora oggi, non sia chiaro se abbia terminato gli studi o sia stato espulso prima.
Al dicembre 1957 risale l’esordio televisivo nei panni di Ippolito nella Fedra diretta da Corrado Pavolini. Un mese prima aveva conosciuto Tiziana Mischi, che diventerà sua moglie nel 1959. Il matrimonio durerà poco più di tre anni.
Anche il primo successo è datato 1959: dal 26 settembre al 17 ottobre la Rai trasmette lo sceneggiato in quattro puntate L’idiota, tratto dal romanzo omonimo. Volonté interpreta Rogozin, imponendosi con una recitazione moderna e antiaccademica. Già dalla seconda puntata arrivano numerose le proposte cinematografiche.
Poiché sempre al verde, nel 1960 Volonté è costretto ad accettare l’offerta economicamente più vantaggiosa. Il film è Sotto dieci bandiere, nel quale l’attore interpreta un ebreo con gli occhiali. Grazie a questo ruolo ha l’opportunità di incontrare due registi importanti per la sua carriera: Carlo Lizzani (all’epoca regista della seconda unità) e Giuliano Montaldo, aiutante del primo.
L’estate 1960 coincide con un altro significativo incontro: a Verona, sulle scene di Romeo e Giulietta di Franco Enriquez, Volonté conosce Carla Gravina. Tra i due inizia una storia profonda e tormentata dalla quale, l’anno successivo, nascerà Giovanna.
Qualche mese dopo, la Compagnia degli Attori Associati, alla quale Volonté si era unito, porta in scena Sacco e Vanzetti. Curiosamente, però, è Ivo Garrani a interpretare il piemontese Bartolomeo Vanzetti, mentre Volonté veste i panni del pugliese Nicola Sacco. Giuliano Montaldo assiste a Genova a una messiscena del dramma: all’uscita si vergogna a tal punto di avere fino a quel momento ignorato la vicenda dei due italiani ingiustamente condannati, che decide di occuparsene. Nel 1970 annuncia di voler girare un film, che uscirà l’anno seguente. Riccardo Cucciolla, caldeggiato da Volonté, viene scelto per la parte di Nicola Sacco, mentre lo stesso Volonté veste letteralmente i panni di Vanzetti fino a confondersi con l’anarchico di Villafalletto. Secondo il regista, “Volonté era talmente dentro il personaggio di Vanzetti da proteggere Cucciolla come se fosse il vero Sacco”.
Nel finale del film, prima della condanna, mentre Sacco decide di non parlare, Volonté/Vanzetti si lancia un discorso talmente empatico ed espressivo che una delle guardie alle sue spalle (una comparsa romana) non riesce a trattenere le lacrime. L’interpretazione, in maniera qui più evidente che in altre scene, assume un’intonazione inequivocabilmente piemontese e raggiunge il proprio culmine con l’affermazione “Mi sun anarchic”. Per sentire ancora più vicino il personaggio, viene individuata Armenia Balducci, nuova compagna di Gian Maria, per intrerpretare la moglie di Vanzetti.
Nel 1968 Carlo Lizzani pesca direttamente dalla cronaca dell’epoca per realizzare Banditi a Milano, una via di mezzo tra film d’inchiesta e poliziottesco sulla Banda Cavallero. Formatasi nelle piòle di corso Vercelli, nell’estrema periferia torinese, la banda era composta da figli di operai e piccoli artigiani che non accettavano il conformismo in cui stava precipitando lo slancio della lotta partigiana. Per loro, la rivoluzione andava continuata colpendo, innanzitutto, i simboli del capitale, cioè le banche. Tra Torino e Milano ne rapinano diciotto, uccidendo cinque persone e sequestrandone altrettante. Capo indiscusso era Pietro Cavallero, classe 1929. Cresciuto in Barriera di Milano e diplomato perito chimico, per un po’ trova lavoro come bigliettaio sui tram. Dopo essere stato attivista comunista, viene espulso dal partito e rimane disoccupato. Da queste delusioni nasce il desiderio di rivalsa nei confronti di una società in cui non si trova. Spavaldo, esibizionista, dal piglio deciso e dal sorriso beffardo: Volonté riesce a trasferire tutto ciò sullo schermo in maniera convincente, insieme alla puntuale calata torinese. “Sono un drago, io, sono uscito dalle masse!”, Volonté/Cavallero esclama, esaltato, dopo un colpo ben riuscito, mentre così intima all’autista del gruppo durante l’ultimo inseguimento: “Pista, boja faus, pista!”.
Il film prende avvio dal colpo conclusivo, avvenuto il 25 settembre 1967 all’agenzia 11 del Banco di Napoli di Milano, e dal tentativo di linciaggio ai danni di Adriano Rovoletto. L’autista rimane ferito durante l’inseguimento, mentre Cavallero e il suo braccio destro, Sante Notarnicola, riescono a dileguarsi per qualche giorno prima di arrendersi in un vecchio casello ferroviario nei pressi di Valenza Po. Il quarto elemento, Donato Lopez, era fuggito e catturato il giorno successivo alla rapina.
Malgrado il ricorso presentato dagli avvocati di Cavallero e Rovoletto, il film viene presentato in anteprima al Carignano il 23 aprile 1968. Lizzani ricorda così una delle scene cardine:
eravamo nascosti nel sedile posteriore della macchina, con cui Volonté/Cavallero fuggiva dalla polizia. A me venivano i brividi quando sentivo la sua voce sarcastica urlare contro la polizia le stesse battute che mesi prima il vero Cavallero aveva pronunciato... Siamo rimasti tutti quanti colpiti dal modo in cui ha saputo cogliere quel sarcasmo, quell’ironia... ed anche la sua mitomania.
Anche La classe operaia va in paradiso, pellicola girata tra la fine del 1970 e i primi del 1971, presenta un profondo intreccio tra cinema e realtà. Il film si colloca in un periodo particolare del nostro paese: gli anni della crisi industriale, dei licenziamenti e delle proteste di massa. La pellicola, proprio per la tematica e per il periodo, ha una gestazione lunga e impegnativa. Per il protagonista, pare che Elio Petri (il regista) e Ugo Pirro (lo sceneggiatore) si siano ispirati ad Amedeo Timperi, un operaio militante della FATME di Roma: prima lincenziato, poi incredulo per l’agitazione che era seguita. Quindi, Petri e Pirro visitano alcune fabbriche lombarde e piemontesi per studiare meglio il momento e gli interpreti. Arrivano a Novara, dove si scontrano con difficoltà di ambientazione. In città l’atmosfera è accesa per i problemi occupazionali di alcune aziende locali e per la lunga ondata di contestazione post-sessantottina. Si rivolgono a Ottaviano Del Turco, allora segretario FIOM, il quale segnala una fabbrica di ascensori occupata dai dipendenti: la Falconi.
Benché tecnologicamente all’avanguarda, la Falconi aveva sofferto una gestione truffaldina: da quì i mancati pagamenti e l’occupazione degli stabilimenti. Poiché senza risposte circa il destino della fabbrica, ormai vicina al fallimento, le maestranze decidono di recarsi, l’8 gennaio 1971, presso l’aula del consiglio comunale. Regista, attori e operai diventano una cosa sola: Volonté e altri membri della troupe accompagnano alcune centinaia di dipendenti Falconi in municipio, mentre qualche giorno prima Petri, Volonté, Pirro e altri avevano partecipato a una veglia notturna davanti alle carceri di Verbania in segno di protesta per la detenzione di alcuni sindacalisti.
Per la preparazione del personaggio di “Lulù” Massa, Volonté si supera. Gli elementi grotteschi, già presenti in Cavallero, qui vengono elevati a un livello superiore: a un meticolosissimo lavoro di documentazione, l’attore aggiunge un puntuale lavoro di mimetismo fisico e psicologico, dando vita a una maschera tragica che porta con sé i tratti dell’artista trasformati per accogliere il personaggio nella sua realtà ― la parlata afona, i capelli arruffati, i basettoni, la camminata pesante. Mauro Quaglia, comparsa novarese nel film, è colpito dalla fisicità di Volonté, un omone che si aggirava nervosamente sul set prima di girare una scena. Si comportava, però, tutt’altro che da divo: per Luigi Diberti “Volonté era un compagnone... uno che aiutava, non aveva egoismi”. Rammenta, poi, il primo giorno di riprese: “si piazzò davanti alla macchina che faceva i pezzi e si scrocchiò il corpo come un atleta che si prepara per la gara con il cottimo”.
Durante i mesi delle riprese, la troupe si stabilsce all’Hotel Europa, in corso Felice Cavallotti. Attori e tecnici si ritrovano spesso in un bar adiacente, allora gestito da Oreste Strano, figura storica della protesta novarese. Il bar dell’Oreste era frequentato da persone orbitanti nell’articolata galassia della sinistra extra-parlamentare: tipologie di giovani che andavano a pennello nel film. A Oreste viene così chiesto di fornire dei nominativi per le comparse. La prima del film si svolge in un clima da evento per la città: il 25 settembre il teatro Faraggiana è preso d’assalto fin dal primo pomeriggio. Tuttavia, parecchi novaresi accorsi per vedersi sul grande schermo rimangono delusi poiché non riescono a riconoscersi oppure perché le loro scene risultano tagliate nel montaggio finale.
Volonté portò in scena altri piemontesi: nel 1965 interpreta Michele nel film La strada più lunga, tratto da Il voltagabbana di Davide Lajolo, mentre nel 1979 è Carlo Levi nel film ispirato al romanzo Cristo si è fermato a Eboli.
Gian Maria Volonté morì il 6 dicembre 1994 mentre impegnato nel film Lo sguardo di Ulisse di Theo Angelopoulos. Sono trascorsi quasi trent’anni da allora, ma il testamento artistico e la tensione morale di Volonté non hanno mai smesso di parlarci. E lo fanno, naturalmente, anche in piemontese.