136 fogli di pergamena, ognuno dei quali alto 31 centimetri e largo 20, contenenti dalle 23 alle 32 linee di testo vergate più di mille anni fa: questo, in cifre, è il Vercelli Book. L’antico codice, in realtà, racchiude molto di più di quanto i freddi numeri riescano a dire. Il manoscritto, noto anche come Codex Vercellensis, è uno dei quattro codici esistenti che raccolgono il 90% delle composizioni in Old English (la forma più antica dell’inglese) oggi conosciute. Il raro volume è attualmente custodito presso la Biblioteca Capitolare della cattedrale dedicata a Sant’Eusebio, a Vercelli. Ciò che lo rende speciale è il fatto di essere l’unico, dei quattro, a essere conservato Oltremanica.
Prima di ipotizzare come sia arrivato a Vercelli, e chi ve l’abbia portato, cercheremo di capirne di più su provenienza e contenuto: quando e dove è stato realizzato e quali composizioni racchiude.
La maggior parte dei ricercatori è concorde nel ritenere che il codice sia stato ultimato sul finire del 900, verosimilmente non oltre il 975, nello scrittoio di una comunità ecclesiastica nel sud-est dell’Inghilterra – forse presso l’abbazia di Sant’Agostino di Canterbury. Siamo pressoché certi che la compilazione sia avvenuta per opera di un solo scrivano nel corso di un lungo periodo di tempo. Il tipo di scrittura impiegata è definita minuscola quadrata anglosassone, un tipo di grafia nata dalla quadratura dei caratteri e dalla semplificazione delle legature della minuscola insulare, la forma di scrittura più diffusa in Inghilterra dal 700 al 900.
Il manoscritto contiene ventitré omelie in prosa e sei testi poetici disposti senza un ordine apparente – combinazione, questa, piuttosto rara sia nei codici latini che in quelli inglesi antichi. Le poesie sono: Andreas, Fates of the Apostles, Soul and Body I, Homiletic Fragment I, Dream of the Rood ed Elene. Tutti i componimenti sono in forma anonima ad eccezione di The Fates of the Apostles ed Elene. Sulle pagine di entrambi i testi, infatti, appaiono otto caratteri che, combinati tra loro e tradotti nei caratteri dell’alfabeto romano, compongono il nome di Cynewulf, il poeta più noto del periodo anglosassone.
La composizione più lunga è Andreas, un poema che racconta la vita di Sant’Andrea (santo peraltro molto caro ai Vercellesi come dimostra la basilica a lui intitolata) presentando il protagonista come un guerriero in lotta contro le forze del male. La poesia più celebre è Dream of the Rood (Il sogno del crocifisso), in cui la croce del martirio di Gesù diventa simbolo di sofferenza e morte. Stesso interesse per la croce si trova in Elene, poesia in cui l’imperatrice romana Elena, madre di Costantino, scopre lo strumento del supplizio di Cristo.
Vercelli Book (immagine tratta da: www.finestresullarte.info) e incipit del poema Andreas dalla versione online del manoscritto. Dal sito è possibile ingrandire i caratteri (le "rune") per poterli osservare con maggior precisione.
I testi prosastici, come ha osservato Zacher, sono “classificati secondo due tipologie: omelie e testi agiografici, sebbene questi termini risultino spesso fuorvianti e non sufficientemente descrittivi”. Per esempio, i testi catalogati con i numeri XVIII e XXIII, che trattano rispettivamente la vita di San Martino e di San Guthlac di Crowland, benché tipicamente agiografici nei temi e nel linguaggio, presentano caratteri stilistici che li avvicinano alle omelie.
Non risulta chiaro se il volume sia stato originariamente inteso come oggetto privato o concepito per svolgere una funzione pubblica, benché entrambe le ipotesi non debbano per forza escludersi a vicenda. Ammesso che il manoscritto sia stato commissionato da un individuo di rango elevato (un sacerdote o un abate), esso avrebbe potuto essere letto in pubblico e in un secondo tempo assorbito nella biblioteca di un ordine monastico.
L’aspetto più intrigante del prezioso codice che, immaginiamo, interesserà maggiormente ai lettori, riguarda la sua presenza a Vercelli. Sappiamo che il manoscritto rimase in Inghilterra almeno fino alla prima metà del secolo XI, dopodiché, intorno al 1100, giunse a Vercelli. Chi l’ha portato e perché proprio a Vercelli?
Va innanzitutto ricordato che la città eusebiana fu a lungo un centro importante dell’Italia settentrionale, snodo cruciale lungo la via Francigena e tappa di passaggio obbligata per mercanti, viaggiatori e pellegrini provenienti dalla Francia attraverso i valichi alpini. In epoca medievale, a Vercelli esistevano diversi istituti presso i quali sostare e trovare alloggio, come l’Ospedale di Santa Brigida, noto anche come ospedale degli Scoti, così chiamato poiché meta prediletta dai britannici. L’ospedale e l’annessa chiesa sorgevano a pochi passi dall’attuale cattedrale di Sant’Eusebio, dalla quale dipendevano. Nello stesso luogo oggi si trova il Palazzo Berzetti di Murazzano, che ospita la sede della Congregazione delle Suore di Santa Maria di Loreto. L’ospedale, certamente attivo prima del 1140, fu per anni il più ampio della città; poi, nel corso del XIV secolo, l’ente attraversò un periodo di ristrettezze economiche e finì per essere assorbito dall’Ospedale di Sant’Andrea, edificato, come l’omonima basilica, per volontà del cardinale Guala Bicchieri.
Nessuno conosce l’identità della persona che condusse seco il manoscritto a Vercelli. Stando all’ipotesi più accreditata si sarebbe trattato di un viaggiatore altolocato proveniente dall’Europa settentrionale – in particolare dalle Isole Britanniche. Questo individuo, di passaggio a Vercelli o nel corso di un soggiorno prolungato in città, avrebbe donato il codice alla cattedrale di Sant’Eusebio. L’attenzione degli studiosi si è concentrata su importanti personalità ecclesiastiche del periodo. Nel corso del secolo XI diversi arcivescovi inglesi visitarono Vercelli. Tra questi: Aelfheah, il quale fu presso la città piemontese nel 1007; Lyfing nel 1018, Aethenoth nel 1022 ed Eadsige nel 1040.
Prima di questi, Sigeric, arcivescovo di Canterbury dal 989 al 994, transitò e presumibilmente soggiornò presso la città eusebiana. Secondo la collezione nota come Anglo-Saxon Chronicle, Sigeric lasciò Canterbury nel 990 per dirigersi a Roma al fine di ricevere la consacrazione papale. Durante il viaggio di ritorno l’arcivescovo compilò un diario di viaggio, oggi noto come Itinerary of Archbishop Sigeric, nel quale fu appuntato il tragitto e segnate tutte le fermate. Vercelli corrisponde alla quarantatreesima tappa, e proprio nella città piemontese Sigeric potrebbe aver lasciato il pregevole dono per contraccambiare l’ospitalità ricevuta.
Un altro individuo che potrebbe aver recato con sé il pregiato codice è Leone, creato arcivescovo di Vercelli tra il 998 e il 999. Nato in Germania intorno al 965, Leone presto diventò un protetto degli imperatori tedeschi, per i quali lavorò al fine di estendere la loro autorità in Italia. Alla morte di Ottone III, il successore Enrico II confermò Leone come consigliere imperiale. Questi seguì fedelmente il nuovo imperatore mettendo a disposizione la propria cultura nel corso dei concili che si tennero in Italia tra il 1021 e il 1022. Durante uno spostamento attraverso l’Europa e l’Italia al seguito di Enrico II, Leone ebbe a disposizione parecchi manoscritti di pregio, molti dei quali poi finirono ad arricchire la Biblioteca Capitolare di Vercelli. Era forse il Codex Vercellensis compreso tra questi volumi?
Un terzo eventuale donatore potrebbe essere il vescovo emerito della città di Dorchester dal 1050 al 1052: Ulf. Fu tra i vescovi più impopolari del regno di Edoardo il Confessore poiché accusato di eccessivo lassismo nello svolgimento degli incarichi ecclesiastici. Lo scandalo sollevato dal comportamento di Ulf giunse presto alle orecchie del pontefice. Approfittando di un concilio organizzato a Vercelli nel 1050, il papa volle che vi presenziasse anche il vescovo di Dorchester. Secondo la già citata Anglo-Saxon Chronicle, Ulf in effetti si recò a Vercelli, dove “per poco gli avrebbero spezzato il bastone se egli non avesse donato magnifici regali; perché egli non sapeva svolgere le proprie funzioni in maniera adeguata”. Al prelato fu consentito di tornare in patria mantenendo intatto il proprio bastone pastorale e conservando il titolo vescovile, ma in cambio dovette versare una somma molto elevata. Non doveva trattarsi necessariamente di un contributo in denaro: è presumibile che Ulf sia stato costretto a liberarsi di alcuni beni di pregio, e chissà che tra questi “magnifici regali” non figurasse anche il Vercelli Book.
Una volta archiviato su uno scaffale della Biblioteca Capitolare, il Vercelli Book vi rimase a prendere polvere fino all’inizio del Seicento. Fu solo allora che il protonotario apostolico Giovanni Francesco Leone, nel redigere l’inventario della biblioteca, notò il volume e, dopo averlo consultato senza esito, lo catalogò come “Liber Gothicus, sive Longobardus”, facendo inoltre seguire la nota “eo legere non valeo”.
Trascorse più di un secolo allorché lo storico veronese Giuseppe Bianchini, a Vercelli per classificare alcuni documenti rinvenuti presso la biblioteca della cattedrale, con una certa sorpresa si trovò tra le mani proprio il voluminoso manoscritto: lo esaminò con cura ma non riuscì a stabilirne la provenienza.
L’identificazione definitiva avvenne soltanto nel 1822 grazie al giurista Friedrich Blume. Anche Blume, come Bianchini, all’epoca si trovava in Italia per condurre alcune ricerche quando, piuttosto casualmente, s’imbatté nel Vercelli Book. A differenza del suo predecessore, il giurista tedesco lo identificò all’istante. Malgrado la sensazionale scoperta, l’esistenza del codice rimase ignota a molti e il libro continuò a essere catalogato come Homiliarum liber ignoti idiomatis.
Soltanto negli ultimi due decenni il Vercelli Book è uscito dall’isolamento al quale era stato confinato, finendo poco alla volta per organizzare intorno a sé buona parte della vita culturale cittadina grazie a esibizioni, letture pubbliche, visite guidate e progetti di vario tipo volti a facilitare l’accesso al manoscritto da parte di un pubblico sempre più vasto e non necessariamente specializzato.
Risale al 2001 il primo tentativo di digitalizzazione dell’antico manoscritto allo scopo di realizzarne una versione elettronica. Il processo fu affidato a un gruppo di ricercatori guidati da Roberto Rosselli Del Turco, docente presso il Dipartimento di Studi Umanistici dell’Università di Torino. Grazie al sostegno della Regione Piemonte, ogni pagina del volume fu prima sottoposta a scansione alla più alta risoluzione disponibile, quindi codificata e infine caricata su un sito Internet ancora attivo.
Qualche anno più tardi seguirono tentativi di recupero delle parti danneggiate del codice, di quelle sezioni, cioè, rovinate dall’incauto utilizzo di reagenti chimici impiegati nel corso del XIX secolo. Il primo tentativo, datato 2010, fu possibile grazie allo scanner multispettrale messo a disposizione dalla Biblioteca Nazionale di Torino. L’esperimento, tuttavia, non ebbe successo. Nel 2013 fu avviato il Lazarus Project, una collaborazione tra ricercatori della Mississippi University grazie alla quale, attraverso l’utilizzo di tecniche particolari, si riuscì a rendere più leggibile il testo in alcuni punti, ma non fu possibile restaurare digitalmente le aree danneggiate.
Numerose, poi, le iniziative volte a far avvicinare più persone possibili a questo enigmatico e affascinante oggetto. Nel 2016 fu organizzato un evento, pressoché unico nel suo genere, intitolato “Readings from the Vercelli Book”. Si trattò di una serie di incontri pubblici, che si svolsero all’interno della cattedrale di Sant’Eusebio, durante i quali alcuni tra i maggiori studiosi di Old English lessero ad alta voce brani e storie tratte dal manoscritto. L’aspetto sorprendente consistité nel fatto che le letture avvennero nell’inglese originale dell’antico codice. L’evento ebbe un tale e inaspettato successo che fu replicato l’anno seguente con il titolo “New readings from the Vercelli Book”.
Sul finire del 2018 una mostra e una serie di conferenze organizzate dalla Biblioteca Capitolare salutarono un evento epocale: la partenza del codice per l’Inghilterra. Infatti, nell’ottobre 2018, per la prima volta in circa mille anni, il Vercelli Book lasciò la città per essere esposto presso la British Library di Londra in occasione di una mostra temporanea intitolata Anglo-Saxon Kingdoms: Art, Word, War.
Al ritorno dell’antico volume in Italia fu lanciata un’iniziativa figlia dei nostri tempi: far entrare il Vercelli Book nel mondo virtuale dei videogames. La collaborazione, durata all’incirca due anni, tra l’Istituto per le Tecnologie Didattiche del CNR di Palermo e la società Bepart di Milano, nella primavera 2021 ha dato alla luce Hwaet! The Vercelli Book Saga, videogioco gratuito e scaricabile dalle principali piattaforme.
Insomma, che sia in forma cartacea o digitale, il Vercelli Book sembra non avere smesso di interrogare studiosi e incuriosire anche i meno esperti. C’è da scommettere che questo antico volume continuerà a parlare, e forse un giorno svelerà i suoi segreti, purché continuino ad esserci orecchie pronte ad ascoltare.
Del Turco R., Il Vercelli Book Digitale. Edizione in facsimile di Vercelli, Biblioteca Capitolare, CXVII. Introduzione all’edizione digitale, Torino, StudiUm, 2017.
Lastella R., Vercelli Book: una nuova ipotesi sulla sua provenienza, in Bollettino storico vercellese, 41, 1993.
Scragg D., The Compilation of the Vercelli Book, in Anglo-Saxon England, 2, 1973.
Treharne E., The Form and Function of the Vercelli Book, in Text, Image, Interpretation: Studies in Anglo-Saxon Literature and its Insular Context in Honour of Éamonn Ó Carragáin, Turnhout, Brepols, 2007.
Zacher S., Re-reading the Style and Rhetoric of the Vercelli Homilies, in The Old English Homily: Precedent, Practice, and Appropriation, Turnhout, Brepols, 2007.