Pubblicato nel 1818 dalla poco più che ventenne Mary Wollstonecraft Shelley, il romanzo Frankenstein, o il Moderno Prometeo viene riconosciuto come il punto di origine della letteratura di fantascienza e dell’horror moderno, e ha gettato un’ombra lunghissima sulla nostra cultura. Ne sono stati tratti centinaia di adattamenti, film e fumetti. L’attore inglese Boris Karloff è stato a suo modo intrappolato per tutta la vita nel ruolo del Mostro interpretato negli anni Trenta. Il protagonista Viktor Von Frankenstein e il suo Mostro sono stati a seconda dei casi usati come metafora della ineluttabilità della morte, dell’eugenetica, della bioingegneria sfuggita al controllo, dell’imperialismo ottocentesco. Frankenstein (lo scienziato) e Frankenstein (il mostro) hanno a turno minacciato e salvato l’umanità. Il mostro di Frankenstein è sopravvissuto alla bomba di Hiroshima e ha affrontato il mostro gigante Baragon calpestando la periferia di Tokyo.
Nel 1920, a Torino, il mostro di Frankenstein affrontò Sansone e, successivamente, la censura del Regime Fascista. Sopravvisse al primo scontro, ma purtroppo non al secondo. Ma è un po’ più complicato di così.
Il mostro di Frankenstein è un film diretto da Eugenio Testa, attore, regista e produttore torinese. Dopo gli esordi nel teatro dialettale piemontese, Testa avvia nel 1913 la propria carriera cinematografica. In quegli anni a Torino sono attive dieci case di produzione e la ex capitale d’Italia è sulla buona strada per diventare la capitale del cinema nel nostro Paese. Nel 1920, quando Testa gira il suo Frankenstein, entrando nella storia come regista del primo film dell’orrore italiano, a Torino ci sono trenta compagnie di produzione cinematografica.
Il modello produttivo di queste compagnie è stato sviluppato all’inizio del secolo da Arturo Ambrosio, il primo grande produttore italiano. L’idea è quella di avere un ciclo chiuso, che metta sotto al controllo dei produttori la lavorazione, la distribuzione e la proiezione delle pellicole. Ambrosio possiede gli studi di posa, finanzia i film, si occupa della distribuzione e gestisce una rete di sale nelle quali i film vengono proiettati (ingresso 50 centesimi, militari e bambini metà prezzo). È lo stesso modello produttivo che in Francia viene portato avanti dalla Pathé e a Torino, dove Ambrosio inizia la sua attività, produce una concentrazione di competenze che porta naturalmente allo sviluppo di una industria. Nel 1906 la Anonima Ambrosio viene fondata con un capitale di 700.000 lire (circa tre milioni di euro di oggi). La Aquila Film di Camillo Ottolenghi e l’Itala Film seguono rapidamente l’esempio della Ambrosio, spalancando le porte a decine di altre realtà.
Il cinema diventa un investimento attraente per industriali con ambizioni culturali come Pastrone o Gualino – perché il cinema è intrattenimento e cultura al tempo stesso e non porta con sé quell’aura di malaffare che rende sconveniente finanziare il teatro. È nuovo, moderno, quanto di più “hi-tech” si possa immaginare. E naturalmente, la nascita di teatri di posa e laboratori di sviluppo va di pari passo con l’apertura di nuove sale cinematografiche, cambiando il modo di intendere l’intrattenimento pubblico.
Il 18 di maggio del 1907, La Stampa pubblica:
I cinematografi, colla loro petulanza luminosa, coi loro grandi manifesti tricolori, e quotidianamente rinnovati, colle rauche romanze dei loro fonografi, gli stanchi appelli delle loro orchestrine, i richiami stridenti dei loro boys rosso vestiti, invadono le vie principali, scacciano i caffè, si insediano dove già erano gli halls di un réstaurant o le sale di un biliardo, si associano ai bars, illuminano ad un tratto con la sfacciataggine delle lampade ad arco le misteriose piazze vecchie, e minacciano a poco a poco di spodestare i teatri, come le tramvie hanno spodestato le vetture pubbliche, come i giornali hanno spodestato i libri, e i bars hanno spodestato i caffè
È Giovanni Papini, a ricordarci che ai suoi tempi qui era tutta campagna, e a domandarsi dove andremo a finire, signora mia, in un articolo intitolato La Filosofia del Cinematografo.
Ci sono cose che non cambiano.
Il film di Testa è prodotto e interpretato da Luciano Albertini, un ex artista da circo e trapezista il cui vero nome era Francesco Vespignani. Grazie all'ottima presenza atletica, Albertini ha trovato un buon successo come attore cinematografico diventando ben presto una delle star del muto in Italia e richiesto anche all’estero (interpreta diverse pellicole in Russia, Germania, Stati Uniti). Albertini è spesso in cartellone col nome d’arte “Sansonia” derivato da Sansone, personaggio che interpreta a partire dal 1918 (Sansone contro i Filistei) e che si ritroverà ben presto a capo di una “Famiglia Sansoniana” che comprende anche sua moglie Linda Albertini, nota come “Sansonette”, eroina d’azione al femminile di una serie di pellicole. La famiglia è al completo con l’aggiunta di due attori/acrobati bambini, nel ruolo dei figli di Sansone e Sansonette. In coppia o singolarmente, Sansone e Sansonette interpretano una decina di film nel solo 1920.
Nel film basato sul romanzo della Shelley, Albertini si ritaglia il ruolo del barone Frankenstein e sua moglie Linda interpreta Elizabeth, mentre la parte del mostro viene affidata a Umberto Guarracino, un ex scaricatore di porto genovese, amico e collega del più famoso “camallo” Bartolomeo Pagano. Come Pagano, che ha legato il proprio nome al ruolo di Maciste in Cabiria e in una serie di popolari film successivi, Guarracino porta abitualmente sulla scena personaggi muscolari e violenti – spesso gli antagonisti del suo amico Pagano/Maciste. La fisicità di Guarracino ben si adatta al ruolo del mostro, contrapposto al più elegante Albertini nei panni dell’aristocratico scienziato pazzo.
Come da copione, il barone crea un mostro che si ribella e minaccia lui e la sua compagna, salvo venire sconfitto nel finale. La sceneggiatura del film porta una firma che ci potrebbe essere familiare: Giovanni Drovetti, autore di romanzi per ragazzi e pièces teatrali, poeta e paroliere per canzoni popolari, è infatti il bisnipote di Bernardino Drovetti, il famoso egittologo e console napoleonico in Egitto. Dopo aver vagabondato per l’Italia al seguito del padre, dipendente delle regie ferrovie, Giovanni Drovetti si è sistemato in un appartamentino a Torino dove conduce una vita da bohémien e dirige una filodrammatica.
La pellicola, della durata di trentanove minuti, ha un buon successo sia in Italia che all’estero: fra il 1921 e il 1922 viene proiettata dal Belgio all’Egitto e riceve recensioni più che lusinghiere, prima di scomparire per sempre lasciando dietro di sé solo un fotogramma, una locandina, e due misteri.
Il primo mistero riguarda il fatto che questo film sarebbe, secondo alcune fonti, una specie di “Sansone contro Frankenstein”. Se è vero che il nome di Sansone compare a caratteri di scatola sul materiale promozionale, questo è probabilmente dovuto al fatto che Albertini, come abbiamo detto, era noto a livello internazionale per quel ruolo, e “Sansone” era il suo nome d’arte o, se preferite, il suo brand. Il materiale promozionale specifica anche chiaramente che Albertini interpreta il barone Frankenstein ed è abbastanza difficile immaginare l’attore in un doppio ruolo. Questo non esclude che il confronto finale fra il colossale mostro e il barone non sia uno scontro fisico, ma i personaggi sullo schermo sono il barone e il mostro, non Sansone e Frankenstein. È anche significativo che questo sia un film prodotto dalla Albertini Film, e potrebbe perciò trattarsi di un tentativo dell’attore e produttore di sganciarsi dal suo personaggio più famoso (e interpretato in pellicole della concorrenza) e diversificare la propria carriera.
Locandine pubblicitarie dell'epoca relative all'uscita de "Il mostro di Frankenstein" al cinema.
Il secondo mistero riguarda invece la censura del Regime, che fece sparire ogni singola copia del film. Cosa c’è, di così pericolosamente sovversivo, nella storia del barone e della sua sposa e del mostro nato dalla scienza fuori controllo che ora li minaccia? Non lo sappiamo. Di fatto, nel 1920, la censura fascista non è ancora aggressiva come è destinata a diventare nel decennio successivo. Alla loro ascesa al potere, Mussolini e i suoi seguaci sono più interessati a censurare la stampa che non a interferire con il cinema. Per alcuni anni quindi il Regime applica i criteri della censura che sono stati stabiliti per legge nel 1913. Le pellicole vengono passate al vaglio di una commissione che deve vigilare sul rispetto della morale, del buon costume e delle istituzioni, evidenziando e stralciando “scene truci, ripugnanti o di crudeltà”, “azioni perverse o fatti che possano essere scuola o incentivo al delitto” e le scene che “incitino all’odio fra le varie classi sociali”. Sono pure nel mirino della censura “suicidi impressionanti” e i riferimenti a “fenomeni ipnotici e medianici”. È anche già presente, prima dell’ascesa al potere di Mussolini, l’idea di una “censura preventiva”, ad opera di una commissione che deve esaminare le sceneggiature prima che vengano girate.
È forse per via di questa censura preventiva che il film di Testa subisce numerosi tagli prima di arrivare in sala, e questo spiega probabilmente la durata del film, neanche 40 minuti. Ad incappare nelle maglie della censura sono quasi certamente i temi orrifici della storia, i furti di cadaveri e l’arroganza del Barone, che cerca di sostituirsi a Dio nel creare la vita dalla materia inerte. Temi probabilmente considerati “ripugnanti” dalla commissione. Senza contare l’idea, suggerita ma non esplicitata nella storia originale e nei suoi adattamenti, che il mostro possa in qualche modo abusare fisicamente della povera Elizabeth, prima di ucciderla, quando si introduce nottetempo nella sua stanza da letto. Mel Brooks ne trarrà una sotto-trama farsesca nel suo Frankenstein Junior, ma nel 1920 i tempi non sono ancora maturi: la tutela del buon costume imponeva tagli a scene in cui comparissero con eccessiva esuberanza gambe e seni nudi, camicie da notte e ballerine, baci e abbracci, scene di amanti e frasi troppo allusive. Non si potevano portare sullo schermo personaggi di prostitute o adultere: l’adulterio era un tema proibito dal fascismo, così come il suicidio, il divorzio e l’omosessualità maschile. Tagli quindi, che riducono il minutaggio de Il Mostro di Frankenstein a trentanove minuti.
Solo qualche anno dopo l’ufficio censura deciderà di togliere definitivamente il film dalla circolazione. Cosa è cambiato? Di sicuro, il regime sta cominciando a prendere un controllo diretto della censura. Nel 1924 viene istituito il divieto ai minori di 16 anni per la visione di certe pellicole. Si comincia a lavorare alla creazione di Cinecittà, che porterà il cinema a Roma, vicino alla sede del potere e quindi più facilmente sotto il suo controllo. L’industria cinematografica torinese comincia ad appassire. E più in generale la censura fascista comincia a mostrare una crescente preoccupazione – comune a tutti i regimi totalitari – nei confronti dell’immaginario in generale e dell’orrore in particolare. Vengono vietate le proiezioni di pellicole come Il Dottor Mabuse di Fritz Lang (1923) e proprio nel 1924 viene revocato il nulla osta a Il Gabinetto del Dottor Caligari di Robert Wiene (1920), che viene ritirato dalle sale. Più tardi la censura fascista impedirà la distribuzione del Dracula di Tod Browning (1930), quello con Bela Lugosi.
Le pellicole orrifiche “danneggiano il morale della nazione” e in generale qualunque storia che immagini una realtà “altra” sottintende un’insoddisfazione o una critica nei confronti della realtà. È paradossale, a questo punto, che la censura vada a colpire contemporaneamente il cinema “troppo realistico” e quello “troppo immaginifico”. L’offerta si appiattisce su una immagine edulcorata del reale. È l’avvento dei “Telefoni Bianchi”, commedie e melodrammi artefatti e implausibili, ma che nel mettere in scena un immaginario addomesticato, presentano un mondo assolutamente irreale ma comunque perfettamente conforme alla propaganda del Regime.
È possibile che la forte vena sovversiva di una storia come quella di Frankenstein – che sfida il Potere più alto – sia perciò considerata troppo per il pubblico italiano della metà degli anni Venti. Forse per questo il film scompare e ad oggi ce ne rimangono solo un fotogramma, qualche locandina e un paio di articoli sulla stampa nazionale ed estera. Non possiamo vedere il film di Eugenio Testa, non possiamo valutarne la qualità e l’impatto, non possiamo sapere davvero perché il Regime decise che doveva scomparire. A Il Mostro di Frankenstein girato a Torino nel 1920 tocca perciò lo strano destino di essere il primo, e fallire, aprendo tuttavia la strada al successo di chi verrà dopo. Un trionfo e una sconfitta che riecheggiano, ironicamente, le vicende del protagonista e della sua creatura.
Castelli L., Il Frankenstein di Torino compie 100 anni. Fu il primo horror italiano, in Corriere della Sera, 1 marzo 2020.
Guli R., La censura cinematografica in epoca fascista, in Cinecensura, s.d.
Rondolino G., La nascita del cinema a Torino, in Bracco D. e altri (a cura di), Turin berceau du cinéma italien, Milano, Il Castoro, 2001.