Quando è possibile, mi piace tenermi al corrente delle scelte della Commissione Toponomastica del Comune di Torino. Mi interessa capire su chi cadrà la scelta a cui dedicare la prossima via, la prossima piazzetta, il prossimo giardino, la prossima area pedonale. Credo che la scelta di persone da celebrare, da commemorare o anche solo da ricordare con una piccola targa, dica parecchio sulla nostra società e sulla nostra contemporaneità: ne individua l’universo valoriale, ne svela i vezzi politici, gli ideali in voga, ne mostra i santi, sia laici che non. Tante volte le persone selezionate mi risultano molto note, altre volte meno, altre volte ancora (per mia ignoranza) mi sono completamente sconosciute, tuttavia, se scorro l’elenco delle intitolazioni degli ultimi venti anni, non posso che rimanere sorpreso dall’assenza nella toponomastica torinese (e non solo torinese…) di un nome che ha avuto un’importanza cruciale per la cultura piemontese degli ultimi secoli. Il nome è quello di Maurizio Pipino, colui che, per primo, pubblicò una grammatica e un dizionario in lingua piemontese.
Al giorno d’oggi molte cose vengono date per scontate. Di grammatiche e di dizionari ne vengono pubblicati ogni giorno e ogni giorno nuove parole vengono sottoposte al vaglio dell’Accademia della Crusca per essere inserite o espunte dai vocabolari seguendo la costante evoluzione della lingua. Allo stesso modo, le regole grammaticali sono qualcosa di preciso, di stabilito, di definito normativamente, che noi siamo abituati a imparare e a fare nostre dai tempi della scuola. Se questo è vero per l’italiano, anche lingue con una circolazione più ridotta, come appunto il piemontese, si difendono bene. Solo per quanto riguarda i dizionari, non si può dire che la lingua piemontese non abbia degli strumenti di primo piano al servizio dell’appassionato: dal celeberrimo Sant’Albino, più volte ristampato nella sua florida interezza, a quello di Camillo Brero, al Neuv Gribaud e a tanti altri, di matrice più locale ma interessantissimi dal punto di vista linguistico, che indagano le variazioni da zona a zona, da paese a paese.
Pur avendo a che fare con la grammatica e il lessico ogni giorno per le nostre normali attività quotidiane, in pochi, tuttavia, considerano che le regole grammaticali, in un certo momento storico della vita di una lingua, sono state elaborate in un codice preciso che ha reso possibile il trasferimento della lingua dalla pura oralità a una condizione scritta. Si tratta, in definitiva, di stabilire e inventare ex-novo il modo con cui una lingua si scrive: di stilare, potremmo dire, il suo atto di nascita, di registrare il suo momento fondativo con il quale, da una incerta tradizione orale o manoscritta, si passa a uno standard codificato con cui chiunque vorrà scrivere sarà costretto a confrontarsi. Non è un’operazione da poco. Ci vogliono una pazienza certosina, un’acuta sensibilità lessicale, una conoscenza non indifferente delle regole e delle convenzioni della grammatica, un vivo interesse per la lingua e, non ultimo, una grande perseveranza nel portare a compimento un’opera molto lunga, elaborata e non priva di difficoltà. E noi, ancora oggi, per il piemontese dobbiamo ringraziare Maurizio Pipino.
Pagine interne della "Grammatica piemontese".
Nonostante l’indubbia importanza della sua opera, della vita di questo lessicografo di fine Settecento abbiamo tutt’oggi notizie alquanto vaghe: sappiamo che nacque a Cuneo nel 1739, che si laureò in Medicina e che esercitò la sua professione a Torino, probabilmente in ambienti vicino alla corte, continuando a tenersi aggiornato sulle novità di tipo sanitario provenienti dai paesi europei più progrediti, che provò pure a introdurre in Piemonte con la pubblicazione, alla fine degli anni Ottanta, di un Almanacco di Sanità dai chiari intenti divulgativi. Sappiamo anche delle tristi circostanze della sua morte: nel 1788, decisosi a intraprendere un viaggio verso Oriente insieme a un figlio per “apprendervi nuove cognizioni mediche”, Pipino si ammalò e perse la vita nelle acque antistanti l’isola di Simi nella primavera-estate dello stesso anno, seguito dal figlio giusto dieci giorni dopo. Nonostante il suo encomiabile impegno in ambito sanitario, il suo nome rimane ancora oggi legato al pioneristico ed essenziale lavoro sulla lingua piemontese che, nel maggio del 1783, lo portò a pubblicare, dopo un lungo lavoro durato almeno cinque anni, la Grammatica piemontese, il Vocabolario piemontese e una raccolta di Poesie piemontesi.
Pagine interne della raccolta di "Poesie piemontesi".
Per comprendere pienamente il valore della sua opera dobbiamo immaginare in che condizioni versasse la letteratura in piemontese prima della pubblicazione della Grammatica. Nonostante contasse già diversi autori, alcuni dei quali di non trascurabile importanza, e che la lingua venisse usata comunemente per rime d’occasione tra i ceti più colti, è indubbio che la letteratura in lingua subalpina fosse relegata fino ad allora in un ambito di semi-clandestinità. A questa condizione avevano contribuito diversi fattori, non ultimo quello politico. Innanzitutto, in un’area geografica dove si usavano indifferentemente sia il francese che l’italiano, il piemontese aveva faticato ad affermarsi, almeno dal punto di vista letterario. Inoltre, a differenza di altri Stati preunitari, per buona parte del Seicento e del Settecento il Regno di Sardegna non era stato un luogo molto favorevole per lo sviluppo delle lettere. Il controllo sulle opere era oppressivo, la censura onnipresente e la stessa famiglia sabauda non mostrava di tenere in gran considerazione gli intellettuali e i letterati, giudicati, secondo l’efficace definizione coniata da Carlo Emanuele III, solo un surplus de nation. Infine, non bisogna dimenticare che, per la natura spesso burlesca e satirica delle opere scritte nelle lingue dallo spiccato carattere popolare, queste potevano prestarsi con molta facilità a veicolare messaggi meno ortodossi rispetto all’irrigidita e convenzionale letteratura in italiano.
Così, a differenza che in altre regioni italiane, nel pieno del Settecento la quasi totalità delle opere in piemontese circolavano manoscritte senza un canone che ne mettesse a punto la scrittura e le regole grammaticali. Solo con l’avvento al trono di Vittorio Amedeo III nel 1773 le cose iniziarono gradualmente a cambiare. È oramai assodato che l’incoronazione di questo re, così negletto dalla storiografia sabaudista per la disastrosa partecipazione alla guerra contro la Francia rivoluzionaria, inaugurò un nuovo corso per la cultura piemontese che si aprì alle più aggiornate iniziative intellettuali del tempo. In questo clima di ampia apertura nei confronti della cultura, anche il piemontese, precedentemente “poco stimato dagli stranieri, e negletto del tutto anche dagli stessi nazionali”, incominciò a trovare maggior spazio nelle accademie, spesso di provincia, che stavano sorgendo spontaneamente in tutte le parti del Regno. L’opera del Pipino fu l’ultimo e naturale passo di questo nuovo flusso di energie: la Grammatica stabiliva finalmente le regole della lingua nella sua codificazione scritta, il Vocabolario era il primo dizionario pubblicato in piemontese, mentre la Raccolta creava un primo canone ufficiale dei migliori autori in lingua subalpina. Gli effetti dell’opera pipiniana sul mondo culturale piemontese furono subito notevolissimi. La Grammatica venne citata ed elogiata da diverse riviste culturali internazionali e, da lì a un anno, sull’onda del clamore suscitato dall’opera, la commedia ’L cont Piolet, scritta un secolo prima dal conte Giambattista Tana e tenuta fino ad allora manoscritta per evidenti opportunità politiche, venne pubblicata per la prima volta portando alla riscoperta di uno dei migliori testi teatrali scritti in Italia in epoca barocca.
Imbarazzi e perplessità, comunque, non mancarono. Non erano tanto alcune strampalate teorie che il Pipino abbozzava sulla formazione del piemontese (come quando sosteneva che gli egizi avessero fondato Torino o riteneva importante nella lingua subalpina l’apporto del maltese per via dei Cavalieri di Malta di origine piemontese), quanto il messaggio politico che lui esplicitava in più punti della sua opera e che, peraltro, partiva da un assunto di fondo molto concreto. Secondo l’autore il piemontese, opportunamente plasmato sul dialetto parlato nella capitale “ché più intelligibile, più colto, e più civile è riputato”, era da preferirsi all’italiano e al francese visto che la gran parte della popolazione non parlava né l’uno né l’altro. In un paese dall’alto tasso di analfabetismo, un uso scritto del piemontese avrebbe permesso alla gente comune di avvicinarsi alla scrittura e alla lettura che potevano servire anche agli strati più umili della popolazione, sia per la loro formazione personale, che per far fronte alle incombenze della vita quotidiana:
A me smìa, che quand mia Gramàtica sia divulgà, s’ podrà butesse a profit an varie manère. Pr’esempi, mostrànd con le regole a lese, e a scrive ‘l Piemonteis ad pövri fieui, ch’a son nen an stat d’ frequentè le scöle, e così abilitèsse a tnì un libër d’ manëg, un libër d’ credit, a scrive d’ litre, e cöse simil. E s’a vneisa an testa a quaichdùn de stanpè un pcit librët d’aritmetica ant nöst lingoàge, com l’ha fait col Nissàrd, ch’i v’hai nominàve, e ch’ per cost motìv i’ podreu mai lodèlo abastànsa, sarìjla nen una cösa bela e bona? Che cömod, ch’a l’avrìa la gent ordinària d’anparè a fè d’ cont per regolè i sö afè, e coi dj’aitri? Ma sarìjla nen una cösa d’ gran longa pì interessànt, s’ quaich persona döta, e piena d’ zelo volèisa dè ale stanpe an Piemonteis d’öperete instrutìve su lö, ch’a risgoàrda la nöstra santa Religiòn? Purtröp a j’è tanti e tante, ch’a legio costi tai liber an Italian sensa intèndje, e ch’a saria pr’autr pì ch’ necessàri, ch’j’intendèiso pr’instrùise d’ lö, ch’a san nen, e ch’a bsögna indispensabilmènt, ch’a sapio.
Mi sembra, che quando la mia grammatica sia divulgata, si potrà mettere a profitto in varie maniere. Per esempio, mostrando con le regole a leggere, e a scrivere il piemontese ai ragazzi poveri, che non sono nello stato di frequentare le scuole, e così abilitarsi a tenere un libro di maneggio, un libro di credito, a scrivere delle lettere, e cose simili. E se venisse in mente a qualcuno di stampare un piccolo libretto d'aritmetica nella nostra lingua, come ha fatto quel nizzardo, che vi ho nominato, e che per questo motivo io non potrò mai lodarlo abbastanza, non sarebbe una cosa bella e buona? Che comodo, che avrebbe la gente ordinaria di imparare a fare dei conti per regolare i suoi affari, e quelli di altri? Ma non sarebbe una cosa di gran lunga più interessante, se qualche persona dotta, e piena di zelo volesse dare alle stampe in piemontese delle operette istruttive su quello, che riguarda la nostra santa religione? Purtroppo ci sono tanto e tante, che leggono questi tali libri in italiano senza intenderli, e che sarebbe peraltro più che necessario, che gli intendessero per istruirsi di quello, che non sanno, e che bisogna indispensabilmente, che sappiano.
La raccolta di Poesie piemontesi andava anche più in là dell’esibita praticità della Grammatica convalidando un’altra idea guida di tutta l’opera, l’alto pregio del piemontese e la sua funzionalità poetico-letteraria. Non solo: l’affermazione della piena dignità e insieme funzionalità dell’“idioma piemontese” era il primo passo verso la sua promozione a lingua “nazionale”, non diversamente da altre “nazioni colte” d’Europa come il Portogallo, la Svezia e l’Olanda, che avevano creato una tradizione letteraria propria e ben distinguibile dalle altre. La comunità subalpina, stretta attorno al suo sovrano pe’r via d’contràt sociàl, per divenire a tutti gli effetti una “nazione piemontese” doveva operare un taglio netto con l’ingombrante eredità culturale italiana e francese che ne avevano fatto il “paese anfibio” di alfieriana memoria. Il messaggio ch’un dì a s’podrà fè sensa dl’Italian, e del Franseis era ribadito più volte nelle varie rime che punteggiavano la raccolta, alcune di mano del Pipino, altre di autori non sempre riconoscibili come il non meglio identificato Lesbio Argisseo dell’Accademia degli Immobili di Alessandria, il cui sonetto aveva tuttavia una chiusa piuttosto eloquente:
L’era ben na vergögna, ö Piemonteis,
Ch’noi, chìi somo pa d’men dj’aitre Nassiòn;
Ch’ansi lö, ch’ lor s l’han e d’ bel, e d’ bon,
Trovòma tuta nt nöst paìs conpreis.
Pur i fusso ant so-sì mal an arneis,
Ch’ volènd scrive doe righe ant nöst sërmòn
A venteissa con nöstra confusiòn
Core daj Italian, ö dai Franseis.
Ma adès s’ podòma dì peui fortunà,
Che d’ parlèlo, e d’ scrivlo la manèra
el sor Medich Pipìn a l’ha stanpà.
Donque s’ lö, ch’a n’ mancàva, omo trovà,
Fomie pura a sor Medich bona cera,
Ch’ dai Franseis, e Italian n’ha desbrojà.
Era ben una vergogna, o piemontesi,
che noi, che non siamo meno di altre nazioni;
che anzi quello, che loro hanno di bello, e di buono,
troviamo tutto nel nostro paese compreso.
Eppure eravamo così male in arnese,
che volendo scrivere due righe nel nostro sermone,
bisognava con nostra confusione
correre dagli italiani, o dai francesi.
Ma adesso ci possiamo dire poi fortunati,
che di parlarlo, e di scriverlo la maniera
il signor medico Pipino ha stampato.
Dunque se quello, che ci mancava, abbiamo trovato,
facciamo pure al signor medico buona cera,
che dai francesi, e italiani ci ha sbrogliato.
Per quanto possa apparire oggi estemporanea, l’idea di un dialetto “totalizzante” espressa dal medico cuneese non era tanto distante da alcune proposte che proprio in quegli anni avevano incominciato a circolare in altre parti d’Italia: evidente, per esempio, risultava la somiglianza con quanto propugnato dall’abate Ferdinando Galiani che nel saggio Del dialetto napoletano (1779) proponeva l’elezione del napoletano a seconda lingua del Regno di Napoli. Né il Galiani né il Pipino intendevano contestare il primato del toscano come codice esperantico, ma modificare lo statuto subalterno del dialetto nei confini dei propri territori facendosi promotori di una lingua illustre che, nel caso del Pipino, avrebbe dovuto avere come centro propulsore la corte stessa dove il piemontese era parlato al pari del francese e dell’italiano. D’altro canto, era stata la corte stessa ad approvare il progetto: la dedica alla principessa Maria Clotilde, moglie dell’erede al trono Carlo Emanuele, che aveva di sua iniziativa voluto imparare il piemontese, la pubblicazione presso la Stamperia Reale e la nutrita serie di sonetti e poesie in lode alla famiglia reale che aprivano la raccolta erano l’indizio di una sintonia con la politica di corte che, se da un lato non poteva permettersi di imporre il piemontese come lingua comune dei suoi Stati compositi, dall’altro guardava di buon occhio a una sua codificazione a carattere statuale.
Tuttavia, per gran parte del mondo culturale torinese la proposta pipiniana parve da subito irricevibile. Lo fu certamente per quei gruppi che facevano riferimento al francese non solo come lingua della conversazione e del bel mondo, ma anche come lingua delle accademie internazionali e della divulgazione scientifica ad alto livello, ma lo fu, e forse in misura ancor maggiore, anche per coloro che si stavano impegnando in un processo di nation building del Piemonte sabaudo ricollegandolo alla grande tradizione linguistica e letteraria peninsulare. Giusto un anno prima della pubblicazione della Grammatica pipiniana, Torino aveva visto la nascita della Patria Società Letteraria detta anche accademia Filopatria che intendeva ricercare un’identità piemontese appannata dal nuovo clima culturale illuminista. Formato soprattutto da giovani funzionari attivi negli organi ministeriali, questo circolo non aveva avuto dubbi nell’eleggere l’italiano come lingua della “nazione piemontese”. L’inaspettato silenzio con cui questa accademia, così attiva nel commentare settimanalmente le pubblicazioni letterarie internazionali, accolse l’opera pipiniana, è eloquente di un atteggiamento non certo favorevole.
Un’indiretta risposta alla proposta linguistica del medico cuneese arrivò poi nel dicembre 1785 quando il filopatride Francesco Grassi lesse il suo Saggio sopra le lingue ed i dialetti in cui, partendo dalla considerazione che i popoli che parlano un dialetto sono da considerarsi privi di carattere nazionale, esortava la corte ad adottare stabilmente l’italiano, lingua “fiorita e colta” al posto di “rozzo nazionale dialetto”, ponendosi così alla testa del rinnovamento linguistico del Regno. Tuttavia, sebbene pressata da una parte come dall’altra, la famiglia sabauda non prese alcuna posizione chiara in materia linguistica, lasciando più che altro a tutte le parti libertà di opinione senza che vi seguissero azioni che potessero intaccare il carattere linguisticamente ibrido dello Stato. Sarà poi lo scoppio della Rivoluzione e le drammatiche vicende che ne seguirono, a portare la dinastia a schierarsi con l’italiano come migliore strumento di difesa rispetto al piemontese nei confronti dell’oramai avversata e pericolosa lingua d’oltralpe.
Sebbene gli eventi storici abbiano portato all’eclissarsi della proposta politico-linguistica del Pipino, l’importanza del suo contributo è tuttora essenziale. Gran parte della grafia della lingua piemontese è rimasta immutata dai canoni che lui stesso aveva codificato e, sebbene alcune sue teorie risultino un po' fantasiose e siano oramai completamente superate, bisogna anche pensare che, al tempo, le discipline linguistiche non erano ancora state approfondite e sviscerate come lo sono state oggi. Fino al secolo scorso il lavoro sulle grammatiche e sui dizionari veniva compiuto non da professionisti ma da appassionati e da cultori della lingua che portarono avanti per anni e anni opere imponenti e complesse, il più delle volte prendendole in mano nei ritagli di tempo e senza avere, nella maggior parte dei casi, una preparazione linguistica particolarmente aggiornata. Solo rimanendo tra i primi lessicografi in piemontese, dobbiamo pensare che Vittorio Righini di Sant’Albino era un funzionario dell’amministrazione pubblica, Nicolao Brovardi un medico, Michele Ponza un maestro di grammatica italiana, Casimiro Zalli un religioso, Luigi Capello di San Franco un funzionario ritiratosi dagli incarichi ministeriali per darsi agli studi eruditi. Lo stesso per Maurizio Pipino che, oltre a essere il primo a porre le regole grammaticali in piemontese, fu anche un medico attivissimo nella divulgazione in Piemonte delle più aggiornate conoscenze sanitarie dell’epoca.
Cosa dite? Una via, una piazzetta o anche solo un giardino non se li merita il nostro Pipino?