Nei primi anni Settanta John Berger scrisse che un annuncio pubblicitario poteva essere studiato al pari di un’opera d’arte e paragonò il linguaggio della pittura ad olio, che ha dominato il modo di vedere europeo per quattro secoli sino all’invenzione della fotografia, con il linguaggio pubblicitario del XX secolo. L’annuncio veicola un messaggio e può essere decodificato per cercare di comprendere qualcosa della società in cui l’autore si muoveva e, soprattutto, di ciò che la società pensava di se stessa. Le immagini pubblicitarie, come gli oggetti stessi, sono sempre significanti; si riferiscono spesso al passato e parlano sempre del futuro. La pubblicità ci presenta persone che hanno trasformato la propria vita acquistando qualcosa e per questo sono invidiabili; ci mostra quindi un’alternativa, rendendoci insoddisfatti della nostra vita.
Una interessante selezione di annunci pubblicitari, e per riflesso di cultura materiale, è quella visibile nei 36 numeri del Giornale ufficiale illustrato dell’Esposizione Internazionale di Torino, stampati e distribuiti tra il gennaio del 1910 e il dicembre del 1911, in occasione della diciottesima Esposizione Universale, che si svolse tra il 29 aprile e il 19 novembre del 1911 ed ebbe come tema “Industria e Lavoro” (in contemporanea, la sezione di Roma era incentrata su “Belle Arti e Archeologia”, quella di Firenze su “Ritratto e Floricoltura”).
La cultura materiale, secondo una definizione classica utilizzata in archeologia, è lo
studio degli aspetti materiali delle attività finalizzate a produzione, distribuzione e consumo, i modi con cui queste si attuano, le connessioni che hanno con il processo storico più generale.
Secondo una definizione più ristretta, con cultura materiale si intende l’associazione di manufatti di uso coevo, una definizione più semplice che può essere utile tenere in mente. Il Giornale dell’Esposizione del 1911 è un contesto perfetto di analisi, perché riguarda un evento delimitato nel tempo e nello spazio e ben conosciuto da altre fonti; l’esperimento è quello di provare a vederlo attraverso l’analisi di quella cultura materiale a metà tra il reale e l’immaginario futuro (quello da invidiare, secondo Berger) che ci è offerta dalla pubblicità: una cultura immateriale fatta di narrazioni costruite sugli oggetti.
Il pubblico destinatario degli annunci sembra appartenere in prevalenza a classi medio-alte: prodotti come le automobili e i pianoforti meccanici automatici erano accessibili solo ai ceti ricchi; altri sono produzioni di uso comune, ordinario (i ricostituenti medici), alcuni sono prodotti superflui e di lusso (i boa in piume di struzzo); poi ci sono tutta una serie di oggetti destinati a determinate categorie di lavoratori: le forme in legno delle scarpe per i calzolai, i manichini per i sarti, i macchinari per la lavorazione del legno, per la tornitura, per i pastifici, le presse idrauliche, le attrezzature per forniture e impianti elettrici, ecc.
A livello pubblicitario la fotografia è raramente usata; si preferisce il disegno, generalmente realistico, dell’oggetto, o la sua contestualizzazione in un ambiente; rare sono le illustrazioni del tutto simboliche, come è il caso di “Ovisolat”, un prodotto per conservare le uova fresche “tali che si possono mangiare alla coque anche dopo diversi anni”: in questo caso è rappresentato un gallo, ritto sulle zampe poggiate su una tromba e inscritto in una corona di foglie e ghiande.
La rappresentazione della donna è indicativa della sua posizione sociale e degli stereotipi femminili dell’epoca. La donna delle classi agiate indossa eleganti cappelli abbelliti da piume di struzzo e ha la vita stretta da un busto rigido che spinge in alto il seno. L’obiettivo principale sembrerebbe essere quello di rimanere conforme alla taglia del manichino (mannequin) delle sue sartine; in uno degli annunci più ripetuti, una elegante signora punta un piccolo bastone da passeggio, come una bacchetta magica, verso il manichino, quasi a immaginarlo vestito; l’annuncio probabilmente è rivolto alle sarte che allora, come per tutta la prima metà del XX secolo, erano moltissime; per farsene un’idea, basta guardare la foto del Ponte Monumentale invaso dalle sartine nel giorno della loro festa, durante i giorni dell’Esposizione del 1911. Sul Giornale, d’altra parte, non compaiono annunci di vestiti già pronti, a differenza di quanto invece è visibile per le scarpe; ogni abito veniva confezionato su misura.
Le piume di struzzo (in particolare quelle di struzzi bianchi dell'Africa del sud) sono un simbolo dell’epoca. I piumifici producevano non solo decori per cappelli per signore e pennacchi per alte cariche militari, ma anche boa, ventagli piumati, stole, pom-pom, costumi di scena, imbottiture e materassi. I corpetti in stecche di balena, inserite in un doppio strato di fodera di tela, furono molto usuali nell’abbigliamento europeo a partire dalla fine del XVII secolo; nei primi del Novecento vivono i loro ultimi anni, prima di essere subissati dai cambi di moda (si pensi alle innovazioni “stile impero” dello stilista francese Paul Poiret, che resero inutile il busto) e dalle rivendicazioni per l’emancipazione femminile, per le quali, oltre ad essere un simbolo delle costrizioni imposte alla donna per conformarsi a un’estetica, i busti erano anche dannosi per la sua salute. Proprio nel 1911 morì a Boston Elisabeth Stuart Phelphs, scrittrice e attivista, che sin dal 1874, in largo anticipo sui tempi, aveva invitato le donne a bruciare pubblicamente i loro corsetti.
In un articolo c’è una rapida apparizione di un capo di abbigliamento nuovo: una jupe-culotte, una gonna pantalone, in Italia indossata per la prima volta, proprio nel 1911, da Lyda Borelli, diva del cinema muto.
Un altro tipo femminile è la donna massaia; madre e moglie, che si prende cura della casa e della famiglia. Ad esempio, ci si rivolge “agli Sposi e Madri di famiglia” per pubblicizzare “Grand Rapids”, una spazzola americana rotativa, anche se poi nell’illustrazione sono rappresentati una fanciulla con la rotativa e un uomo più maturo che la osserva basito, in mano una banale scopa, chiaramente non al passo con i tempi.
Estremamente interessante, in quanto getta luce sugli aspetti più intimi del vivere femminile, è la pubblicità di un libro intitolato La donna medico di casa. L’autore è una dottoressa tedesca, Anna Fischer Dückelmann che, scrivendo in modo chiaro e persuasivo come “soltanto può fare la donna parlando alla donna”, ha l’obiettivo di far sparire l’ignoranza femminile nel campo dell’igiene e della medicina. Fischer-Dückelmann intraprese studi di medicina a Zurigo, dato che in Germania l’accesso alla facoltà era precluso alle donne, e successivamente esercitò la professione, pubblicando vari scritti nel campo della salute femminile. La donna medico di casa, uscito nel 1901, fu un best-seller tradotto in tredici lingue. La conoscenza di tematiche generalmente non insegnate alle donne, quali l’igiene (specie durante le gravidanze) e la vita sessuale erano per Fischer-Dückelmann un mezzo di emancipazione e non una limitazione di genere, come una lettura superficiale dell’annuncio potrebbe far pensare. Lo sviluppo di una pratica medica femminile era necessario anche per evitare che molte donne, come spesso accadeva, morissero e soffrissero per aver nascosto al medico, per pudore, i segni della malattia.
Non manca, poi, lo stereotipo femminile per eccellenza: la donna come oggetto sessuale. Lo si può riconoscere, ad esempio, nella pubblicità di un elisir contro le emicranie: una giovane donna abbigliata da ninfa tiene la mano appoggiata sulla fronte e il braccio languidamente adagiato su un botticino gigante di antinevralgico; come in molte pubblicità odierne, la figura e l’abbigliamento della donna non hanno alcuna relazione con il prodotto pubblicizzato e questo ‘fuori luogo’ accentua la reificazione della figura femminile.
Contro reumatismi, sciatiche, artriti, gotta, idropisia, nefriti, lombaggini si consiglia il radiatore o il termoforo “Helios”, che garantisce la guarigione in pochi giorni. Si trattava di un apparecchio elettrico di medie dimensioni che si metteva sotto le coperte del letto vicino all’ammalato, con lo scopo di farlo sudare; lo slogan è “Bagno turco che ogni persona può fare da sé”, vale quindi anche come cura dimagrante. Questa novità ‘elettrica’ era osteggiata, ovviamente, dai proprietari di bagni e terme: una reale guarigione, dicono quelli, è assicurata solo da un “Vero bagno turco”, “da non confondersi con i comuni termofori in commercio”.
Diversi sono i ricostituenti e gli elisir contro tossi, catarri, bronchiti, polmoniti, tubercolosi: come la creosina Bosio, una soluzione acquosa di Creosato 10% iodio, ipofostiti e balsamo del Perù, e il bi-biosolo contro la sifilide. Il carbone è raccomandato contro le malattie dello stomaco e dell’intestino, le tavolette di Marienbad contro l’obesità, pomate e lozioni contro la calvizie; il tutto garantito da una serie di recensioni positive di pazienti e di medici. Ci sono poi gli specialisti: l’erniario, un ambulante che a chi ne fa richiesta manda il suo avviso di passaggio nelle città italiane; o il prete torturato che si offre di spiegare i segreti della sua guarigione contro sordità e ronzii delle orecchie.
Infine, l’ipnotizzatore magnetista, che è un aiutante generico, utile per tutti i problemi della vita e in particolare per le malattie dei nervi. “Un buon ipnotizzatore è sicuro di riuscire con successo negli affari e in tutte le circostanze della vita”, recita l’annuncio. Nell’illustrazione il magnetista è in piedi e punta il braccio verso il viso di una donna seduta; è un’iconografia costante nella storia dell’ipnosi, dove il paziente è quasi sempre femminile. L’ipnotizzatore magnetista più celebre è stato il medico tedesco Franz Anton Mesmer, che nella seconda metà del XVIII secolo, influenzato dalla scoperta della forza di gravità di Newton, spiegò le malattie dell’organismo in termini di influssi gravitazionali, sostenendo che la malattia aveva origine nella distribuzione non omogenea di fluido magnetico nel corpo. La pratica ipnotica, che era funzionale a causare nel paziente delle crisi considerate salutari per la fuoriuscita della malattia, per quanto sconfessata dalla medicina tradizionale ebbe una lunga durata; col tempo fu enfatizzato il rapporto tra medico e paziente, ponendo le basi per la moderna psicoterapia.
L’orientalismo è la rappresentazione occidentale dell’Oriente, di cui costituisce spesso una alterazione in qualche modo rassicurante per gli occidentali — questa, in estrema sintesi, la teoria di Edward Said. L’uso dell’Oriente (in particolare il Medio Oriente) è riconoscibile sotto varie forme anche nella cultura immateriale degli annunci. La ditta Satrap, che produceva lastre, pellicole, sviluppatori e prodotti fotografi ci in genere, utilizzò come “testimonial” il busto dal profilo severo di un sovrano tra il babilonese, l’assiro e il persiano: come inquadrato da un obiettivo, l’imperscrutabile si staglia su un moderno profilo urbano. Di orientalismo più quotidiano è la caffettiera moresca, da tavola, in rame, per 2 o 20 tazze, che fischia quando il caffè è pronto. Orientali per davvero sono le pipe in schiuma di mare, cioè in sepiolite, un minerale cavato soprattutto in Turchia, lungo le coste del Mar Nero; i luoghi principali di produzione furono l’Ungheria e l’Austria dell’impero ottomano, in particolare tra la seconda metà del XIX e gli anni Venti del XX secolo, già in contemporanea con le moderne pipe in radica.
L’elemento che accomuna questi esempi molto diversi è il pensiero di sottofondo per cui l’Oriente sia glamour e quindi possa essere usato per conferire autorità e fascino al prodotto. Non molto differente è l’uso del passato, almeno di un certo tipo di passato: le sculture dell’antichità classica greco-romana, ad esempio. In una pubblicità piuttosto ardita la statua di Venere è accostata all’alchebiogeno, un ricostituente indicato per anemici e nevrastenici, con lo slogan un po’ tautologico: “L’arte applicata alla pubblicità”. L’orientalismo è, in fondo, una forma di passato mitico, traslato su scala geografica piuttosto che temporale. Entrambi i modelli, quelli del passato e quelli dell’Oriente, per quanto visti dall’alto della scala del progresso dove l’uomo occidentale moderno immaginava di stare, furono usati perché conferivano charme e valore al prodotto.
Gli oggetti scomparsi sono quelli che non hanno più un parallelo nel contemporaneo. Un esempio è l’ortottero, pubblicizzato — accanto ad aeroplani, elicotteri, dirigibili — da una ditta di costruzioni aeronautiche dove si promette l’“esecuzione di qualsiasi macchina per volare dietro semplice schizzo”. Sarebbe più appropriato definire l’ortottero un oggetto possibile, potenziale. È infatti una macchina volante sperimentale rimasta allo stadio di progetto: una sorta di grande insetto, con corpo centrale e due ali battenti rigide, che assomiglia alle sperimentazioni di Leonardo da Vinci.
Sono scomparsi, già prima del secondo dopoguerra, i pianoforti meccanici automatici che utilizzavano dei rulli traforati, detti anche “rulli per autopiano”, per produrre musica. Erano strumenti che venivano applicati al corpo del pianoforte. I primi furono inventati negli ultimi anni del XIX secolo; sul Giornale del 1911 i modelli pubblicizzati sono la pianola Metrostyle, inventata nel 1901 negli Stati Uniti e il pianoforte Welte Mignon (messo in commercio nel 1905 dalla M. Welte & Soehne di Friburgo). I rulli traforati erano strisce di carta avvolte intorno a un rocchetto; la disposizione dei fori corrispondeva a definite altezze tonali. I rulli venivano fatti scorrere su appositi lettori pneumatici; tramite la disposizione di livelli e l’utilizzo di pedali venivano inviati comandi alla tastiera del pianoforte, così da far eseguire le musiche in modo automatico; sostanzialmente a ogni foro corrispondeva il movimento di un martelletto e quello del tasto corrispondente.
Alcuni oggetti non compaiono negli annunci: ad esempio le stoviglie, piatti e pentole. Ci sono le posate (le tedesche Krupp, in alpacca; nonché utensili da cucina in nickel puro), le stufe a gas e a petrolio, caffettiere e teiere. Ma mancano le stoviglie, che pure sono cantate da Guido Gozzano; ne La Signorina Felicita compaiono tre volte (versi 84, 100, 110) e nella prima il poeta paragona gli occhi di Felicita, “l’iridi sincere azzurre”, a un “azzurro di stoviglia”. I Colloqui di Gozzano, la raccolta di poesie tra le quali compare anche La Signorina Felicita, escono nel febbraio del 1911, quando il poeta ha ventotto anni. Nello stesso anno Gozzano collabora come cronista con il Momento e con lo stesso Giornale Ufficiale dell’Esposizione, scrivendo alcuni articoli sulla manifestazione. Ma l’elemento forse più evidente del suo appartenere a quegli anni (l’adesione a un’epoca) è la presenza, nelle sue poesie, di moltissimi oggetti. “Stupito di che? Delle cose” scrive ne L’assenza. Cose spesso fuori tempo, anacronistiche, di pessimo gusto; squallide e severe, antiche e nuove, come l’arredo di Villa Amarena, nel Canavese (dove lo attende la signorina Felicita), “invasa dal Tempo”.
Se gli occhi di una donna possono essere paragonati al colore delle stoviglie, il rapporto tra le persone e le cose è ormai alla pari. Le stoviglie sono “semplici e fiorite”, poi “a vividi colori”; la musa del poeta è composta di oggetti, vive di oggetti: “una stirpe logora e confusa: topaie, materassi, vasellame, lucerne, ceste, mobili: ciarpame reietto, così caro alla mia Musa!”. Molti oggetti di questo ciarpame sono assenti nell’Esposizione Universale. La cultura materiale evocata da Gozzano è personale, povera e semplice — e in quanto tale è un simbolo di felicità — e guarda spesso al passato, non perché sia glamour ma perché è perduto.
Ma siamo a inizio Novecento, il progresso e l’industria sono in pieno sviluppo; in particolare a Torino, come è stato scritto:
Belle Époque non fu lustrini e paillettes: ci furono anche quelli, ma nel definire la fisionomia della città ebbero una funzione residuale. Belle Époque fu soprattutto la sensazione del rinnovamento che si stava attraversando, la capacità di raggiungere gli obiettivi che ci si era prefi ssati nei settori dell’industria, della moda, del cinema.
Un rinnovamento che necessitava dell’apporto dato dall’esportazione di prodotti da paesi di progresso pari (si pensi a quanti oggetti americani compaiono negli annunci) e della pubblicità. L’invenzione della pubblicità può farsi risalire alle prime esposizioni universali (Londra 1851, Parigi 1855) e deriva, oltre che dal bisogno pratico di vendere, dalla necessità di costruire un feticismo delle merci — l’espressione è di Walter Benjamin — che si fonda su una narrazione dei prodotti e serve ad allontanare lo sguardo dalle condizioni di produzione.
Oggi, travolti dal mare degli oggetti prodotti industrialmente, abbiamo spesso l’impressione di non avere più la possibilità di ordinare le cose e definire con esse un rapporto equilibrato. Nella maggior parte dei casi, inoltre, non abbiamo la minima idea di come siano prodotti gli oggetti che utilizziamo quotidianamente e che ci circondano. È forse quella situazione che Italo Calvino, in uno scritto degli anni Cinquanta del XX secolo, ha definito la “resa all’oggettività”; la presa di coscienza che
le cose vanno avanti da sole, fanno parte d’un insieme così complesso che lo sforzo più eroico può essere applicato solo al cercar di avere un’idea di come è fatto, al comprenderlo, all’accettarlo.
Tentare di ricostruire una storia partendo non dagli oggetti in sé ma dalle strisce di carta che li raccontano (gli annunci pubblicitari) rischia di portare a ricostruzioni sfalsate rispetto al reale, come nell’esperimento archeo-filologico di Umberto Eco (Diario Minimo): qui l’autore ha immaginato che, in un futuro successivo a una catastrofe planetaria che ha completamente distrutto la civiltà, venga ritrovato un libretto di testi di canzoni e che esso sia analizzato per ricostruire la poesia e i sentimenti degli uomini del XX secolo, con distorsioni inevitabili e comici malintesi. Da un altro punto di vista, però, focalizzare l’indagine su una piccola parte del tutto è un modo per proteggersi da quel mare di oggettività di cui scrive Calvino. Ed è, in fondo, lo sguardo dell’archeologo. Lui non può fare altrimenti, perché i resti del passato che si conservano sono quello che sono e di essi solo una minima parte viene ritrovata; ma si può essere archeologi anche "fingendo" che il campo d’azione sia così limitato; limitandolo artifi cialmente, analizzando piccole tracce o aspetti apparentemente secondari.
La prospettiva non è negativa e non è una resa; per dirla ancora con Calvino, forse è un modo per
essere certi di che cosa la coscienza veramente è, di qual è il posto che occupiamo nella sterminata distesa delle cose? […] In mezzo alle sabbie mobili dell’oggettività potremo trovare quel minimo d’appoggio che basta per lo scatto di una nuova morale, d’una nuova libertà?
Chissà che non la si possa trovare, la nuova libertà, tra boa di struzzo, pipe, termofori, magnetisti e l’azzurro delle stoviglie.
Le definizioni di cultura materiale sono tratte da: Dizionario di archeologia. Temi, concetti e metodi, a cura di Francovich R., Manacorda D., Bari-Roma 2000, s.v. Cultura materiale (Giannichedda E.).
Bassignana P. L., Torino Belle Époque. Vita quotidiana dei torinesi a inizio novecento, Torino, Edizioni del Capricorno, 2016.
Berger J., Questione di sguardi. Sette inviti al vedere fra storia dell’arte e quotidianità, Milano, Il Saggiatore, 2015 (1998).
Biagi E., Sapore di un tempo, Novara, Fratelli Carli, 1980.
Calvino I., Il mare dell’oggettività (1959) e Lo sguardo dell’archeologo (1982), in Una pietra sopra. Discorsi di letteratura e società, Torino, Einaudi, 1980.
Eco U., Frammenti, in Diario Minimo, Milano, Bompiani, 1963.
Gozzano G., I Colloqui, a cura di Guglielminetti M. e Masoero M., Milano, Principato, 2004.
Stille A., Gozzano e l’Esposizione del 1911, in L’indice on line, 13 giugno 2016.