Antoine de Lonhy, Trinità che incorona la Vergine (oculo centrale del rosone), 1460-1462. Barcellona, Santa Maria del Mar
Il 4 maggio del 1462 a Barcellona era probabilmente una luminosa giornata di tarda primavera quando Antoine de Lonhy, di mestiere pittore, si recava dal notaio Giovanni Palau assieme all’amico Antonio Sadorni, ricamatore di fama, per regolare alcuni conti rimasti tra loro in sospeso. Il primo aveva fornito al secondo delle pitture (ma saranno stati disegni per realizzare paramenti!) e il secondo aveva anticipato al primo un bel prestito, per cui Antoine cedeva al ricamatore, che portava il suo stesso nome, le ventidue lire che ancora doveva riscuotere dal convento agostiniano di Domus Dei, per il quale aveva appena dipinto un dossale per altare. Le pendenze andavano risolte perché de Lonhy si trovava temporaneamente ancora a Barcellona, ma presto avrebbe dovuto tornare nella città di cui si dichiarava abitante, la “villa de Villana in Ducatu Savoye, diocesis de Taurinanxis”, cioè la nostra Avigliana. Fra gli artisti della città catalana Antoine de Lonhy era conosciuto un po’ da tutti, perché non aveva solo realizzato il sopra citato polittico per la cappella del ricco mercante Bertran Nicolau nel convento di Miralles, eretto nei dintorni di Barcellona (polittico oggi conservato perlopiù al Museo Nazionale d’Arte di Catalogna, salvo due scomparti di predella che sono finiti non molto distante, nella collezione Mateu a Peralada); soprattutto aveva compiuto un’opera grandissima, strepitosa e rutilante di colori per un edificio situato in pieno centro e a due passi dal porto, cioè il rosone in vetri dipinti per la facciata della chiesa di Santa Maria del Mar.
Nel Ducato di Savoia, dove dunque il pittore si era trasferito qualche tempo prima di quel maggio del 1462, Antoine de Lonhy sarebbe diventato, almeno fino al penultimo decennio del secolo, l’artista più apprezzato e innovativo di tutto il territorio cisalpino occidentale, da Chieri fino alla Valle d’Aosta. Egli infatti recava con sé una impareggiabile abilità e versatilità tecnica, acquisita negli anni Quaranta nella nativa Borgogna in qualità di miniatore e pittore di vetrate, anche per personaggi di primissimo ordine come Nicolas Rolin, il cancelliere del Duca Borgogna che, in fatto d’arte, era esigente e molto aggiornato, essendo stato committente di opere celeberrime nientemeno che di Jan van Eyck e di Rogier van der Weyden; a Tolosa, dove il pittore si era poi trasferito negli anni Cinquanta, aveva dimostrato di saper dipingere, oltre che in piccolo sulla pergamena e in grande su vetro, anche su muro, come dimostra l’affresco staccato da Santa Marie de Dalbade oggi conservato nel locale Musée des Augustins; e, come abbiamo visto, a Barcellona, dove per qualche anno aveva fatto la spola da Tolosa, era stato apprezzato anche come pittore su tavola e come fornitore di disegni per ricami… e per chissà cos’altro ancora!
Giunto in Piemonte, aveva potuto non solo dispiegare tutte queste sue competenze tecniche, ma anche coordinare senza difficoltà la realizzazione di statue, fossero esse in legno come per l’altare maggiore della collegiata di Sant’Orso ad Aosta o in terracotta come l’Annunciazione di Pinerolo (oggi a Palazzo Madama) e lo strepitoso Compianto sul Cristo morto del Duomo di Chivasso. Ma ciò che in Piemonte doveva innanzitutto lasciare stupefatti, oltre a questa sua quasi imprenditoriale versatilità produttiva, era la forza espressiva delle sue opere, nelle quali si respirava un linguaggio nuovo e internazionale, che coniugava in modo inedito e personale la resa realistica dei personaggi (spesso indaffarati e colti in atteggiamenti e mimiche sempre diversi, come aveva imparato a fare a contatto con i grandi artisti nordici conosciuti in Borgogna) con le preziosità dorate delle aureole a rilievo e degli sfondi a decori in pastiglia, come invece andava di gran moda in Catalogna e in tutta l’area mediterranea. E tutto ciò spesso al servizio di altari che per un bel po’ avrebbero fatto scuola in Piemonte, come nel caso di rutilanti polittici a più ordini forniti di ricche cornici a rilievo (un esempio è quanto resta del polittico proveniente dalla frazione Battagliotti di Avigliana, oggi alla Galleria Sabauda) o di grandi macchine di derivazione nordica con ante dipinte richiudibili su casse contenenti sculture (il riferimento d’obbligo è al citato altare di Aosta).
Altri caratteri della sua pittura, per quanto innovativi, non potevano probabilmente essere colti a prima vista — e per la verità per essere messi chiaramente a fuoco avrebbero bisogno anche oggi di qualche supplemento di indagini — come quella sorta di pastosa e grossolana imprimitura sulla quale poi stendeva le sue preziose rifiniture a punta di pennello: un retaggio fiammingheggiante che sembrava voler emulare la pittura di Robert Campin e che permetteva una resa sciolta, soffice e sfumata delle figure, diversa dalla nettezza disegnativa di chi era abituato a giustapporre le minute pennellate cui obbligava l’uso della tempera.
Ma di Antoine de Lonhy, della sua produzione e dell’importanza del suo ruolo in Piemonte, paragonabile solo a quello che in altre zone della regione, soprattutto tra Casale, Vercelli e Chivasso aveva svolto il lombardo Giovanni Martino Spanzotti, si era persa, fino alla fine del secolo scorso, totalmente memoria. Molte delle sue opere erano sparite sotto scialbi posteriori, come nel caso degli affreschi dell’abbazia della Novalesa commissionati dai Provana, o erano andate disperse sul mercato internazionale sotto nomi generici o fuorvianti, come nel caso del polittico già Molinari proveniente da San Domenico di Chieri; alcuni dipinti su tavola si sono addirittura salvati e sono giunti fino a noi solo perché riutilizzati in epoche successive come grezza materia prima per fabbricare altri oggetti, come nel caso delle ante di Aosta fatte a pezzi per costruire un armadio o la pala Battagliotti ritagliata per realizzare una mensa d’altare. Complice di questo oblio è stato certamente il fatto che, curiosamente, nessun documento d’archivio sul pittore è stato mai ritrovato in Piemonte, a parte un pagamento ducale del 1466 a un “mestre Anthoine pintre” che, per quanto generico, potrebbe essere riferito al nostro artista.
L’unico documento che lega Antoine de Lonhy al Ducato di Savoia è dunque quell’atto notarile del 1462 evocato in apertura di questo articolo. Il documento fu reso noto da Madurell già nel 1946, ma dovette passare più di un cinquantennio prima di poter essere utilizzato per iniziare a ricostruire la fisionomia piemontese di questo grande artista europeo. La ricostruzione prese avvio nel 1989, quando due storici dell’arte, François Avril dal versante francese e della miniatura soprattutto, e Giovanni Romano da quello piemontese, restituirono ad Antoine de Lonhy una serie di opere che studi precedenti avevano raccolto per analogia stilistica intorno a nomi convenzionali. Ci si accorse allora che le miniature già attribuite al cosiddetto Maestro delle Ore di Saluzzo, nome derivato da un ricchissimo Libro d’Ore conservato alla British Library di Londra, così come i dipinti già riferiti al cosiddetto Maestro della Trinità di Torino, nome desunto da una splendida opera del Museo Civico d’Arte Antica a Palazzo Madama, o al cosiddetto Maestro della sant’Anna di Torino, nome legato a un dipinto oggi al Museo Diocesano, non erano altro che il prodotto di quello stesso artista, di cui emergeva in modo lampante tutta l’importanza, soprattutto per i decenni del suo soggiorno piemontese.
Negli anni successivi la figura di Antoine de Lonhy è stata ulteriormente messa a fuoco grazie al contributo di diversi studiosi e al ritrovamento di nuove opere, individuate in luoghi pubblici e in collezioni private o recuperate tramite campagne di restauro. Una esposizione organizzata per l’estate e l’autunno 2021, intitolata Il Rinascimento europeo di Antoine de Lonhy e articolata in due sedi tra loro complementari, allestite presso il Museo Diocesano di Susa e il Museo Civico di Palazzo Madama, ha permesso finalmente di far conoscere anche a un pubblico più vasto il ruolo determinante giocato da questo artista troppo a lungo dimenticato.
Accanto alle tante opere che eccezionalmente sono state visibili in mostra, concesse in prestito da collezioni pubbliche e private internazionali, il catalogo rende conto anche dei nuovi approfondimenti condotti in preparazione dell’evento da un agguerrito gruppo di studiosi. Il pittore è stato ad esempio riconosciuto come l’autore del delicato intervento di sostituzione della figura del donatore nel trittico della Annunciazione di Rogier van der Weyden, capolavoro un tempo a Chieri e oggi diviso tra il Louvre e la Galleria Sabauda, dove si conserva lo scomparto di cui ci stiamo occupando. Si è anche cominciato a mettere meglio a fuoco la complessità della bottega, in rapporto con scultori e plasticatori, ma anche fucina di formazione per seguaci e collaboratori: fra questi l’autore delle tavole dipinte che chiudevano l’altare in terracotta dell’abbazia di Vezzolano, riportate in luce, restaurate grazie a un positivo crowdfunding, esposte e pubblicate per la prima volta in questa occasione; ma anche il più noto Gandolfino da Roreto, che emerge come uno stretto collaboratore negli ultimi anni di attività di Antoine de Lonhy.
Di alcune opere erratiche del pittore di origini borgognone si è inoltre potuta individuare l’originaria appartenenza: Santa Maria della Scala di Moncalieri per la Trinità di Palazzo Madama e San Domenico di Chieri per il disperso polittico già nella collezione Molinari. Questo permette di tracciare un percorso di spostamenti e di attività incentrato su Avigliana, Moncalieri e Chieri che curiosamente coincide con quello di una sorta di suo alter ego, il pittore e miniatore Amedeo Albini, che fu pittore di corte, al servizio dei Savoia. Un artista, quest’ultimo, noto attraverso un certo numero di documenti d’archivio ma totalmente privo di opere, tanto da far sorgere il sospetto che la sua bottega piemontese possa in qualche modo aver svolto il ruolo di mediatore e di garante nei confronti delle committenze locali per lo straniero de Lonhy. Queste sono tuttavia, per ora, pure ipotesi, che le ricerche future potranno confermare o smentire. Ogni mostra, si sa, è al tempo stesso un punto di arrivo e un punto di partenza per nuove scoperte.
Avril F., Le Maître des Heures de Saluces: Antoine de Lonhy, in Revue de l’Art, 85 (1989), pp. 9—34.
Baiocco S. e Natale V. (a cura di), Il Rinascimento europeo di Antoine De Lonhy, Genova, Sagep, 2021, pp. 210—215.
Elsig F., Antoine de Lonhy, Cinisello Balsamo, Silvana Editoriale, 2018.
Romano G., Sur Antoine de Lonhy en Piémont, in Revue de l’Art, 85 (1989), pp. 35—44.