La danza dei fiumi piemontesi

La storia dell'evoluzione fluviale in Piemonte tra "catture", spostamenti e nuovi paesaggi

Vista del Po dal Ponte Isabella, Torino, Italia. Sullo sfondo la Mole Antonelliana e la parte posteriore del Castello del Valentino (Foto di Gjo - CC BY-SA 3.0)

Nata eporediese nel 1987, attualmente torinese, in futuro verosimilmente vagabonda. È biologa per formazione e comunicatrice per passione: progetta laboratori didattici e si occupa di educazione ambientale. Cammina per boschi, colline e laghi, fotografa piccole piante infestanti e scrive su un blog. Desidera visitare tutti gli ecosistemi del pianeta, a partire da quelli sotto casa.

  

I fiumi ci appaiono immobili e immutabili: percepiamo il movimento delle loro acque, più turbinoso nei torrenti e via via più pacifico man mano che dalle valli si scende in pianura, ma non quello del loro corso. I fiumi, verrebbe da pensare, possono al massimo esondare, gonfiarsi se piove o ridursi a un rigagnolo in caso di siccità, ma in nessun caso possono mutare la loro forma: a meno che non siamo noi a deviarli per qualche motivo.

In realtà i corsi d’acqua si muovono e si evolvono come ogni altra cosa sul pianeta, interagiscono con i rilievi che incontrano e perfino gli uni con gli altri, e se non lo percepiamo è semplicemente una questione di ritmi: il nostro è così rapido, rispetto a quello del territorio, che nel trascorrere di una vita umana lo sfondo sembra rimanere immobile. L’unica è seguire le tracce che i mutamenti hanno inciso nel paesaggio, per ricostruirne le dinamiche: ed è come farsi raccontare la storia della Terra, con le sue epoche e le sue rivoluzioni. 

Storie nascoste

A La Loggia, nel torinese, il Po scorre tra campi e cave di ghiaia, strade, casolari e cascine. È un paesaggio comune, banale perfino: il paesaggio della Pianura Padana, identico dal Cuneese fin quasi al Delta con poche variazioni che non ne alterano la riconoscibilità. E di certo la storia della sua antropizzazione è lunga e antica: colonizzato dall’uomo preistorico grazie alla sua vicinanza con il fiume, questo lembo di pianura perse via via la sua originaria copertura boscosa e si trasformò generazione dopo generazione nella terra domestica e familiare che conosciamo. Ma alla storia della sua evoluzione antropica se ne affianca un’altra, quella dell’evoluzione del territorio, che si dipana su una scala a noi estranea: migliaia di anni, quando non milioni. Una storia che non ci appartiene e a cui non apparteniamo.

Nelle cave di Sabbioni, proprio sulle sponde del Po, l’attività umana ha denudato i sedimenti che il fiume ha abbandonato nel corso dei millenni: in basso quelli più antichi, risalendo verso la superficie quelli via via più recenti. Ci si aspetterebbe di trovare materiali coerenti tra loro, e con il fiume che li ha trasportati: soprattutto, ci si aspetterebbe di trovare sedimenti di quel solo fiume, e non di altri. In alto, nelle cave, prevalgono i frammenti della pietra verde del Monviso, tipica della val Po, celebre e oggetto di commerci su scala europea sin dalla preistoria: a trasportarli, con ogni evidenza, non può essere stato che il Po, come previsto.  Lo strato sottostante, però, è diverso: sedimenti più chiari, composti di quarziti e conglomerati bianchi. La differenza rispetto alle ofioliti verdi degli strati superiori è evidente: soprattutto considerando che, a un’analisi più approfondita, si tratta dei sedimenti tipici di un altro fiume, il Tanaro. Sembra un paradosso: il Tanaro confluisce nel Po, certo, ma decine di chilometri più avanti, a Bassignana in provincia di Alessandria, praticamente al confine con la Lombardia.

Dettaglio di una cava presso La Loggia in cui affiorano ghiaie del fiume Po in superficie e ghiaie del fiume Tanaro in profondità. Fotografia di Stefania Lucchesi.
Dettaglio di una cava presso La Loggia in cui affiorano ghiaie del fiume Po in superficie e ghiaie del fiume Tanaro in profondità. Fotografia di Stefania Lucchesi.

Qualunque cosa sia accaduta, è accaduta in epoche molti distanti, difficili da quantificare nella nostra percezione tarata sui decenni e non sui millenni, ma non si tratta di eventi da poco: è evidente che un tempo, a La Loggia, scorreva il Tanaro e non il Po. A pensarci oggi sembra una follia campata per aria, una fantasia: istintivamente, la mente cerca ipotesi alternative e meno bizzarre. Ma altre ipotesi non ce ne sono.

La Terra è più malleabile del previsto

La branca scientifica che si occupa di queste storie nascoste è la paleogeografia: una disciplina che accosta geografia e geologia per mappare e ricostruire l’evoluzione del territorio. Una disciplina che ci permette di capire come fiumi grandi e impetuosi, a volte temibili come il Tanaro, possano muoversi e viaggiare per chilometri e chilometri, sgretolando le colline, deformando le pianure, creando confini e passaggi dove prima non ne esistevano. Come tutto sulla superficie del pianeta si muova, cresca e muoia, in continuazione, e come i paesaggi a cui siamo abituati non siano altro che stati transitori. La terra su cui camminiamo, che siamo culturalmente abituati a considerare confortevolmente solida, è invece malleabile e incostante, fragile perfino, se solo la si guarda sulla sua scala temporale e non più sulla nostra.

In ogni caso, per capire meglio la storia di questo antico Tanaro e dei suoi viaggi, dobbiamo fare un salto indietro nel tempo fino al Quaternario, durante il Pleistocene superiore: intorno ai centomila anni fa. In Europa sta iniziando il periodo interglaciale che separa le ultime due glaciazioni, Riss e Würm. In Italia si sta estinguendo Homo erectus; si diffondono invece Homo sapiens e Homo neanderthalensis. In Piemonte l’uomo (o meglio gli uomini, visto che all’epoca non siamo una sola specie) si aggira da nomade da almeno altri centomila anni, e verosimilmente approfitta delle acque del paleo-Tanaro, che a quest’epoca ha un percorso completamente diverso: da Ceva, nel cuneese, va a confluire nel Po a livello dell’odierna Carignano.

Una cartolina postale raffigurante il Fiume Tanaro presso Alessandria (1920 circa).
Una cartolina postale raffigurante il Fiume Tanaro presso Alessandria (1920 circa).

Le lente battaglie dei fiumi

Ma proprio a partire da centomila anni fa accade qualcosa. Un evento relativamente rapido, che cambia improvvisamente gli equilibri del territorio e va a definire le sorti di quello che oggi consideriamo come il fiume più lungo d’Italia: una cattura. Una definizione: per "cattura" si intende un fenomeno geomorfologico per cui un corso d’acqua viene deviato dal suo alveo originario fino al letto di un fiume adiacente (che, appunto, cattura il primo fiume attirandone a sé le acque). È un evento che può accadere per i motivi più disparati. In generale, la causa di una cattura è un lungo processo di erosione, che finisce per modificare la conformazione del territorio fino a deviare il fiume; spesso però l’erosione stessa è una conseguenza di ulteriori processi geologici o climatici. Insomma, è una questione complessa, come sempre. In ogni caso, perché un fiume si sposti da un alveo a un altro è necessario un dislivello che separi due corsi d’acqua vicini. Quello che sta più in alto smantella, erodendolo, lo spartiacque che lo divide dal secondo: il quale, a sua volta, tende a erodere dal basso verso monte. Sarà quest’ultimo fiume a raccogliere le acque del primo, mentre l’alveo abbandonato si trasformerà in una "valle morta".

Area della cattura del Tanaro. Si nota a sinistra la curva del fiume, ormai abbandonata, che costituisce la scarpata di Bra, e che contiene il piccolo rilievo di Monte Capriolo. Le due scarpate, di Bra e di Cherasco, mostrano di quanto hanno divagato i due fiumi dal momento della cattura ad oggi (Foto e didascalia © museoappunti.it)
Area della cattura del Tanaro. Si nota a sinistra la curva del fiume, ormai abbandonata, che costituisce la scarpata di Bra, e che contiene il piccolo rilievo di Monte Capriolo. Le due scarpate, di Bra e di Cherasco, mostrano di quanto hanno divagato i due fiumi dal momento della cattura ad oggi (Foto e didascalia © museoappunti.it)

Nel caso del Tanaro, gli elementi in gioco oltre all’erosione sono gli stessi movimenti tettonici che hanno permesso l’innalzamento delle Alpi. Perché, mentre le placche si scontrano e si deformano le une contro le altre, innalzando le montagne, l’intero territorio circostante ne risente e si adatta alla nostra situazione: in questo caso l’area attualmente collinare delle langhe, che si inclina verso nord-est. I corsi d’acqua reagiscono a loro volta: in questo caso, i fiumi che prima scorrevano tra le attuali Asti e Bra deragliano, iniziando a scorrere lungo la nuova linea di massima pendenza, dirigendosi verso nord-est. Il loro bacino si estende, aumenta la superficie di scorrimento e di conseguenza l’attività erosiva, che inizia a intaccare la zona settentrionale delle Langhe. Così facendo, lentamente, questi fiumi minori si avvicinano al letto del paleo-Tanaro, che a sua volta sta erodendo il terreno intorno a sé, e alla fine lo intercettano. Forse serve una grande piena per completare il lavoro, forse basta l’erosione: ma a un certo punto il paleo-Tanaro, catturato, devia il suo corso. L’acqua prende a scorrere verso l’odierna Bra modificando radicalmente il suo corso, si fa strada verso Cherasco e poi a est, fino a confluire nel Po nel punto in cui vi confluisce ancora oggi.

Le conseguenze di un evento così lontano nel tempo sono visibili ancora oggi, e non solo nella diversa geografia fluviale del Piemonte. Rispetto al paleo-Tanaro, la confluenza odierna è più in basso di circa centocinquanta metri: questo significa che la sua pendenza media è maggiore, e quindi che il Tanaro e i suoi affluenti scorrono in modo più impetuoso, erodendo in modo massiccio il territorio e portando con sé una gran mole di sedimenti. Il risultato è un territorio che negli ultimi centomila anni è stato plasmato in modo violento, e che ancora oggi è sottoposto a sollecitazioni intense: se il Tanaro attuale è un fiume dal pessimo carattere, lo si deve in parte anche al maggior dislivello che compie attraversando un’area relativamente ridotta, e al fatto che l’erosione intensa ha reso il territorio instabile e franoso.

Il fiume Tanaro presso Masio (AL).
Il fiume Tanaro presso Masio (AL).

Altre tracce...

Un territorio soggetto a frequenti dissesti è considerato un problema: e giustamente, dal nostro punto di vista. Ma se proviamo ad allontanare lo sguardo, a percepire le cose, per quanto possibile, da una prospettiva più neutra e meno concentrata sulle faccende umane, allora la situazione si fa più sfumata. Prendiamo un altro effetto a lungo termine della cattura del Tanaro, le Rocche del Roero. Gli sconvolgimenti successivi alla deviazione del Tanaro hanno portato le acque a scavarsi la strada su territori precedentemente asciutti: e qui, dove il terreno era sabbioso, le acque lo hanno inciso profondamente, generando profondi calanchi. Forre o voragini che raggiungono le centinaia di metri, circondate di guglie aguzze: una cattedrale costruita con la sabbia dell’antico fondale oceanico, incastonata di fossili antichi di milioni di anni.

Si tratta di un’area unica, in cui nello spazio di pochi chilometri quadrati si giustappongono microclimi, e quindi habitat, apparentemente opposti. In alto il clima è arido, in basso ristagnano le acque: specie vegetali e animali provenienti da mondi diversissimi convivono a poche centinaia di metri l’una dall’altra, in un equilibrio raro e delicato. E luoghi di tale, elevata biodiversità sono riserve importanti per la vitalità degli ecosistemi che li circondano.

Rocche del Roero (Foto © Ecomuseo delle Rocche)

...altre catture

Quella del Tanaro non è l’unico caso di cattura di un corso d’acqua piemontese. Anzi. È successo al Belbo, al Sangone, al Chiusella: è un evento meno raro di quel che si potrebbe pensare in un primo momento.

Prendiamo per un istante il Sangone, che un tempo percorreva la conca oggi occupata dai Laghi di Avigliana e dalla palude dei Mareschi, e infine confluiva nella Dora. La sua cattura, provocata dall’erosione dei depositi sedimentari dell’anfiteatro morenico di Rivoli-Avigliana, ne ha deviato il corso verso sud fino all’attuale confluenza con il Po a Moncalieri, e come nel caso del Tanaro ha modificato pesantemente gli equilibri ambientali della zona: l’esistenza stessa dei laghi e della palude ne è una conseguenza. Senza contare che nel primo tratto del suo nuovo corso, tra Giaveno e Trana, si sono create le condizioni per ospitare specie fluviali anche rare: pesci come il temolo, ma anche crostacei come il gambero di fiume, ormai sempre più raro in Piemonte. Tutto finisce a Sangano: di qui in poi il fiume, fiaccato dai massicci interventi idrici, perde ogni carattere naturale e di conseguenza le sue ricchezze in termini di biodiversità. Il Sangone antropizzato è secco per buona parte dell’anno, e se perdureranno le condizioni di sfruttamento attuale perderà il suo dinamismo e la sua capacità di evolversi. L’unico paesaggio davvero immutabile, paradossalmente, è quello controllato dall’uomo: un paesaggio inerte, morto, sempre più comune non solo nella Pianura Padana.

Il Sangone a Trana.
Il Sangone a Trana.

Cosa rimane dei fiumi quando se ne vanno

Nello stesso periodo in cui è avvenuta la cattura del Tanaro ma più a nord, nel Canavese, il torrente Chiusella ha subito la medesima sorte: e in questo caso, le tracce lasciate dagli eventi di centomila anni fa sono ancora più evidenti, e singolari. La dinamica è simile, o almeno lo sono le cause che l’hanno determinata. Il Chiusella, che prima scorreva in senso sud-ovest confluendo nel torrente Orco, devia oggi a est in una netta ansa (il cui nome tecnico è “gomito di cattura”, perché il corso d’acqua catturato devia bruscamente dal suo percorso originario) e confluisce nella Dora Baltea nella zona di Strambino: l’evento scatenante sono stati i movimenti tettonici che hanno sollevato le Alpi, inclinando le terre circostanti verso est; anche in questo caso, l’aumento della pendenza ha causato un’erosione più violenta e incisiva. E se le rocce del lato occidentale erano in grado di resistere, quelle sul versante orientale erano depositi morenici, più deboli e cedevoli: anche grazie a questa conformazione, il Chiusella ha subito un drastico cambio di rotta, e imperversando verso est ha scavato le strette forre in cui scorre a valle della diga del lago Gurzio.

Ma in questo caso, a essere più interessante è ciò che il fiume si è lasciato indietro: proprio quelle zone a occidente che l’erosione non è riuscita a modellare, a cui l’uomo ha poi dato il significativo nome di Monti Pelati. In questo caso l’acqua non è stata in grado di farsi strada; si è limitata a lambire e a far emergere una bastionata di peridotite, una roccia verdastra e durissima altrimenti rara sul territorio piemontese: un frammento della placca africana trasformato in lava dalle sollecitazioni tettoniche nelle profondità del mantello, solidificato e infine emerso in superficie grazie a quegli stessi movimenti che hanno generato le Alpi. Una roccia ostile alla vita, difficile da colonizzare dalle specie naturali per la sua stessa natura chimica. Un mondo arido e brullo, lunare, a pochi chilometri dall’umida e piovosa Valchiusella: una traccia delle antiche battaglie tra l’acqua e la terra, che hanno forgiato il mondo in cui ci muoviamo ogni giorno.

Sul crinale dei Monti Pelati (foto © Piemonte Parchi).
Sul crinale dei Monti Pelati (foto © Piemonte Parchi).

Questione di tempi

Nel Torinese, il Po scorre placido tra campi e cave di ghiaia, strade, casolari e cascine, così come in tutta la Pianura Padana. Nessun altro fiume lo ha mai catturato: ma questo non vuol dire che se ne sia sempre stato fermo. Ogni cosa si evolve e muta continuamente, non soltanto per eventi catastrofici: il lavoro della Terra è un lavoro quotidiano, i cui effetti si colgono anche sulla scala temporale dei secoli e non solo in quella dei milioni di anni. È sempre troppo per la nostra limitata percezione, ma in questo caso si parla di mutamenti avvenuti in tempi storici, dunque registrati in vario modo: e nelle mappe antiche il Po è leggermente diverso, il disegno delle sue anse muta attraverso le generazioni come un lungo serpente in movimento.

La dinamica è semplice, basta che in un punto qualsiasi del fiume la corrente sia più forte su una riva e meno sull’altra: sul primo lato il fiume raschierà via sabbie, argille e ciottoli, radici e alberi, mentre dall’altro la maggior lentezza dell’acqua favorirà il loro deposito. Giorno dopo giorno dopo giorno, l’accumulo dei sedimenti cresce, lentamente il letto del fiume si muove e da rettilineo che era si piega in una serie di curve, disegnando meandri via via più definiti. È un processo che si autoalimenta: ogni meandro che si crea andrà a modificare la corrente nel tratto successivo, che a sua volta si piegherà sotto la forza dell’erosione. A volte, la curva diventa così ampia da disegnare un cerchio quasi completo: in questi casi può accadere che l’acqua non abbia più la forza per percorrerlo interamente, ma che ne abbia invece abbastanza per erodere la prima parte del meandro. Allora semplicemente il corso del fiume tornerà rettilineo per un po’, prima che il quotidiano lavorio dell’acqua non cambi di nuovo le cose. 

Una lanca del Po a Nord-Ovest di Carmagnola.
Una lanca del Po a Nord-Ovest di Carmagnola.

Ad approfittare di questo perenne mutamento, di questo gioco complesso di azioni e reazioni, c’è la vita. Gli ecosistemi si adattano all’acqua che si sposta: e non solo seguendola, ma anche insediandosi nelle zone che il fiume ha abbandonato. Queste aree residuali, dette lanche, sono veri e propri gioielli della biodiversità: piccole zone umide o paludose, di stagni e torbiere, oasi fragili nel mezzo della pianura dei prelievi irrigui, luoghi di salvezza per anfibi e uccelli. Ci si riferisce ad esse come a dei "meandri morti", ma la morte è solo nella nostra definizione: perché tutto è vivo intorno ai fiumi, così come lo sono i fiumi stessi. Nulla è fermo o inerte come potremmo immaginare, al contrario: tutto muta, e proprio in questo dinamismo la vita fiorisce.

Nella Pianura Padana, e non solo, non rimane più molto spazio perché i fiumi si muovano. E la maggior parte delle lanche è stata bonificata. Le motivazioni che hanno portato l’uomo a fermare la storia e l’evoluzione del paesaggio sono legittime: la produzione, il benessere, l’efficienza, la comodità. Ma il deserto che abbiamo generato è inospitale per molte delle forme di vita che hanno sempre vissuto accanto a noi, e la cui presenza è fondamentale per tenere in equilibrio il complesso sistema del territorio: un sistema di cui, volenti o nolenti, facciamo parte anche noi e di cui fanno parte le nostre strategie produttive. Senza contare che le forze che plasmano il pianeta sono superiori alle nostre, e tentare di soffocarle avrà sul lungo periodo il probabile effetto di scatenarle in modi imprevedibili, e non necessariamente benevoli.

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Bibliografia

  • Biancotti A., Catture fluviali, Torino, Università degli Studi di Torino, 2004.
  • Carraro F., Petrucci F., Tagliavini S., Note illustrative della carta geologica d’Italia, foglio 68 - Carmagnola, Servizio geologico d’Italia, 1969.
  • Uno sguardo sul territorio. Appunti di geologia del Piemonte, Torino, Arpa Piemonte, 2006.
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