Non si può negare quanto sia fosca l’immagine che ha l’opinione comune in merito alla giustizia penale dei secoli precedenti il Novecento. Incarcerazioni a tempo indeterminato in prigioni tenebrose e malsane, un vasto armamentario di supplizi corporali eseguiti pubblicamente come fossero spettacoli teatrali, un abbondante ricorso alla pena di morte, pene sproporzionate rispetto ai reati commessi e tante altre pratiche che suscitarono gli strali della pubblicistica illuminista come simbolo di un sistema di potere oppressivo, arbitrario e retrogrado. Tutto questo è, in gran parte, assolutamente vero. Quello che gli illuministi tralasciarono di raccontarci è che, accanto a queste pratiche ingiuste e spesso truculente, avevano libero corso misure e usanze che rendevano il quadro delle politiche repressive degli Stati di Antico Regime molto più complesso e variegato di quanto ad oggi si creda. In questo, il Piemonte della Restaurazione resta un osservatorio privilegiato dato lo stato di generale arretratezza dell’ordinamento giudiziario ripristinato in toto dai Savoia al momento del loro ritorno in Piemonte nel maggio 1814.
Non appena re Vittorio Emanuele I riprese possesso dei suoi antichi possedimenti, il suo primo provvedimento fu ristabilire immediatamente le antiche leggi statali cancellate dalla dominazione francese. Alla base dell’ordinamento giudiziario “restaurato” tornarono così le Regie Costituzioni (redatte nel 1723, poi aggiornate nel 1729 e nel 1770), una raccolta non unitaria di numerosissime disposizioni legislative dal carattere molto eterogeneo, risalenti in diversi casi anche a secoli prima. Invece che unificare il diritto dell’intero Stato, le Regie Costituzioni lasciavano sussistere leggi e usi locali e prevedevano l’esistenza di numerosi tribunali speciali (il Tribunale del Vicariato, il Magistrato di Sanità, l’Uditorato generale di Guerra, il Conservatore generale delle Regie Cacce, solo per citarne alcuni) che si affiancavano alle leggi e agli organi giudiziari più propriamente statali. Del resto, questa proliferazione di leggi e di enti che ci può apparire alquanto incongruente, aveva un significato molto preciso nella società del tempo.
Se oggi diamo per assodata un’idea della giustizia di esclusivo monopolio statale, verticistica, con diversi gradi di giudizio e fondata su un diritto codificato con sanzioni chiare e definite con precisione matematica, dobbiamo tener presente che, a inizio Ottocento, questo pensiero non si era ancora affermato ovunque e che, in una parte degli Stati europei, Regno di Sardegna compreso, vigeva ancora una giustizia che poggiava su basi completamente diverse. Quella “restaurata” in Piemonte nella primavera del 1814 era una giustizia di Antico Regime che, in quanto espressione di una società che si basava sui privilegi, non aveva come fondamento portante l’idea dell’uguaglianza dei cittadini di fronte alla legge. Al contrario, i titoli, la posizione sociale, le cariche detenute o anche solo essere residente in una particolare città o provincia rappresentavano un discrimine netto che permetteva all’inquisito di poter essere giudicato da un tribunale piuttosto che da un altro, o incorrere in una sanzione più o meno calibrata sul proprio status. Ciò creava un confuso intrico di giurisdizioni di non semplice orientamento, dove la magistratura statale, il cui vertice era rappresentato dal Senato di Piemonte, era ben lontana dall’avere poteri e competenze esclusive in materia di giustizia.
Con il ripristino degli antichi ordini giudicanti, anche le sanzioni previste dalle Regie Costituzioni furono reintrodotte senza cambiamenti. Per quanto vi fossero numerose tipologie di pena come il carcere, la catena o la galera, tutto il sistema sanzionatorio del Regno di Sardegna era incentrato sulla pena di morte, prevista per quasi ognuno dei crimini contemplati. A parte i delitti attuati con violenza, tutti indistintamente punibili con la pena capitale, anche un inquisito per furto poteva finire sul patibolo nel caso avesse tentato di rubare oggetti destinati al culto o se il valore della refurtiva avesse ecceduto le duecento lire. Inoltre, a questa durezza sanzionatoria, le Regie Costituzioni univano una vasta gamma di punizioni e di supplizi pubblici applicabili potenzialmente a ogni reato.
La pena di morte poteva essere comminata in vari modi e combinata a vari supplizi che variavano a seconda delle consuetudini, del reato e del rango sociale del condannato: lo squartamento era destinato ai crimini di lesa maestà, la ruota per i delitti più atroci, l’impiccagione era riservata per le persone di umili origini, mentre gli aristocratici dovevano essere giustiziati mediante decapitazione. A sua discrezione il Senato poteva inoltre assegnare delle “pene accessorie” che oltraggiassero il corpo del condannato dopo la morte, come il rogo, la decapitazione o la riduzione della salma in quarti, oppure potevano allungare la sua agonia con delle “esemplarità” come l’applicazione delle tenaglie infuocate o il taglio della mano destra per gli autori dei furti sacri. A queste punizioni corporali non sfuggivano neanche i condannati a pene minori che potevano essere ulteriormente puniti con la fustigazione pubblica, la berlina o l’esemplarità
d’essere condotto per mano del carnefice col remo in ispalla, e laccio al collo, e fatto passare sotto il patibolo.
A rendere ancora più cupo lo scenario della giustizia piemontese di inizio Ottocento vi erano poi le modalità di svolgimento del processo penale. Gli importanti cambiamenti che la dominazione francese aveva portato in Piemonte, con l’introduzione dei principi dell’oralità, del contradditorio e della pubblicità nel procedimento, vennero del tutto ignorati con il completo ritorno al processo di “tipo inquisitorio” che da tempo si era affermato come modello predominante nei vari Stati di Antico Regime. Si trattava di un processo chiuso al pubblico, sostanzialmente privo di garanzie per l’imputato, dove il Senato si limitava a valutare le conclusioni messe nero su bianco dal giudice istruttore. Il procedimento risultava così fortemente squilibrato in senso accusatorio e l’atteggiamento persecutorio verso rei o sospetti tali era ancora più accentuato dall’esistenza di numerosi procedimenti extra-legali che rivestivano un ruolo di primo piano nelle politiche repressive del Regno di Sardegna.
Questi provvedimenti conosciuti come “misure economiche” avevano l’obiettivo di colpire individui che non potevano essere inquisiti di un reato ben specifico, ma il cui operato era considerato per qualche motivo pericoloso. Era una vera e propria giustizia parallela, gestita direttamente dalla Segreteria di Stato per gli Affari Interni, che poteva comminare pene non presenti nelle Regie Costituzioni come la relegazione, l’internamento in stabilimenti di correzione o l’arruolamento forzato. Questi provvedimenti, spesso adottati su richiesta della polizia o su supplica di un qualche privato cittadino, colpivano un eterogeneo gruppo di individui che non si limitava solo a vagabondi e a criminali di piccola taglia, ma comprendeva anche mariti violenti, mogli fedifraghe, figli indolenti o maneschi con i genitori e, soprattutto, individui di cui un precedente procedimento giudiziario non era stato in grado di stabilire sufficienti prove per una loro condanna. Di conseguenza, un’assoluzione non metteva necessariamente al riparo da misure coercitive anche molto pesanti. Il caso di sei canavesani inquisiti di rapina a mano armata e assolti per mancanza di prove nel giugno del 1841, è paradigmatico: invece che essere rilasciati come prevedeva la legge, la Segreteria per gli affari Interni, riconoscendoli come individui potenzialmente pericolosi, ordinò il loro arruolamento forzato nell’esercito per dodici anni.
Tuttavia, se, a prima vista, può sembrare che il comportamento degli apparati repressivi del Regno di Sardegna fosse improntato a un atteggiamento esageratamente vessatorio, la lettura delle sentenze penali e della documentazione giudiziaria confuta in parte questo quadro. In verità, le Regie Costituzioni lasciavano al Senato un vasto e pressoché illimitato margine di discrezionalità che consentiva di moderare l’eccessiva severità delle condanne. Del resto, per quanto improntato a una durezza quasi paradossale, era lo stesso diritto sabaudo a concedere al reo un più o meno ampio spazio di contrattualità stabilendo che eventuali confessioni o rivelazioni in sede processuale avrebbero alleggerito la propria posizione. Diveniva così prassi frequente che gli imputati, anche in caso di reati di notevole gravità, cercassero di venire a patti con la giustizia, offrendo qualcosa in riparazione al fallo commesso. Per esempio, nei processi per frode o malversazione, i condannati, quasi sempre persone di condizione borghese o membri della pubblica amministrazione, godevano di forti sconti di pena nel caso si impegnassero o riuscissero a risarcire i danneggiati, ma lo stesso discorso valeva, in un certo senso, anche per tutti gli altri reati.
Un atteggiamento collaborativo veniva sollecitato e premiato e, nelle cause contro le bande criminali, poteva arrivare anche a ricompense in denaro o a promesse di completa impunità qualora uno dei rei avesse confessato e fatto incriminare i propri complici. Per questa ragione le pene comminate dal Senato di Piemonte risultavano in genere molto attenuate rispetto a quanto la severità sanzionatoria delle Regie Costituzioni possa far credere. In questo senso, il numero delle condanne a morte è forse la cartina di tornasole più indicativa, soprattutto per l’importanza che la pena capitale aveva nel diritto penale sabaudo. A ulteriore dimostrazione di quanto l’atteggiamento degli ordini giudicanti fosse molto svincolato dai dettami sanzionatori delle Regie Costituzioni, durante tutta la Restaurazione la massima pena venne solamente applicata ai colpevoli di omicidio premeditato o di rapina a mano armata. Inoltre, neppure tutti coloro che vennero riconosciuti responsabili di così gravi delitti salirono poi effettivamente sul patibolo. Solo nei primi anni della Restaurazione, in un momento di grave instabilità politica e sociale, il Senato di Piemonte optò per un atteggiamento duro contro chi si macchiava di questi crimini, ma, già a partire dagli anni Venti, il generale consolidamento dell’ordine pubblico portò le toghe a circoscrivere le esecuzioni solo ai casi più gravi.
L’avvento al trono di Carlo Alberto nel 1831 portò a un drastico cambiamento della situazione. Il nuovo sovrano era deciso a uniformare l’amministrazione dell’arretrato Stato sabaudo agli standard europei e l’ordinamento giudiziario fu il primo dei settori su cui egli diresse la propria attività riformatrice. Il primo passo, a un mese dalla salita al trono, fu l’emanazione di un editto che aboliva la pena di morte per furto e i supplizi della ruota, del rogo e delle tenaglie infuocate che, per quanto usati raramente, erano giudicati oramai non più in linea con la sensibilità del tempo. Il secondo passo fu quello di mettere in cantiere un’imponente riforma dell’intera legislazione dello Stato sabaudo che, ispirata ai codici napoleonici, facesse propri i principi cardine della certezza e dell’uniformità del diritto.
Nel 1837, al termine di lunghe e laboriose discussioni, il codice civile venne alla luce e due anni dopo fu seguito da quello penale: in ambedue i casi le precedenti fluttuazioni interpretative vennero soppresse, da un lato portando maggior certezza delle pene, dall’altro riducendo il margine di discrezionalità del magistrato nell’individuazione degli illeciti o nell’irrogazione delle sanzioni. I cambiamenti portati dalla promulgazione del codice penale del 1839 rimasero, tuttavia, ancora relativi: sebbene le sentenze registrino una maggior uniformità di giudizio rispetto ai decenni precedenti, il procedimento giudiziario continuò a svolgersi seguendo le prassi di Antico Regime con ampio ricorso a “trattative” tra inquisito e organi inquirenti e con il perdurare delle misure economiche al fianco della giustizia statale. Inoltre, il codice, pur ordinando notevolmente il mondo del diritto sabaudo, non portò all’eliminazione di tutte quelle giurisdizioni e tribunali locali che avevano ingarbugliato la giustizia del Regno di Sardegna fino ad allora.
Solo il precipitare degli eventi nell’autunno del 1847 segnò un radicale cambiamento nel mondo della giustizia piemontese. Sull’onda delle proteste e di una forte mobilitazione dell’opinione pubblica verso un’accelerazione del processo riformatore, Carlo Alberto si convinse a pubblicare in fretta il codice di procedura penale e ad abolire tutti i tribunali speciali. Il settore giudiziario del Regno di Sardegna faceva così il suo ingresso nella modernità e, di lì a poco, la promulgazione dello Statuto Albertino concesse ai piemontesi diritti individuali mai avuti prima, tra i quali quello, importantissimo dal punto di vista penale, dell’uguaglianza di tutti i cittadini davanti alla legge. Inoltre, la carta costituzionale portava allo stabilimento di una Corte di Cassazione come ultimo grado di giudizio e alla soppressione di tutte quelle misure economiche che il nuovo corso considerava palesemente illegali.
Di fronte a questi innegabili progressi sul fronte dei diritti e delle garanzie individuali, bisogna però sottolineare che la fine dell’Antico Regime in Piemonte non portò, come si può immaginare, a un generale alleggerimento delle sanzioni. Se da un lato il codice di procedura criminale forniva maggiori garanzie all’imputato imponendo più chiare e delineate norme a dimostrazione della colpevolezza dell’inquisito, dall’altro lato annullava tutto quel vasto spazio di trattativa che l’imputato conservava da secoli. Inoltre, se l’assenza di una precisa legislazione aveva permesso nel periodo precedente un ruolo preminente al giudice affidando la comminazione delle pene alla sua valutazione personale, ora che egli era chiamato ad attuare una legislazione di tipo classificatorio, che al variare anche minimo della gravità del reato faceva corrispondere un’analoga variazione di intensità della pena, la sua posizione diveniva quella di un funzionario chiamato ad applicare la norma anche quando questa andava completamente a svantaggio dell’imputato.
Confessioni, rivelazioni o avvicinamenti dell’inquisito alla giustizia non aprivano più le porte a sconti di pena o a trattamenti di favore con il paradossale risultato che a un maggiore garantismo in sede processuale si accompagnò un palese appesantimento delle sanzioni. Anche in questo caso, la pena di morte resta l’indicatore più evidente: se il numero delle esecuzioni era andato sempre più calando raggiungendo negli anni Quaranta il suo punto più basso, nel decennio successivo vi fu un vistoso aumento che le riportò quasi ai livelli del primo periodo della Restaurazione. Molto spesso l’unica possibilità che rimaneva al condannato, ben più che il ricorso in Cassazione che aveva raramente delle possibilità di successo, era l’invocazione della grazia al re a cui l’articolo 8 dello Statuto Albertino consentiva la possibilità di commutare le pene, un potere peraltro indispensabile per moderare delle sentenze che altrimenti sarebbero risultate esageratamente pesanti.
In più, il periodo post-statutario vide la comparsa nelle aule dei tribunali di nuovi soggetti fino ad allora esclusi. L’introduzione dei principi di pubblicità e di oralità dei dibattimenti, infatti, aveva consentito l’ingresso dell’opinione pubblica nei tribunali sottoponendo l’operato dei giudici a una qualche valutazione più o meno competente. Inoltre, il clima di esacerbato scontro politico che caratterizzò il decennio, coinvolse anche i magistrati che, considerati spesso come una schiera di aristocratici retrivi e reazionari, non permise loro di agire sempre con la dovuta cautela. Soprattutto i ripetuti tentativi da parte del governo di erodere il potere delle toghe trasformò a volte alcuni processi in un’arena di scontro tra il magistrato e il pubblico ministero, divenuto a tutti gli effetti un rappresentante del ministro di Grazia e Giustizia.
In questo clima di aperta contrapposizione, non mancarono le palesi forzature attuate da ambo le parti. Celebre fu il cosiddetto “processo dei valdostani” contro cinquecentotrenta abitanti della Valle d'Aosta che nel 1854 avevano partecipato a un’agitazione di chiara impronta conservatrice: al termine di un lungo e chiacchierato procedimento, le numerosissime assoluzioni e le solo nove condanne furono considerate come uno schiaffo inflitto dalla magistratura all’azione del governo. Né fu questo l’unico caso: per tutto il decennio vennero segnalati dalla stampa o dagli stessi organi ministeriali casi di abusi, assoluzioni clamorose o condanne sproporzionate basate su interpretazioni anodine del diritto, o determinate da atti di puro arbitrio o scorrettezza giudiziaria. Lo stesso potere di grazia del re non rimase immune dalle polemiche del tempo e dalle pressioni dell’opinione pubblica, tanto che non di rado considerazioni di natura politica furono alla base del rifiuto della grazia a certi condannati, specialmente quelli puniti con la pena di morte.
Infine, la soppressione delle misure economiche non significò un generale addolcimento della repressione su certe categorie di persone come gli oziosi, i vagabondi o i recidivi. L’emanazione di ben tre leggi di sicurezza pubblica durante il decennio, unita alla promulgazione di vari regolamenti e circolari, ottimizzarono i metodi di controllo su questi individui, ma non li resero meno gravosi. Per quanto lo Statuto avesse separato i poteri di polizia dall’amministrazione della giustizia, la nuova legislazione sulla sicurezza pubblica continuò a prendere in considerazione la pericolosità sociale dell’individuo, cioè i rischi, veri o presunti, per l’ordine pubblico. Le sentenze ci testimoniano una evidente facilità di incriminazione da parte della polizia su categorie come gli oziosi, i vagabondi e i recidivi e, allo stesso tempo, un atteggiamento accondiscendente verso le esigenze dell’ordine da parte dei tribunali, anche quando i reati prevedevano pene piuttosto severe.
Insomma, si può dire che, anche nel periodo post-statutario, in Piemonte le esigenze dell’ordine furono sempre prioritarie rispetto a una corretta interpretazione della legge. Il sistema giudiziario, rivoluzionato rispetto ai tempi della Restaurazione, continuava a riscontrare numerose ambiguità e zone d’ombra, oltre che un atteggiamento eccessivamente repressivo che i contemporanei contestarono come non più in linea con i tempi. Solo a partire dal 1859, a Unità ormai imminente, la situazione generale migliorò con l’introduzione delle Corti d’Assise anche per i reati comuni e soprattutto con la promulgazione di un nuovo codice penale che, pur riprendendo varie parti del precedente, mitigava le sanzioni e migliorava il regime delle attenuanti, favorendo un rapporto meno drammatico tra Stato e cittadini sotto il profilo penale.
👉 Per approfondire rimandiamo al progetto dell'Archivio di Stato di Torino che ha schedato tutte le sentenze criminali del Senato di Piemonte emanate tra il 1726 e il 1766 mettendole a disposizione su questo database online.
Audisio R., La “Generala” di Torino. Esposte, discoli, minori corrigendi (1785-1850), Santena, Fondazione Camillo Cavour, 1987.
Bonfanti C., La pena di morte nel Piemonte albertino, in Studi Piemontesi, novembre 1982, fasc. 2, pp. 354-372.
Bosio A., Torino fuorilegge. Criminalità, ordine pubblico e giustizia nel Risorgimento, Milano, Franco Angeli, 2019.
Davis J. A., Legge e ordine. Autorità e conflitti nell’Italia dell’Ottocento, Milano, Franco Angeli, 1988.
Montaldo S., Dal vecchio al nuovo Piemonte, in Levra U. (a cura di), Cavour, l’Italia e l’Europa, Bologna, Il Mulino, 2011, pp. 42-60.
Nalbone G., Carcere e società in Piemonte (1770-1857), Santena, Fondazione Camillo Cavour, 1988.
Pene Vidari G. S., Il Regno di Sardegna, in Amministrazione della giustizia e poteri di polizia dagli stati preunitari alla caduta della Destra, Atti del LII congresso di Storia del Risorgimento italiano (Pescara, 7-10 novembre 1984), Istituto per la Storia del Risorgimento Italiano, Roma, 1986, pp. 45-89.