Ritratto di Maria Velleda Farnè, Roma, 1886. Stampa di incisione di Giuseppe Stelluti, su disegno di Alfredo Muzii [Matilde Serao, Per le signore. Maria Velleda Farnè, «Corriere di Roma» 8 gennaio 1886, p. 1].
Potrebbe scaturirne un’appassionante serie tv in quattro puntate: il colera a Bologna nel 1855 che ne segna l’infanzia; la Torino positivista degli studi; la maturità nella Roma della regina Margherita; l’epilogo nella villa romita a Rivalba.
Chi lo afferma è Paola Novaria custode da vent’anni, per ragioni professionali, dei documenti che attestano la laurea in Medicina e chirurgia di Maria Velleda Farnè. Fu una laurea del tutto speciale, perché conseguita nel lontano 1878 con il primato di essere la seconda donna nel Regno d’Italia e prima all’Università di Torino, praticamente una pioniera. Aver raggiunto questo titolo accademico ed essere poi stata medica onoraria della regina Margherita di Savoia, rendono ancora più speciale la dottoressa Farnè, ma il resto della sua vita rimaneva avvolto nella più buia oscurità. Almeno fino a quando gli occhi di Paola Novaria non hanno intercettato i suoi documenti e da lì il pensiero e il desiderio di tratteggiare un profilo basato su ricostruzioni storiografiche non l’hanno più abbandonata.
Col passare dei mesi è diventato un rapporto a due, io di fronte a lei. Io mossa dal desiderio di risarcirla dall’oblio, ricostruendo nel modo più completo possibile la sua breve vita, fino all’epilogo. Penso che lei mi ringrazierebbe! Di lei vorrei conoscere i sentimenti, i legami affettivi, l’anima profonda. Le chiederei a chi abbia voluto bene. Chi le sia stato vicino e chi l’abbia tradita.
Certamente non è stato un caso incontrare Maria Velleda Farnè. Il fatto che si trattasse della prima donna laureata nell’ateneo torinese era ampiamente noto, ma di lei si sapeva pochissimo altro. Non si aveva un suo ritratto e persino il nome presentava incertezze, per la sua stranezza. Proprio questo è stato il punto: non accontentarsi, ma andare a fondo.
Grazie alle ricerche condotte da Paola Novaria, oggi sappiamo che Maria Velleda Farnè nasce a Bologna il 21 febbraio 1852, da Enrico, un uomo di legge, polemista politico e letterato dilettante, e Adele Gommi di illustri ascendenze imolesi. Maria verrà sostenuta dal padre nella sua scelta, inusuale per una donna dell’epoca, di iscriversi all’Università; lui si era laureato in Legge a Bologna in anni in cui si lottava per l’indipendenza, le campagne erano scosse da tumulti, si susseguivano tentativi di eversione politico-sociale in città e rapide trasformazioni politiche. La sua carriera si svolge tra Bologna, Ferrara e Brisighella, dove ne diventa governatore, per conto della Repubblica, nella primavera del 1849. Alla restaurazione del governo pontificio con le armi austriache ritorna come privato cittadino a Bologna, dove esercita la professione di notaio.
Nell’estate del 1855 Bologna è interessata da un’epidemia di colera che causa in città oltre 4.000 morti in pochi mesi e l’anno seguente Enrico Farnè, nel dare alle stampe il suo romanzo storico Teresina Roddi e un medico omeopatico all’epoca del colera in Bologna, lo dedica al medico omeopata Alfonso Monti riconoscendogli il merito di aver salvato le proprie figlie dal colera. Che sia stato questo episodio a proiettare sulla figlia Maria Velleda la propria fede nella scienza?
Parrebbe che il destino di Maria Velleda fosse già stato scritto dal padre, infatti, nelle mani della protagonista del libro pone I martiri di François-René de Chateaubriand soffermandosi sulla storia di un amore combattuto tra il capitano romano Eudoro e la druidessa, guarda caso di nome Velleda, sua prigioniera, che di lui si innamora, infine ricambiata, con conseguente tragico epilogo. E in effetti Maria Velleda perseguirà la carriera di medichessa, ma con un triste epilogo nonostante la sua professione.
Tornando alla realtà, gli austriaci, sconfitti dai franco-piemontesi nelle battaglie di Magenta, Solferino e San Martino, lasciano Bologna nel giugno del 1859. Si costituiscono governi provvisori, finché il plebiscito dell’11 e 12 marzo 1860 sancisce l’annessione dei territori emiliano-romagnoli al Regno di Sardegna. In questo frangente il padre Enrico, da sempre fautore dell’unificazione italiana, intraprende la carriera giudiziaria: diventa giudice di mandamento a Ravenna per poi emigrare con la famiglia in Piemonte.
Inizialmente si stabilisce nell’Alessandrino a Sezzadio, poi nel Pinerolese a Villafranca Piemonte, successivamente in Canavese a Barbania e a Ciriè per arrivare infine a Torino, nella sezione Moncenisio, dall’autunno del 1873 fino al collocamento a riposo 1879. Dopo tutto questo peregrinare nel 1872 la futura dottoressa Maria Velleda Farnè si presenta al Liceo Cavour di Torino per sostenere gli esami nella sessione ordinaria il 14 agosto, senza non poche difficoltà, supportata solo da studi casalinghi e la sua preparazione risulta lacunosa. Non consegue la sufficienza, soprattutto tra le prove scritte, come la composizione italiana e la versione dal greco e neppure nelle interrogazioni orali in letteratura greca e in fisica. Viene rimandata e nella sessione straordinaria di esami tenutasi il 29 ottobre del medesimo anno riesce a recuperare l’insufficienza nella versione dal greco, ma non nel tema di italiano e, tra le prove orali, ottiene la sufficienza in fisica, ma non nella letteratura greca.
A causa di queste lacune a novembre il ministro della Pubblica Istruzione non può accogliere la domanda di iscrizione in via provvisoria alla Facoltà di Medicina e chirurgia dell’Università di Torino. Da ulteriori ricerche archivistiche emerge una lettera del Ministero all’Università datata 2 giugno 1873 dove Maria, pur senza essere iscritta, aveva seguito i corsi della Facoltà sia nell’anno accademico 1871-72 sia nel 1872-73 e ne richiedeva il riconoscimento assieme alla possibilità di ripetere, anziché l’esame di licenza liceale completo, soltanto le due prove fallite. Il 15 novembre 1873 Maria supera l’esame di ammissione e finalmente il 4 dicembre può iscriversi al secondo anno di corso di Medicina. La stampa locale non si lascia sfuggire questa novità e sull’Educatore del Popolo vengono pubblicate queste righe:
La gentilissima signorina Farnè, figlia all’egregio signor Pretore per la sezione Moncenisio in questa città, avrà fra breve compiuto il suo corso di studi per ottenere il diploma di dottoressa in Medicina, e certo non le mancheranno i clienti, non potendosi dubitare che il gentil sesso sia per affidarsi assai più volentieri ad una donna specialmente nella cura delle malattie proprie di quell’essere delicato e gentile, tanto più conoscendo con quanto amore e zelo la cara signorina siasi dedicata con quel talento che le è proprio alla scienza di Esculapio.
Intanto Maria vive con la sua famiglia nel centro di Torino prima in via delle Scuole al 15, oggi via Piave, e poi dall’autunno del 1875 in via Juvarra 10, in un palazzo signorile da poco costruito e tuttora esistente, casa Aiello. Parallelamente il suo percorso di studi procede regolarmente, con buoni esiti, senza mai essere respinta. La cultura positivista dell’epoca si poggia sul metodo sperimentale e Maria ha tra i docenti nomi prestigiosi come Jacob Moleschott, Michele Lessona, Giulio Bizzozero, Angelo Mosso e Cesare Lombroso.
L’unica immagine ritrovata immortala Maria proprio in quel periodo seduta all’interno di una sala anatomica assieme ad altri medici e al professor Carlo Giacomini, professore di Anatomia umana normale. Questo scatto suona come un preludio all’esame di laurea del nuovo ordinamento che dovette sostenere, esame sviluppato in tre parti: una prova sul cadavere e due prove cliniche. La prima era un’operazione chirurgica su cadavere e di una necroscopia con interrogazione, mentre le prove cliniche consistevano nell’esame di quattro ammalati non ancora sottoposti a cure, su cui il candidato doveva formulare diagnosi, prognosi e cura. Al termine delle tre prove le tre sotto-commissioni si riuniscono e proclamano Maria Velleda dottore il 18 luglio 1878 con punteggio finale 38/63.
Quando la nobile fanciulla Pellegrina Amoretti, un secolo fa, veniva laureata in ambe le leggi nell’Università di Pavia, l’avvenimento fece gran rumore per tutta Italia e la voce armoniosa del poeta del Giorno volle unirsi al coro di plausi con cui si salutava da ogni parte l’ardita ligure giovinetta. Oggi il fatto si ripete nella nostra Università Torinese, e sebbene nessun poeta abbia finora messo a prova le corde della sua lira in omaggio al caso singolare, pure non è men viva la commozione che noi tutti si prova all’udire questo semplice annunzio: “La signorina Maria Velleda Farnè ha ottenuto la laurea in Medicina e chirurgia!”
Anche l’ottenimento della sua laurea suscita interesse considerando il resoconto di quaranta righe sul quotidiano La Stampa – sopra un breve estratto –, ma anche le testate estere se ne interessano, tra queste la Englishwoman’s Review e il Victoria Magazine di Emily Faithfull. Una nota interessante è poi quella che proviene da Michele Lessona, rettore dell’Università di Torino, il quale inviò queste parole al Ministero della Pubblica Istruzione nel 1879, in risposta a un’indagine sulle donne iscritte ai corsi universitari:
Mi permetto di aggiungere che queste iscritte frequentano regolarmente i corsi insieme cogli studenti, e che la cosa procede regolarissimamente, e che così procedette fin dal principio quando nell’anno 1871-72 la signorina Farnè s’iscrisse prima in questa Università. Aggiungo poi che molte signore frequentano alcuni corsi universitari regolarmente, e sovratutto quello del professor Ricotti [Storia moderna], ed anche quello libero del prof. [Pasquale] D’Ercole intorno alla Storia della filosofia [...] Frequentatissimo da signore d’ogni età, fra cui molte giovinette che vengono e vanno sole e prendono appunti e danno segno di molti studi è il corso di Letteratura italiana del professor Arturo Graf.
Le ricerche sulla vita che condusse successivamente non portano molte informazioni tranne che la morte del padre Enrico, avvenuta a Torino nel 1879, incise profondamente sulla sua professione che si avviò nell’esercizio privato. Era una strada praticata anche da altre laureate come relaziona Vittore Ravà nella sua inchiesta sulle donne laureate pubblicata nel 1902:
All’esercizio [...] della medicina per parte delle donne non si oppongono ostacoli legali; tuttavia le medichesse non sono molte e fino a questi ultimi anni l’opera loro non fu molto richiesta dalle famiglie, neppure per quanto riguarda la ginecologia e la pediatria. Non ve n’è poi alcuna che tenga un posto eminente fra gli esercenti l’arte salutare. Le amministrazioni degli ospedali e d’altri istituti di cura furono per l’addietro recalcitranti ad ammettere donne nel corpo sanitario [...].
Nell’estate del 1881 la giovane dottoressa ottiene l’“iscrizione a titolo onorario fra il personale sanitario della Real Casa”, in ossequio “alle intenzioni manifestate da S.M. la Regina”. Si possono solo fare delle supposizioni per giustificare questa nomina, una di queste vedrebbe la regina Margherita e il suo consorte in visita a Torino proprio il giorno della laurea di Farnè, il cui clamore giunse fino alla sovrana. Persone vicine alla corte probabilmente raccomandarono la dottoressa, rimasta orfana di padre.
La nomina fu qualcosa di molto prestigioso, che fece parlare di lei la stampa e le diede fama. La favorì certamente nell’inserimento nei circoli di dame e signore borghesi vicine alla corte, ma non comportava di per sé un riconoscimento economico. Negli ultimi anni di vita Maria, caduta in povertà e non senza imbarazzo, proprio alla regina ricorse per un indispensabile sostegno.
Ulteriori notizie sulla sua permanenza romana arrivano dopo cinque anni con un articolo di Matilde Serao sul Corriere di Roma nel gennaio del 1886 che afferma: “la signorina Farnè è medico, ma è medico soltanto per le signore e per i bambini”. E a un anno di distanza, la cita in contrapposizione a un’altra dottoressa, che diventerà ben più famosa, Anna Kuliscioff:
Io conosco quest’altra medichessa, Maria Velleda Farnè, tranquilla e laboriosa creatura, dalla volontà ferma come l’acciaio, dai modi semplici e in tutti gli ospedali dove è andata, dove va, è accolta, è stimata, è rispettata dai colleghi: giammai nessuno si è sognato di porre ostacoli alla sua carriera, ella lavora liberamente e quietamente, confortata dall’appoggio e dall’affetto dei medici maggiori di Roma. Ma ella non ha il difetto di Anna Kulichoff, la dottoressa Maria Velleda Farnè: ella non sa nulla di politica, non vuole saperne, vive perfettamente staccata da questa mediocre cosa. Invece Anna Kulichoff è affetta da una smania di propaganda; dovunque va, fra studenti, fra dottori, presso i clienti, ha bisogno di far proseliti.
Gina Sobrero, in arte Mantea, nel 1892 pubblica su La Stampa di Torino, questo ricordo:
Mi piace di ricordare anche il nome della signora Maria Velleda Farnè, che a Roma si è acquistata bella fama con le sue cure e con la diligenza con cui ella attende agli infermi che si affidano a lei.
La fama, i legami con il Palazzo Reale, le frequentazioni di determinati ambienti e il coinvolgimento e la nomina a determinati incarichi medici verso nuove istituzioni come l’Istituto di collocamento per le giovani disoccupate, non forniscono una cospicua fonte di reddito. Ha inizio per Maria Velleda un’inesorabile decadenza e una continua richiesta di aiuto per sé e per coprire i debiti contratti dai suoi familiari. Purtroppo l’intercessione del sindaco di Roma o il tentativo di assumere nel 1897 anche il cognome materno Gommi per acquisire una sorta di patente di nobiltà, non risollevarono la situazione e le risposte alle sue richiesta hanno più o meno questo tono:
[...] Mi duole doverle significare come non possa [...] essere accolto il desiderio ch’Ella mi esprime di essere ricevuta dalla Maestà Sua; Mi duole moltissimo doverle dire come il di lei desiderio non possa essere accolto, non concedendo mai gli augusti Sovrani la loro firma per lo scopo quale da lei indicatomi.
Nel 1900 la famiglia d’origine abbandona la casa di Torino, il fratello si trasferisce con la famiglia a Sassari come insegnante di Inglese e spetta a lei occuparsi dei debiti e delle necessità della madre in affitto. In questi drammi familiari nei documenti si mescolano epistole scientifiche e lavori della Farné e considerazioni sulle nuove terapie dell’epoca come l’inaugurazione dell’Istituto fototerapico e lettere di richiesta di aiuto economico alla sovrana, "specie in questa stagione in cui non si fa nulla colla clientela", lontana dalla capitale per la villeggiatura.
Nelle carte risulta essere stata componente del comitato romano di ricevimento del V Congresso internazionale di Psicologia, tenutosi dal 26 al 30 aprile del 1905 a Roma. Comitato di cui facevano parte altre donne, come Maria Montessori e Teresa Labriola, ma dopo questa data di Maria Velleda si perde ogni traccia, fino alla morte del 9 novembre del medesimo anno a Rivalba. Qui in un borgo collinare non distante da Torino, in una dimora signorile denominata Villa Tarino, del tutto isolata a cinque chilometri dall’abitato, in cima al Bric Martina il giorno seguente ne denunciano il decesso Guglielmo Dell’Isola Molo, il più giovane dei figli della sorella Telene.
Il giorno 11 è sepolta nel locale cimitero, ma della sua sepoltura non resta oggi alcuna traccia. La giovane donna che, sostenuta dal padre, non aveva formato una famiglia propria, ma aveva percorso la via allora inconsueta dello studio universitario e dell’indipendenza fondata sulla professione, la dottoressa che per vent’anni era vissuta a pochi passi dalla fontana di Trevi e ai piedi del Quirinale, frequentando dame dell’aristocrazia come colte signore borghesi ed essendo talvolta ricevuta per consulto a Palazzo dalla regina Margherita, si spegne cinquantatreenne, sola, in casa di parenti, in una dimora padronale meta di villeggiatura estiva da parte della propria famiglia di origine fin dal trasferimento in Piemonte.
Queste ricerche, condotte nei ritagli di tempo, sono durate almeno due anni, comprensivi del processo di valutazione per la pubblicazione. Sono ovviamente partita dalle fonti interne all’archivio universitario e poi ho scandagliato con ostinazione la gran quantità di pubblicazioni a lei coeve disponibili in rete, a caccia di indizi da verificare e approfondire in numerosi altri archivi bolognesi e romani soprattutto.
I documenti consultati sono tutti di natura pubblica, istituzionale. Nulla di privato è finora emerso e molto difficilmente si potrà ritrovare. E tuttavia un’idea del suo carattere me la sono fatta, proprio a partire dal suo percorso di vita.
Era certamente una donna molto determinata, concentrata sui propri obiettivi. Per cominciare, non fallì neanche un esame nei sei anni di corso di Medicina e Chirurgia. Ebbe molto a cuore la propria indipendenza, visto che non contrasse matrimonio e visse a Roma per vent’anni, sola, lontana anche dalla famiglia di origine. Era anche generosa, visto che non si sottrasse al dovere di sostenere economicamente il fratello più giovane nel momento in cui, a quarant’anni, conseguì la stabilità nella professione; ma ne ebbe uno sbilancio da cui non si riprese.
Quali sono state le sorprese, le risorse o le delusioni nel condurre questa ricerca?
Le sorprese sono state molte: la rettifica di errori tramandatisi nel tempo, il ritrovamento del suo volto e di due pubblicazioni a stampa, la ricostruzione, del tutto inedita, della sua fine. La prima risorsa è stata la passione, unita a una buona esperienza e capacità di fare ricerca nel contesto della rete archivistica italiana. Molta professionalità e spirito di collaborazione ho trovato quasi ovunque, in archivi, biblioteche, parrocchie, uffici anagrafici. Mi ha deluso che non sopravviva la sua sepoltura a Rivalba. Del resto molti anni sono trascorsi e della sua memoria nessun familiare si prese cura.
Alla fine di questa appassionante ricerca è scontato domandarsi quale eredità spirituale potrebbe essere raccolta per esempio dalle giovani generazioni.
Il messaggio è che bisogna osare, non temere di aprire nuove vie, a patto che si abbia la costanza di impegnarsi. Maria Velleda Farnè è una pioniera non solo rispetto al titolo professionale e all’indipendenza economica fondata sulla professione, ma anche perché visse senza essere moglie né madre, in un’epoca in cui non era certamente usuale. Oggi essere single non è più una scelta così audace e professionalmente è meno arduo affermarsi.
Dalla ricerca rigorosa e scientifica condotta al momento ne è scaturita una pubblicazione in forma di articolo su una rivista accademica, ma la storia si presterebbe perfettamente ad altre forme narrative e sono chiari i progetti futuri di Paola Novaria che oltre a essere archivista, è anche poeta, e sommelier:
Una lapide per Maria Velleda. E magari, perché no, una sceneggiatura…
Per la sceneggiatura, Paola Novaria in effetti ci ha già pensato, invece l’epitaffio della lapide potrebbe essere: “…due soli episodi di luce accecante, che lasciano il resto della sua esistenza in ombra”.
Grazie ancora per aver dato la giusta luce a questa nostra coraggiosa pioniera!