Un enorme iceberg incontrato lungo la navigazione, Groenlandia, 1991.
"Dopo essermi rotto un ginocchio giocando a basket mi trovavo sdraiato in poltrona e sulla parete della stanza osservavo un piccolo “scarabocchio” sulla cartina geografica del mondo. Erano le Svalbard. Di queste isole non sapevo nulla e non si trovava nulla. Ma cercando e ricercando trovai l’indirizzo dell’Istituto Geografico Polare di Civitanova Marche, oggi è a Fermo, creato dal professor Zavatti."
Chi non ha mai fatto sogni? Viaggi lontani, in luoghi remoti o sconosciuti? Allora potete sicuramente capire chi ha scritto queste righe appena lette. Il bello è che, nonostante le difficoltà o l’estrema improbabilità, alcuni sogni fatti a occhi aperti alla fine si realizzano, proprio come nel caso del Grande Nord, ideato nei lontani anni Ottanta del secolo scorso.
Il ginocchio in questione è di Franco Giardini, microbiologo ospedaliero in pensione. Come racconta, iniziarono così i primi contatti, anche di persona, con il professore Zavatti, mentre parallelamente si stava formando un gruppetto di amici tutti affascinati da queste isole polari: fu così che, nel 1981, nacque a Torino l’Associazione Grande Nord.
In Italia ancora oggi si occupa di Nord estremo e il suo team torinese è attualmente il gruppo privato più attivo sia nell’organizzare sia nell’affrontare spedizioni polari non dimenticando l’aspetto editoriale e quello scientifico. Il gruppo formato, un vero sodalizio di professionisti, ha in comune un’inguaribile passione per le alte latitudini e come obiettivo, lo studio e la conoscenza delle regioni polari e subpolari.
In realtà, l’idea originale era di creare un gruppo di amici amanti del “Grande Nord” inteso come Artico, perché già da anni l’ideatore aveva imparato a conoscere attraverso alcuni viaggi avventurosi con la sua auto o in pulmino, mete come Capo Nord o la remota Islanda, quando occorreva portarsi taniche di carburante. E di strada ne è stata fatta se dal 1982 ad oggi si contano ben sette spedizioni polari. Ma prima di scendere in altri dettagli, a parte l’ideatore, chi sono gli altri piemontesi che hanno fatto parte di queste spedizioni? Possiamo anticipare che hanno tutti una formazione variegata: sono biologi, medici, geologi, naturalisti, subacquei e alpinisti.
Il primo fu Walter Forno, che purtroppo ci ha lasciati qualche anno fa, poi Enzo Gay e Paolo Bosio, nacque allora l’idea di fare una vera e propria spedizione in questo arcipelago artico in cui si era spinto Umberto Nobile con i suoi dirigibili. Poi si sono aggiunti altri elementi come Gian Franco Toso e Marco Salvo e il gruppo era fatto. Detto così sembra banale, trovare delle persone per fare una spedizione, invece si sono dovuti scartare alcuni elementi che magari tecnicamente e fisicamente “davano la polvere” a tutti, ma che purtroppo non erano determinati, non si sentivano “unus inter pares”, magari avevano paura degli orsi e non legavano con un gruppo come il nostro, goliardico ma estremamente risoluto.
Infatti andare d'accordo ed evitare conflitti interni al gruppo è un fattore da non sottovalutare, soprattutto quando si è in situazioni potenzialmente rischiose. In spedizioni così delicate si vive sempre con un po’ di tensione, non si sa bene cosa possa capitare e, come ci riferiscono, è molto facile avere delle crisi nervose. Ma veniamo alla parte scientifica.
Da sinistra: Walter Forno a Ellesmere nel 1988, Enzo Gay in Groenlandia nel 1991 e Paolo Bosio alle Svalbard nel 1986.
Il gruppo ha collaborato con vari Istituti dell’Università di Torino, come la Clinica Oculistica, l’Orto botanico, l’Istituto di Idrobiologia, l’Istituto di Zoologia o l’Istituto di Parassitologia Animale. Ma i contatti non si sono fermati in Piemonte, sono stati tenuti anche con l’Università di Siena nel quadro di una ricerca mondiale sui pesticidi in zone molto estreme della Terra o con l’Università di Ulm in Germania per una ricerca analoga. È veramente interessante notare che le piante raccolte nella Terra di Francesco Giuseppe, l’arcipelago più a Nord del mondo, siano state messe a confronto con l’erbario raccolto dalla famosa spedizione del Duca degli Abruzzi un secolo prima. I vari professionisti del Grande Nord hanno anche raccolto campioni di animali marini durante le immersioni subacquee e si è poi scoperto che le ricerche sui pesticidi nelle zone artiche visitate hanno riscontrato un inquinamento a “macchia di leopardo”.
Dalle parole di Paolo Bosio, torinese, medico chirurgo, specialista in oculistica:
L’artico, le sue temperature estreme, la luce continua durante l’estate, le fatiche improbe, si prestavano a studi di fisiologia oculare mai condotti in precedenza. In accordo con la Clinica Oculistica dell’Università, di cui allora facevo parte, abbiamo deciso di studiare alcuni parametri dell’occhio umano in quelle condizioni. Inutile dirlo, cavie degli esperimenti eravamo noi stessi… Professionista ed essere umano coincidono, le esperienze vissute valgono per entrambi.
Momenti (e tanti) di pericolo, di tensione, di estrema fatica, mi hanno insegnato a essere il più possibile razionale, a sdrammatizzare i problemi che nella vita quotidiana tutti dobbiamo affrontare. Non sempre è possibile, è vero, ma quanto vissuto nell’Artico mi ha aiutato tanto, anche con i miei pazienti. Dopo che ti sei trovato a tu per tu con l’orso polare, hai dormito sul pavimento unto e coperto di polvere di carbone di una vecchia capanna dei trappers, hai navigato per ore su un fragile guscio di gomma in mezzo a una tempesta, molti dei problemi di ogni giorno vengono ridimensionati.
Poi, quando sei sotto la tenda a 35 gradi sotto zero, fai decine di chilometri a piedi con 35 kg di zaino sulle spalle o spingi la motoslitta che non vuole saperne di ripartire sotto la luce delle aurore boreali, pensi che a casa, a Torino, c’è il tuo letto al caldo, giri il rubinetto e arriva l’acqua bollente, in garage c’è la tua macchina che parte al primo colpo e ti porta ovunque, premi l’interruttore e si accende la luce. Tutte cose ovvie, normali per tutti noi. Però lassù hanno un significato diverso. Bisognerebbe ricordarsene ogni tanto.
Parlando di queste avventure lontane e di grandi esploratori del passato spesso ci si scorda un fattore molto importante: l’organizzazione di una spedizione. Organizzare una spedizione artica richiede anzitutto molta collaborazione tra tutti i componenti e…
Sicuramente bisogna studiare a fondo la storia che si è svolta in quella zona prescelta, e noi abbiamo acquistato nel corso degli anni centinaia di volumi, anche rari, sull’Artide, poi occorre decidere se la spedizione sarà a piedi, in gommone o, come è stato per noi nella spedizione invernale alle Svalbard, in motoslitta.
Spedizione invernale alle Svalbard nel 1984. A sinistra: il pack compatto nella baia di Agardhbukta; a destra: l'antichissimo ghiacciaio Paulabreen nei pressi di Sveagruva.
Successivamente si stabilisce un itinerario di massima, in Artico nulla è mai certo e soprattutto si fanno dei conti economici approssimativi per passare a cercare gli sponsor, sia tecnici che no. Il Grande Nord, grazie all’originalità delle spedizioni, può vantare di aver avuto sempre dalla sua il fior fiore delle aziende italiane in vari campi.
Naturalmente si riceve ma si deve poi restituire un ritorno di immagine agli sponsor sotto forma di citazione sui periodici su cui si pubblicano articoli sulle spedizioni, sulla stampa quotidiana, nelle conferenze che si tengono un po’ dappertutto, nelle serate di proiezione di diapositive in dissolvenza o dei nostri filmati, sulla posta “speciale” che verrà inviata dall’ufficio postale del villaggio più estremo raggiunto in tutto il mondo a tutti i collezionisti che hanno fatto richiesta dietro un piccolo contributo.
Come se non bastasse oltre a mesi di lavoro per la preparazione, si deve anche aggiungere una parte burocratica, per poter andare in certi luoghi come il Nord-Est della Groenlandia, la Terra di Ellesmere in Alto Artico Canadese o l’arcipelago di Francesco Giuseppe. Quest'ultimo luogo è di norma aperto solo a turisti che vi arrivano su rompighiaccio atomici russi, diretti al Polo Nord, e che vengono fatti scendere qualche ora a terra, quando è possibile. Per farlo è necessario inoltrare richieste ufficiali ai ministeri competenti dei vari paesi da cui quei luoghi dipendono. Questo ha significato recarsi di persona in diverse città come Copenaghen, Ottawa, Mosca e San Pietroburgo per dei colloqui con le autorità che devono concedere i permessi. In particolare, il Grande Nord è stata la prima associazione occidentale a organizzare, nel dopo guerra, una spedizione alla Terra di Francesco Giuseppe, mentre a seguire c’è stata poi una spedizione austriaca.
Terra di Ellesmere, 1988. A sinistra: collegamento radio con l'Italia dal villaggio di Grise Fjord; a destra: ghiacciaio nel Soundfjord.
I Russi sono molto legati alla storia e sono persone di profonda cultura, così hanno concesso a noi il permesso perché avremmo seguito la rotta della “Stella Polare” del Duca degli Abruzzi, e agli austriaci perché l’anno dopo avrebbero commemorato la scoperta dell’arcipelago proprio da parte di due connazionali.
Come ricorda Paolo Bosio l’inquinamento era già percepibile negli anni delle loro spedizioni:
Sacchetti, funi e reti di plastica, chiazze oleose in mare erano già visibili lungo le coste delle terre che abbiamo visitato. Non in modo eclatante, ma comunque presenti. Ma l’inquinamento non è solo quello. Le migliaia di barili vuoti di carburante lasciati ad arrugginire sulle spiagge di Resolute Bay o di Eureka, le nuove costruzioni, hotel compresi, di Longyearbyen, il flusso continuo nel periodo estivo di navi da crociera che sbarcano migliaia di turisti alla volta, producono un impatto ambientale significativo.
Parlando invece di emozioni, la più grande è stata la ricerca a piedi, per giorni e giorni, dell’ultimo esemplare di bue muschiato presente alle Svalbard.
Siamo riusciti a trovarlo e ad avvicinarlo a pochi metri di distanza, con il cuore in gola. Questo animale è stato un po’ il nostro portafortuna perché dalle interviste e dalla pubblicazione delle belle immagini realizzate è nata per noi una certa notorietà e la nomea de “I matti delle Svalbard” come ci chiamava Giovanni Arpino, della cui amicizia ci siamo onorati.
Il Governatore delle isole, aveva avvisato che da diversi anni non si riusciva a localizzare questo abitante dell’estremo nord, purtroppo l’anno seguente altri esploratori ne trovarono il corpo. Era morto durante la dura notte polare.
Nonostante i contatti presi a Oslo e alle Svalbard, non ebbe seguito il progetto di creare quello che avevano chiamato “Osservatorio scientifico Città di Torino” e questa per il Gruppo è stata una grande delusione.
Il Governo norvegese ci aveva concesso una casetta in legno, la quale a suo tempo era stata utilizzata dai minatori, a Ny Alesund, per farne una prima sede di partenza. Ne avevamo parlato con vari istituti universitari e anche con il Comune, all’epoca con l’assessore Alfieri alla Cultura. Poi è chiaro che questi Enti avrebbero dovuto stanziare i fondi, molto contenuti peraltro, per organizzarlo a laboratorio e sede italiana. Noi non avevamo chiesto nulla, se non la prelazione nell’esser scelti come guide per accompagnare i ricercatori in varie zone delle isole.
Nel progetto, mai andato in porto, il Grande Nord avrebbe procurato tutta l’attrezzatura tecnica necessaria tramite gli sponsor e inoltre si garantiva ai ricercatori la difesa dagli orsi bianchi in caso di un attacco. Non se ne fece nulla. Anni dopo fu costruita la prima base che però prese fuoco, sprecando così molte risorse. Solo successivamente fu costruita quella che è l’attuale sede di ricerca italiana, in genere sfruttata un paio di mesi l’anno.
Tornando ai componenti del Grande Nord, ognuno aveva delle mansioni secondo le proprie capacità: per esempio c'era chi guidava i gommoni, di solito il gruppo subacquei come Paolo Milanese e Saverio Verduci, e qualcuno più portato per la cucina che faceva il cuoco; dal 1988 in poi Walter Forno si occupava dei contatti radio con l’Italia.
Però di norma ciascuno faceva di tutto. Durante le varie spedizioni, specie nei momenti di difficoltà o di paura, ci si stringeva a riccio e c’era un forte legame di amicizia. Non per nulla ancora oggi ci ritroviamo insieme.
In questi luoghi si può fare anche una sorta di archeologia grazie al ritrovamento di oggetti delle spedizioni del passato. I reperti storici più importanti trovati sono quelli rinvenuti nella Baia di Teplitz, nell’estrema isola dell’arcipelago di Francesco Giuseppe. Oggetti rimasti lì dalla spedizione del Duca degli Abruzzi. Per esempio è stato ritrovato un mezzo pennone di riserva della nave, la cui autenticità è stata poi garantita da esperti in materia, grazie anche alle dettagliate foto raccolte a testimonianza dell’evento. Successivamente è stato ricollocato in piedi con una targa di ottone appositamente realizzata in Italia per ricordare gli uomini scomparsi della spedizione: Querini, Ollier, Stokken.
Ma altri ritrovamenti possono suscitare grandi emozioni, come i pezzi di due casse con la scritta inequivocabile della baleniera “Stella Polare” o più semplicemente una parte di un vasetto con il logo “Carciofini Angelo Valiani-Orbetello” e tanti altri reperti che oggi sono presenti al Museo Nazionale della Montagna “Duca degli Abruzzi” di Torino e al Museo Polare Italiano a Fermo nelle Marche. In altre spedizioni alle Svalbard il gruppo ha trovato i resti di un capanno in cui si rifugiò l’Alpino Angelo Casari che fece parte delle ricerche dei naufraghi del dirigibile Italia nel 1928. All’interno la scritta sulle assi “A. Casari-Como - 4700 Km. Italia!”
Su una delle isole delle “Sette Sorelle” alle Svalbard abbiamo trovato un’enorme scritta realizzata con i sassi della montagna, sulla spiaggia, “KRASSIN” (in cirillico) "1928”. Il famoso rompighiaccio russo stava andando a salvare i naufraghi italiani della “Tenda Rossa”. E infine, sulla spiaggia di un’altra isola all’estremo Nord delle Svalbard, una scritta molto grande, sempre con pietre, con una svastica e con i nomi della corazzata “Tirpitz” e dell’incrociatore “Scharnost” della Marina tedesca che raggiunsero anche quelle acque sperdute.
Si possono ancora compiere esplorazioni? Oggi è tutto diverso rispetto a quarant'anni fa. Per esempio la scalata dell’Everest è un’esplorazione? La traversata del Polo Nord con un rompighiaccio atomico russo è un’esplorazione? Un itinerario guidato in motoslitta alle Svalbard dove ti forniscono pasti caldi e attrezzature varie è un’esplorazione?
Non ci siamo mai permessi di intestarci o accettare il termine “esploratori”. Sarebbe stato uno sfregio a chi ci ha preceduto lassù tanti anni fa e ha compiuto imprese per noi impensabili. Ma nemmeno ci siamo mai sentiti turisti. Si può essere esploratori anche al Pian della Mussa, se solo si ha la volontà di superare il rifugio e seguire prima i sentieri, poi il nulla che porta verso luoghi dove pochi hanno messo piede.
È vero che il Grande Nord non ha aperto alcuna via, né percorso lande ancora inesplorate, ma ha fornito un piccolo contributo alla conoscenza di quelle regioni. Ora la pandemia e la guerra in Ucraina stanno rendendo sempre più difficile ogni sorta di approccio a nuove spedizioni e crisi economiche presenti e future rendono critico il contributo di sponsor dato che organizzare una spedizione polare in perfetta autonomia ha costi esorbitanti.
250 conferenze, articoli, libri, filatelia polare e un nuovo sito web: www.associazionegrandenord.org a distanza di quarant'anni l’Associazione Grande Nord è ancora viva e attiva in campo divulgativo e l’emozione al ricordo di quei luoghi lontani è vivida negli occhi di Bosio:
Ricordo l’avvicinamento dall’aereo all’aeroporto di Longyearbyen (Svalbard) nell’inverno 1984. Dall’alto il cielo bianco faceva da sfondo indistinguibile a valli imbiancate dalla neve, alla banchisa polare il cui giaccio si era insinuato in ogni più piccola insenatura o fiordo. Un’unica distesa bianca, cielo, terra e mare, uniforme, omogenea e compatta. Solo ogni tanto emergeva qualche macchia bruna: le cime più scoscese delle montagne dove la neve e il ghiaccio non erano riusciti a fare presa. Un panorama tanto affascinante quanto agghiacciante. Ma non c’era panico tra di noi a bordo, solo l’interrogativo: come faremo a orientarci in questo deserto bianco così apparentemente ostile?
Allora non esisteva il GPS, le bussole impazzivano vista la vicinanza con il Polo, le mappe erano approssimative. Questa fu per me una delle emozioni più grandi. Tutti, pubblico, giornalisti, intervistatori televisivi, ci hanno sempre chiesto di condividere le nostre emozioni. Impossibile. Cerchi a fatica di descriverle, di raccontarle. Solo chi era vicino a te, in quel momento, conosce perfettamente e può condividere realmente le sensazioni profonde che regalano un iceberg alto quanto un grattacielo che si capovolge su se stesso in mezzo al mare, captare la sorpresa reciproca negli occhi di un orso polare o di un bue muschiato, essere inseguiti da un branco di trichechi irascibili.
Gli esploratori del passato sono stati i loro miti e i punti di riferimento in ogni spedizione organizzata, le pagine dei loro libri hanno fatto titubare per le difficoltà incontrate, ma hanno anche incoraggiato con le loro parole di tenacia e perseveranza. Amundsen, Andrè, Nansen, Nobile, il Duca degli Abruzzi. Tra successi e fallimenti hanno scritto la storia delle esplorazioni polari. Il Grande Nord li ha seguiti per vivere qualcuna delle loro emozioni e rendere ancora attuali le loro imprese contro il passare del tempo.
Franco Giardini: Mi piacerebbe incontrare gli uomini del Duca degli Abruzzi e parlare con loro delle sensazioni che hanno avuto a quelle latitudini estreme, a quei tempi ovvero 1899-1900, paragonabili a un’esperienza lunare.
Paolo Bosio: Per me Roald Amundsen fu il più grande di tutti. Capace di ideare e realizzare imprese sbalorditive in un’epoca di tende fatte di cotone e tela cerata, di sacchi a pelo senza piumino, di imbarcazioni di legno che venivano stritolate dalla morsa dei ghiacci. Ogni ruga del suo viso segnato parla di avventure estreme. Il naso adunco e la piccola statura celano un’incrollabile volontà e tenacia. Il suo sguardo profondo un’ambizione irrefrenabile. Morto per caso su un aereo in un impeto di generosità, alla ricerca del suo amico Nobile e dei naufraghi della Tenda rossa. Quante cose ci sarebbero da ascoltare...
👉 Si ringrazia l'Associazione Grande Nord per la disponibilità e la concessione delle fotografie a corredo dell'intervista.