Per chi come me ha sempre abitato nella periferia di Torino, le notti in città avevano un’unica tonalità arancione. Da grossi e pesanti fanali appesi ai lati della strada si irradiavano coni di luce che scendevano verso il marciapiede allargandosi gradualmente, dipingendo le facciate dei palazzi addormentati e rendendo il cammino dei passanti un gioco d’ombre dove il riflesso del proprio corpo sui muri e sull’asfalto sfumava, si sdoppiava, svaniva, cambiava posizione non appena ci si avvicinava o ci si allontanava dalla proiezione di un lampione a quella di un altro. Questo almeno fino a pochi anni fa.
Poi, un giorno, senza che la maggioranza dei torinesi neanche ci facesse caso, i lampioni di gran parte delle strade della città sono stati sostituiti e ora la luce della notte appare diversa: bianca, più fredda, meno accogliente, sembra un alito glaciale che spira sulle vie. Le facciate delle case si scorgono con difficoltà, le strade sono diventate più scure, più cupe, consigliano prudenza. Solo in quel momento mi sono reso conto di come la luce elettrica possa effettivamente cambiare la percezione e l’immagine che si ha di una città, anche della propria.
Ben prima che questi cambiamenti avvenissero e che molti degli abitanti li notassero, Paolo Silvetti, scrittore e storico originale e appassionato con un ricco curriculum di studi e pubblicazioni, aveva avuto l’intuizione di studiare i lampioni cittadini e il suo ultimo libro Torino città illuminata (Daniela Piazza Editore) è l’eccellente prodotto di un lavoro lungo e faticoso, durato vari anni, che ora fa da guida al cittadino in un viaggio alla scoperta di questo arredo urbano così poco considerato, eppure così essenziale per la nostra vita quotidiana.
L’idea di scrivere questo libro risale a qualche anno fa, ma la ricerca era iniziata già dal 2014. Affascinato dalla bellezza, dalla varietà e dal numero di lampioni presenti nel centro storico cittadino, ho cominciato a fotografarli sistematicamente, setacciando ogni angolo della città, cercando di coglierne gli stili e le originalità. La curiosità mi ha spinto oltre, andando ad approfondire l’argomento con ricerche in archivi pubblici e privati, anche fuori regione. Di colpo mi si è aperto un mondo sconosciuto e affascinante nel quale Torino ha rivestito un ruolo fondamentale. Ci sono diverse pubblicazioni sulla storia dell’illuminazione a Torino, così come diversi studi dal taglio tecnico-scientifico, quasi per “addetti ai lavori”, ma nessuna guida accessibile a tutti sulle singole tipologie di lampione presenti nelle strade. Non è stato facile reperire informazioni storiche, datazioni e altre curiosità sui lampioni: all’Archivio Storico della Città di Torino le informazioni latitano o sono disperse in una gran massa di documenti molto lunghi e complessi da analizzare, tanto che una grossa fetta delle notizie trovate è venuta fuori dalle ricerche compiute all’Archivio dell’Italgas che a breve dovrebbe essere reso completamente accessibile al pubblico. Del resto, il lampione è da sempre concepito come un arredo cittadino e come tale non riveste un ruolo principale.
Il risultato è un lavoro pionieristico che, oltre a farci da guida attraverso le strade della città, sottolinea l’assoluta avanguardia di Torino nella storia dell’illuminazione e della luce artificiale in Italia.
Sebbene le prime forme di illuminazione pubblica abbiano origine in altri paesi europei, Francia e Inghilterra in particolare, il capoluogo piemontese fu, nello scenario italiano, la città dove queste nuove tecniche ebbero più rapida fortuna e ricezione. Questo grazie a una donna: la Madama Reale Giovanna Battista di Savoia Nemours che, arrivata a Torino da Parigi dove forme di illuminazione pubblica erano già state inaugurate da tempo, nel 1675 ordinò che, agli angoli delle strade di Torino, si dovessero tenere accese delle lanterne, a olio o a sego (un grasso di tipo animale molto usato all’epoca), per permettere di poter camminare in città anche dopo il calar delle tenebre. Il sistema venne poi aggiornato dai successori e, sebbene non mettesse al riparo da alcuni inconvenienti come fumo e cattivi odori, nel Settecento la capitale sabauda era ammirata per la sua illuminazione pubblica che era “la più splendida, la più bella che si possa mai vedere” (Marchese Malaspina).
Quando poi, a inizio Ottocento, in Inghilterra e in Francia incominciò a esser usato il cosiddetto “gaz illuminante” ottenuto dalla distillazione secca dell’antracite, Torino fu di nuovo una delle prime realtà a seguirne l’esempio: nel 1822 il Caffè Gianotti (oggi San Carlo) lo introdusse per rischiarare i suoi locali e nel 1837 proprio nel capoluogo piemontese nacque la prima società italiana per l’illuminazione a gas, la cosiddetta “Compagnia di illuminazione a Gaz per la Città di Torino”, che poi, dopo vari cambi di denominazione a partire dall’Unità, prenderà il nome di Italgas. Conseguentemente, il primo gasometro d’Italia venne costruito a tempo di record nella zona attorno a Porta Nuova (in quella che prenderà il nome di via del Gasometro, oggi via Camerana), anche se poi, nella seconda metà dell’Ottocento, le attività vennero spostate sulla riva della Dora dove ancora oggi si possono osservare le due colossali strutture circolari in ferro che contenevano i depositi del gas.
Anche con il passaggio all’elettricità Torino si mantenne all’avanguardia: nel 1907 venne fondata l’Azienda Elettrica Municipale di Torino, l’odierna Iren, e già negli anni Trenta del Novecento la città poteva vantare il servizio di illuminazione pubblico più moderno e variegato d’Italia che le fece meritare l’appellativo di nuova Ville Lumière sul modello parigino. Un passaggio, quello del gas all’elettricità, che non bisogna dimenticare che fu reso possibile anche grazie all’opera di alcuni piemontesi come Alessandro Cruto e Galileo Ferraris i quali lasciarono un’impronta indelebile con le loro scoperte sull’elettrologia. Anche se oggi, con la fine dell’era industriale, l’importanza di Torino nella produzione dell’energia elettrica è andata un po' in calando, restano ancora dei punti di eccellenza e di particolarità che sono perfettamente coerenti con la grande importanza che la luce artificiale ebbe nella storia del capoluogo piemontese: la manifestazione “Luci d’Artista”, inaugurata nel 1998 e oramai diventata un marchio distintivo del capoluogo piemontese nel periodo natalizio, ne è sicuramente il più celebre ed eclatante esempio.
In uno scenario che ha dato all’illuminazione un posto di grande importanza nel proprio tessuto urbano, anche l’estetica venne chiamata a fare la sua parte. Specialmente nell’Ottocento agli scultori e agli artisti locali vennero richieste sempre nuove forme e novità che potessero abbellire in modo originale le facciate e gli interni degli edifici pubblici o dei palazzi delle famiglie più in vista.
Nell’Ottocento, che è sicuramente il secolo d’oro dell’illuminazione, gli artisti si sbizzarrirono nel creare lampioni e lanterne dalle forme originali, dato che vi era sicuramente una grossa richiesta da parte della committenza privata. Sebbene alcuni di questi manufatti siano dei piccoli capolavori, non si conosce quasi mai il nome dell’autore, probabilmente furono creati da qualche artigiano locale su cui sarebbe bello fare qualche ricerca in più. Nel libro mi soffermo sui lampioni più originali: il più magico, il più curioso, il più raffinato, il più romantico, il più mimetizzato e così via. Molto ovviamente è andato perduto, anche se un certo gusto per la lampada o per la lanterna artistica rimane ancora oggi, soprattutto in ambienti molto facoltosi e raffinati. A Torino, nel Borgo Medioevale, è tuttora attiva la Bottega del Ferro Battuto di Mastro Corradin che di tanto in tanto si occupa di creare piccoli gioielli di questo tipo.
Per quanto riguarda i lampioni storici pubblici, invece, si sa decisamente di più. Ognuno di questi ha un nome e una datazione; alcuni sono stati concepiti per le piazze auliche di Torino come l’“Impero”, il monumentale candelabro a cornucopia a cinque braccia, diventato uno dei simboli della città. Altri sono nati per i portici come il “Settecento” che fece la sua prima apparizione in via Po e nel primo tratto della nuova via Roma negli anni Trenta, oppure i “Casanova”, sempre sotto i portici del centro, che colpiscono per le loro eleganti linee liberty. I “Santa Teresa con gonnella” sono i più diffusi: devono il loro nome alla campana di vetro che sembra conferire all’apparecchio una sorta di gonna e al fatto che dapprima furono collocati nella centrale via Santa Teresa. E poi gli “Ordine Mauriziano” sulla facciata di Palazzo Chiablese, ma anche all’ingresso della Galleria Umberto I, i “Piacentini” del secondo tratto razionalista di via Roma, “i Nodo di Savoia” davanti al mastio della Cittadella, i “Grappoli” sulla cancellata del Pelagi tra piazza Castello e la piazzetta Reale e così via. Un elenco molto lungo e articolato che ovviamente è fatto anche di perdite e di dispersioni, non sempre, almeno per quanto riguarda i tempi più recenti, così rammaricabili.
Esempi di lampioni presenti a Torino, dalle forme più originali.
La straordinaria varietà dei lampioni torinesi ha origine nella particolare attenzione che il Comune di Torino ha sempre dato a questo particolare elemento di arredo urbano. Mentre gran parte dei comuni commissionava a imprese esterne la progettazione e la realizzazione dei lampioni accettandone i disegni e le linee, l’amministrazione municipale del capoluogo piemontese, già dalla fine del primo conflitto mondiale, intuì l’importanza di avere un sistema di illuminazione pubblica che rispondesse alle sue direttive. Negli anni Trenta venne creato un Servizio Tecnologico Municipale, composto da architetti e ingegneri, che aveva il compito di disegnare i modelli di lampioni che poi venivano commissionati a fonderie e officine torinesi e piemontesi che lavoravano la ghisa o altri materiali. In particolare, ingegneri come Guido Peri e Guido Chiarelli assolsero con competenza e originalità questo servizio, illuminando e abbellendo la città dalla fine della Grande Guerra agli anni Sessanta. Del resto, questa attenzione da parte del Comune verso il proprio arredo urbano viene da molto lontano. Già nel Settecento il Comune aveva individuato il verde scuro come colore distintivo del proprio arredo urbano e ancora oggi questo è usato ovunque, dagli storici torèt alle panchine fino ad arrivare ai lampioni.
I lampioni, come tante altre cose, sono solo un semplice arredo urbano e come tale passano inosservati ai più. La gente è distratta e va di fretta: perché dovrebbe fermarsi a guardare un lampione? Oggi ogni cosa appare scontata, compresa l’illuminazione. Eppure una volta i lampioni a gas suscitavano stupore e ammirazione; i lampionai erano addirittura romantici protagonisti di libri, fiabe, film e addirittura di opere liriche. Con l’avvento dell’elettricità diventarono ancor di più simbolo di progresso e di modernità ed esaltati dai futuristi come Giacomo Balla che, per primo, dedicò un suo dipinto ad una lampada ad arco immersa nella rifrazione della sua luce. Una città non è fatta solo dai suoi palazzi, dai suoi monumenti, dalle sue strade, ma anche da tutti quegli elementi, a volte quasi impercettibili, che ne catturano l’essenza, concordano a creare un’atmosfera irripetibile e irriproducibile. Torino senza i suoi lampioni non sarebbe la stessa: esaltano i metafisici portici, le sue strade rettilinee, le sue piazze auliche e il corso del Po, regalando emozioni.
Oggi non si è più nell’Ottocento o all’inizio del Novecento dove il diffondersi dell’illuminazione artificiale veniva visto come un segno di progresso e di civiltà. Adesso, ed è proprio Paolo Silvetti a spiegarmelo, si va verso un’inversione di tendenza. La necessità di far fronte al risparmio energetico e la volontà da parte del Comune di fare Torino una smart-city ecosostenibile, efficiente e sicura ha portato alla decisione di sostituire le tradizionali lampadine alogene con le nuove lampade al led, più economiche e dalla minore dispersione energetica. Molto contestata da parte di una grossa fetta dell’opinione pubblica, questa scelta non ha per ora toccato il centro storico che ancora oggi di notte può vantare quella luce giallo-arancione alla quale ci siamo oramai abituati. Tuttavia, la direzione oramai pare quella: piaccia o no, dovremmo iniziare a familiarizzarci con città meno luminose in una parabola che, dalle punte entusiastiche di fine Ottocento e inizio Novecento, è ancora tutta da vivere e da scrivere.