Carol Rama, 1980 circa.
Carol Rama viveva di sola luce artificiale. Le prime cose che si notano nel suo appartamento, al quarto piano di via Napione a Torino – dove ha vissuto da sola dagli anni Quaranta sino alla morte, avvenuta nel 2015 – sono le tende nere alle finestre e le pareti dipinte di grigio scuro, volute dall’artista dalla fine degli anni Ottanta. A eliminare possibili distrazioni, forme e colori del paesaggio, il cielo. Una scelta molto diversa da quella di tanti altri artisti che il sole e la luce sono andati a cercarli nei sud del mondo, nelle isole del Pacifico, en plein air. Una scelta, verrebbe da pensare, radicalmente espressionista (“non guardo fuori, guardo solo dentro di me”). Ma il pensiero sarebbe probabilmente riduttivo.
In questo contesto caldo, denso, da interno fiammingo, gli oggetti sono diversi, emanano una luce propria carica di visionarietà e di seduzione che rende l'esperienza della visita eccezionale e unica, probabilmente anche nel caso in cui di Carol Rama non si sappia nulla – anzi, forse ancora di più in quel caso, perché non gravati dai pregiudizi che ancora oggi molti associano al personaggio Carol Rama, anteponendolo all’artista: il personaggio della 'matta subalpina', come l'ha definita l’amico musicologo Massimo Mila, facendo riferimento al fatto che Torino, città precisa, svizzera, ordinata, sobria, ogni tanto produce dei matti come non ne esistono in tutto il mondo.
Le uniche stanze con finestre non oscurate sono la piccola cucina con la parete sopra il minuscolo piano cottura disseminata di fotografie e la finestra che incornicia perfettamente la sagoma verticale della Mole Antonelliana e, accanto, il bagno. Quest’ala della casa è completata dalla grande sala-studio, mentre il lato opposto, rivolto verso via Napione, è composto dalla camera da letto e da due stanze più piccole.
La cucina con la parete sopra il piccolo piano cottura disseminata di fotografie.
Una casa piena di oggetti, sui piani orizzontali come su quelli verticali, in cui una persona ci sta giusta giusta. Fa pensare ai gatti che si arrotolano nelle scatole piccole, forse per essere ben contenuti, delimitati, abbracciati: per non sentire spazio inutile, che disperde. Fa pensare anche a certi autoritratti di Carol Rama della fine degli anni Trenta: la sua figura a poco più di mezzo busto che occupa tutto il quadro, come a stringersi per starci dentro tutta, mentre la parte superiore della testa è tagliata.
Uno spazio che contiene e che è scenografia curatissima: straborda oggetti visti, pensati e amati per anni dall’artista; una natura morta senza soluzione di continuità, quasi bidimensionale, dove tutto è disposto in modo perfetto, impeccabile, formalmente bilanciato; dove l’esterno non entra né il trascorrere del tempo.
Sono oggetti d’uso. Li ho visti sempre così, con la carica di sgomento e di erotismo che introducono nella vita domestica. Ero attratta dai vespasiani come dagli interni delle chiese; mi piacevano molto le protesi che erano in casa di una mia zia di Livorno, e le forme di calzature ortopediche ammucchiate dietro il letto ‘800 di mia nonna con gli occhi di maiolica.
I libri li metteva dentro le cassette della frutta, di taglio; ne rimangono alcune nella sala studio, mentre gli altri libri sono stati spostati sugli scaffali della piccola stanza d’ingresso, dove oggi vengono accolti i visitatori. Tutto il resto della casa e dell’arredo è come e dove era quando Carol Rama era in vita. Ogni oggetto rimanda a una persona, a una figura importante dalla quale ha tratto materia e materiali per le sue opere.
Il padre che le donò un bellissimo scaffaletto in legno con i botticini dei pigmenti, assecondando la sua vocazione artistica, e che gestiva una fabbrica che realizzava componenti di automobili e un modello di bicicletta, è presente anche nelle gomme e negli pneumatici sgonfi, appesi lungo un lato dello studio come pelli di animali. Camere d’aria di bici e auto che Carol a partire dagli anni Settanta ha usato ripetutamente nelle sue opere, esponendole pendenti sul cavalletto oppure sventrate, tagliate e appiattite sulla tela.
Le forme in legno per le scarpe sono quelle dello zio Edoardo, produttore di scarpe ortopediche, e stimolarono il grande amore dell’artista per questi oggetti: nella casa le scarpe femminili sono tantissime, esposte in teorie o singole, indossate una volta o mai, regalate da amici; nei suoi dipinti a volte sono l’unico indumento del corpo femminile. Le protesi per denti, anch’esse di frequente dipinte, Carol le vide nella casa di una zia a Livorno Ferraris.
Oggetti rifiutati, oggetti che servono a farne e completarne altri, per sostituire quello che manca e che si è rotto.
Scelgo queste cose, dentiere, pennelli da barba, rasoi, pisciatoi, perché sono quelli che mi piacciono di più, sono quelli che soffrono di essere così, per le quali non ci sono rimedi, possibilità di cambiare.
Oggetti usati, regalati, rubati. Tutti, in qualche modo, usciti fuori dalla griglia di funzionalità, uso e produzione a cui erano associati. Sui tavoli, sui ripiani, alle pareti non ci sono gerarchie. L’importanza dell’oggetto non è data dal suo valore o forma o tipologia intrinseci, ma dal contesto relazionale, dalla rete nella quale Carol Rama lo ha avviluppato. Dietro l’eleganza della rappresentazione, della natura morta domestica e museale (già in vita), l’accumulo di oggetti non controllabili e non controllati sembra esprimere una libera rappresentazione della sua persona, del suo sistema di affetti e di quello di cui non poteva fare a meno – un’ammissione di fragilità e di devozione, della necessità di un sistema di riferimento che è nello stesso tempo oggettuale e umano e che è fuori da ogni forma di controllo sociale.
Vestirsi in un certo modo, possedere o bramare certi oggetti, buttarne altri, spesso discende da un uso condizionato e non libero delle cose. All’interno del consueto sistema culturale e sociale di riferimento, certe associazioni non ci paiono corrette. Generalmente non appendiamo foto in cucina sopra il lavandino, ad esempio. Non mettiamo, sulla soglia del XXI secolo, capelli posticci. Né oscuriamo tutte le finestre. Nella casa di Carol Rama le associazioni tra gli spazi, l’arredo e gli oggetti (alti e bassi, preziosi e banali) appaiono invece libere, individuali, non spiegabili se non tramite il nesso – in parte perduto con la morte dell’artista – tra le cose e la sua personalissima esistenza. Una casa affascinante perché, con ogni evidenza, fuori controllo.
Il parallelo tra gli oggetti e il corpo – la rappresentazione oscena, cioè non controllata socialmente, del desiderio – viene naturale. Non tutti i corpi e non tutto quello che il corpo manifesta è corretto; controllabile, sottoponibile a formalizzazione. Questo per il corpo di una donna vale ancora di più; valeva di più nel periodo della due guerre, quando Carol Rama inizia a operare, vale di più ancora oggi. Il controllo sociale in particolare del corpo femminile è una delle massime aspirazioni dei sistemi politici e familiari patriarcali e sessisti; è consustanziale ad essi, è lo scheletro che li sostiene. Carol Rama espone il corpo rifiutato, che defeca, che desidera, che è imprigionato, che è fragile e non può essere altro da quello che è; corpi con evidenti, per quanto a volte trasfigurati, organi genitali; con la lingua rossa, in una rivalsa della sessualità che è nello stesso tempo umiliata; ma anche corpi debilitati fisicamente, malati mentali.
L’artista era solita raccontare che la sua prima mostra, allestita probabilmente nel 1945 presso l’Opera Pia Cucina Malati Poveri, fu censurata e chiusa ancor prima di essere inaugurata. Le opere degli anni Trenta e Quaranta di Rama sono state esposte per la prima volta in una personale presso la Galleria Martano di Torino nel 1979, a cui farà seguito la storica mostra collettiva a Palazzo Reale di Milano a cura di Lea Vergine, “L’altra metà dell’avanguardia”.
È da qui in avanti che ha preso forma il personaggio Carol Rama: oscena, scandalosa, sboccata; e a rimorchio le letture cliniche o pornografiche della sua opera, secondo le quali le sue supposte devianze deriverebbero dai traumi familiari (la madre fu chiusa in un sanatorio psichiatrico tra il 1936 e il 1940; il padre muore nel 1942, probabilmente suicida, dopo il fallimento della sua industria).
In una famosa affermazione, l’artista ha detto che non ha avuto maestri: il senso del peccato è stato il suo maestro. Il senso del peccato insegna non tanto a trasgredire o non trasgredire, ma a vivere laddove non può esserci controllo, nei corpi e negli impulsi e nelle azioni che non accettano di essere emarginati. Nella sua casa, in questo senso, tutti gli oggetti vivono nel peccato, perché tutti sacralizzati allo stesso modo e tutti automaticamente riscattati dalla loro vita precedente all’ingresso nella casa.
Veduta della mostra "La Passione secondo Carol Rama", GAM, Torino. Immagini tratte da klatmagazine.com
La disposizione elegante, formalmente perfetta, la cura dell’arredo e di ogni complemento, mostrano una Carol Rama diversa dal personaggio costruitole addosso e aliena da ogni intento artistico pubblico e di ostentazione; rendono evidenti la sua delicatezza, la cura dei sentimenti, l’amore per gli amici, il valore dato alla preservazione delle relazioni e all’importanza di abitare un luogo limpido, puro, gentile, al riparo; la passione per la vita, per gli altri. Una memoria di dolcezza, di amicizia, di incontri importanti (Felice Casorati, Edoardo Sanguineti, Man Ray, Andy Warhol, Carlo Mollino e molti altri) resa attraverso gli oggetti. Ad esempio, quelli allineati su un tavolo parallelo al letto, dove amava tenere a portata le cose più importanti; le fotografie, le poesie scritte per lei. Di Man Ray, conosciuto negli anni Settanta e che pare le diede il suggerimento di cingersi il capo con una treccia di capelli biondi, sono presenti molti oggetti, tra cui un pennello di tasso stretto, fatto sottile tra due plexiglass, e un braccialetto d'avorio (che a Man Ray era stato donato da Paul Eluard) che Rama con una tenaglia ha trasformato in un oggetto ready-made alla Duchamp.
Bracciale di avorio con tenaglia e dedica di Edoardo Sanguineti.
Una memoria tutta materica per difendersi dalla vita e nello stesso tempo per non uscirne mai; tutto in evidenza, a portata, a comporre una madeleine proustiana che non ha bisogno di essere continuamente riattivata, perché non si è mai spenta (o forse si spense soltanto negli ultimi anni di senilità dell’artista, gradualmente, come fa pensare il verso finale di una poesia che le scrisse l’amico Beppe Sesia: “(…) vorrei essere l’ultimo / ad essere / da te dimenticato”).
L’importanza che Carol Rama dava alla sua casa traspare da queste parole:
una casa premeditata dove gli oggetti [...] posti uno vicino all'altro [...] diventano una storia, dove la casa non è più una casa ma una scenografia, una preparazione per girare un film, il tuo film. [...]Una casa come la mia, è chiaro che ha un significato, quello di pensare alle cose, di metterle in modo giusto. Ricordo che Pavese, un giorno che era qui con Mila, si interrogava sul modo di avere una casa e io dissi che l'ordine preciso fa la signora e giustamente Pavese ridendo disse che questo significava 'non mettere il pettine nel cassetto del burro'. [...]Quelli che cambiano continuamente gli oggetti e i mobili della loro casa hanno, secondo me, una cattiva preparazione al futuro. Noi dobbiamo prepararci a giorni disperati e felici, che poi è uguale in qualche modo, dobbiamo muoverci con disinvoltura, non dobbiamo avere spazi che non sono nostri, altrimenti ci sono gli alberghi [...]Io voglio muovermi sempre nello stesso modo, certo ho aggiunto dei libri, dei giornali che parlano di me, che mi danno la misura che la mia vita precaria non è poi così precaria!
Muoversi nello stesso modo, vedere le stesse cose, con la stessa luce, ogni giorno, è un modo di vivere senza vergogna; il coraggio di essere quello che si è e si desidera, e farlo per una vita lunghissima (Rama è morta a 97 anni). Sarà per questa vitalità, per questo spirito luminoso e appassionato, che la casa non è affatto opprimente, nonostante l’assenza della luce.
Carol Rama chiamò Presagi di Birnam la sua prima opera con le camere d’aria di biciclette appese come budella, a grappoli, a un gancio: un riferimento al Macbeth e alla profezia che il re sarebbe stato sconfitto quando la foresta si fosse mossa, ovvero quando ciò che è vegetale e per sua natura quasi immobile, avesse mutato natura e fosse entrato nella sfera dell’umano. Il presagio di Carol Rama va oltre: l’inorganico (gli oggetti) che diventa organico, che è assimilabile a un corpo umano o a una parte di esso.
Rama raccontò che quando andò a visitare lo studio di Pablo Picasso a Parigi, l’artista le disse di prendere un oggetto come ricordo. Lei scelse un gancio in metallo, che reggeva gli strofinacci che Picasso usava per pulire i pennelli. A casa lo ha appeso sopra il termosifone in camera da letto, dove è visibile tuttora. L'ha riprodotto in varie copie, applicate sui dipinti a reggere le camere d'aria. La scelta di quell’oggetto (un richiamo al corpo umano, alla sessualità, ma anche a un uso di seconda classe, di servitù) non è un caso, come non lo è il fatto che nella casa sono quasi del tutto assenti gli oggetti di origine naturale.
"Mi piacevano più le protesi di mia zia che un fiore. I fiori li detesto, detesto i fiori, forse perché sono più belli dei miei quadri, più belli di me. Per un'ira che ho dentro" – ha detto Carol Rama.
Ecco, anche, perché escludere il paesaggio, la luce, la vista. Artificiali i soprammobili, artificiali le stanze, i giorni, i modi in cui scegliamo di vivere, i vestiti, la pettinatura, i gioielli che indossiamo e tutti gli oggetti che in qualche modo ci definiscono e definiscono la nostra memoria, le tappe della vita, la vecchiaia, la perdita della memoria.
Barbara Lanati per parlare di Carol Rama ha citato le parole di Marianne Moore: "La poesia è la costruzione di giardini incantati in cui tu cammini e poi trovi i rospi veri". Giardini incantati, artificiali, come luogo per proteggersi dalle angosce. "Ognuno di noi ha una malattia tropicale dentro di sé, che cerca di rimediare. Io rimedio con la pittura", ha detto Rama. Ma si direbbe che anche la casa sia stata un rimedio, anche all’essersi esposta tanto al giudizio esterno, all’aver lasciato così tanti pezzi di sé in giro. Cosa c’era di vivo e di materia, in quei pezzi, lei lo teneva in casa. Ci si stupisce di meno, allora, per le tende nere e le pareti grigie. È sì un guardare dentro di sé, ma quando nel proprio sé si annida una folta schiera di altri.
In quella che è forse la sua ultima opera, un ritratto della signora Maura, la donna che ha badato a lei negli ultimi anni di vecchiaia, e che è appoggiato su cavalletto nella camera da letto, Carol Rama ha lasciato una scritta che termina con “Grazie prego scusa tornerò”. Viene da crederle, con la consapevolezza, la certezza, che se tornerà, tornerà qui: in questa casa che è chiesa e vespasiano, fragilità e sfrontatezza, vergogna e riscatto, nero pieno di luce.
👉 Si ringrazia l'Associazione Archivio Carol Rama per la visita e la concessione delle immagini. Sul loro sito web è possibile prenotare una visita alla casa studio della grande artista torinese.
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