Calzatura Cesare Baroli.
Un vecchio proverbio piemontese recita così: A l’é mej früsté dë scarpe che ‘d linseuj, ossia “è meglio consumare le scarpe che le lenzuola”. Sembra un adagio fatto su misura per gli abitanti di Gargallo, i quali seppero applicarlo alla lettera al punto da trasformare il piccolo abitato sulle colline tra Borgomanero e Gozzano nel paese delle scarpe. La piccola Vigevano del Novarese, si diceva, il paese che ragiona “a paia”. Tutto ciò durò fino agli sgoccioli del secolo scorso, quando, cioè, le difficoltà economiche costrinsero quasi tutti i calzolai gargallesi a chiudere bottega e a orientare altrove la loro intraprendenza.
Una vecchia immagine di un ciabattino gargallese affiancata da un'immagine moderna della lavorazione attuale.
Quando ebbe inizio una simile vocazione calzaturiera, non è dato sapersi, anche se si conoscono i motivi: la presenza di concerie nella zona, la scarsa resa della terra (che, lì intorno, è perlopiù argillosa), i lunghi tempi morti dell’attività agricola. In origine la produzione avveniva in maniera artigianale e casalinga. I primi laboratori trovarono spazio nelle cucine delle abitazioni (in genere i luoghi più caldi d’inverno), dove venivano installati i deschetti, ossia i tavoli da lavoro organizzati in modo da permettere al calzolaio di avere a portata di mano tutti gli strumenti necessari alla lavorazione. Inizialmente a Gargallo si realizzavano scarpe da lavoro, in cuoio di buona fattura poiché doveva resistere nel tempo. Qui presero vita i papùcc, calzature robuste con chiodi in legno, flessibili, che facevano tutt’uno con la suola, adatte per i contadini, per chi lavorava nei boschi e in montagna. Erano gli stessi artigiani a commerciare le proprie creazioni: molti si alzavano all’alba per recarsi, con carretto e cavallo, nei mercati della zona, nelle piazze o direttamente a casa dei committenti.
Un antico deschetto del ciabattino con tutti gli attrezzi necessari alla realizzazione delle calzature e due scarponi prodotti all'interno dei laboratori di Gargallo nel corso degli anni Sessanta del Novecento.
In questa fase, si produceva al massimo un paio di scarpe al giorno, paio che prendeva forma dopo dodici ore di lavoro trascorse in mezzo a martelli, spaghi, chiodi e tra l’odore penetrante di colla e pellame. La lavorazione cominciava con la preparazione della tomaia e terminava con la lucidatura e la lustratura del fondo a cera, data con ferro caldo e sfregata col polpastrello del pollice in modo che la calzatura uscisse liscia e brillante.
Poiché i gargallesi ci sapevano fare, e l’attività si dimostrava sempre più redditizia, col tempo essa non fu limitata alla stagione invernale. Con l’arrivo della primavera i deschetti si trasferivano dalle cucine ai bordi delle vie del paese. Siccome non c’era famiglia in cui non ci fosse almeno un calzolaio, è facile capire come le chiacchiere, i lazzi e i canti dei ciabattini risuonassero in tutte le strade del paese, accompagnati dal ticchettìo degli sbroccini, cioè i punteruoli necessari a realizzare il foro per lo stecco di legno, e dalla seguente martellata che cacciava il legno nel buco stesso.
Alcuni attrezzi utilizzati dai vecchi ciabattini ora in mostra presso il Museo della calzatura. Ciascun attrezzo aveva una funzione specifica e un proprio nome, naturalmente nel dialetto locale.
Con lo scoppio del Primo conflitto mondiale iniziarono anni critici, che strapparono molti giovani gargallesi dai loro deschetti per mandarli al fronte. Terminata la guerra, negli anni Venti a Gargallo arrivò l’energia elettrica, e alla produzione nelle cucine e nelle cantine si sostituì poco alla volta la lavorazione in serie. Sorse una cooperativa fra calzolai, società che, potendo vantare la migliore manodopera locale, ebbe un inizio felicissimo. In seguito, una cattiva amministrazione la fece crollare, trascinando più di qualche famiglia in difficoltà, ma il progresso tecnologico non si arrestò, anzi permise a molti artigiani di espandersi a livello industriale. Sorsero, così, alcune tra le fabbriche di calzature più note: Monbianco, Monginevro, GGF, Baroli e molte altre.
Una simile rivoluzione, avvenuta in breve tempo, richiese nuova e numerosa manodopera che il paese, da solo, non era in grado di fornire ― Gargallo contava, a inizio Novecento, 1.000 abitanti, poi cresciuti a quasi 1.600 negli anni Ottanta del secolo scorso. I primi a trasferirsi sulle colline borgomaneresi furono veneti e bergamaschi, quindi vennero perfino dalla Sardegna, e poi ancora dalla Calabria e dal mantovano.
Due adesivi promozionali del calzaturificio GGF di Gargallo con i testimonial Antonio Cabrini e Claudio Gentile.
Dagli anni Sessanta all’inizio dei Novanta pressoché tutti i cittadini di Gargallo erano impegnati nella produzione di calzature. Negli anni del boom uscivano dal paese circa mezzo milione di paia di scarpe ogni anno, cifra che, a metà anni Settanta, lievitò a sei-ottomila paia al giorno, per un totale di oltre un milione di paia all’anno. Col tempo venne ampliata anche l’offerta: accanto alle scarpe da lavoro trovarono spazio calzature da trekking, da sci, da calcio e anche sandali e scarpe da passeggio. Fiorente era anche l’indotto: i tagliatori, finitori e orlatori di tomaie, la produzione di colori e incollanti, di tallonette e anche di scatole per le calzature.
Le ditte del luogo divennero leader mondiali in grado di esportare i loro prodotti in Europa e in America, tanto che i campioni del mondo di calcio del 1982, Claudio Gentile e Antonio Cabrini, per un certo periodo furono testimonial del calzaturificio GGF, che negli anni Settanta vantava un centinaio di operai tra gli stabilimenti di Gargallo e Borgomanero. Anche il calciatore brasiliano Paulo Roberto Falcão, allora in forza alla Roma, firmò un contratto per promuovere i modelli della Monbianco, ditta specializzata in scarponi da roccia, doposcì e articoli sportivi.
Secondo un detto inglese adattato all’italiano "più in alto si va e più rovinosa sarà la caduta". La crisi, per i calzolai gargallesi, non produsse tonfi improvvisi, ma si tradusse in una costante e inesorabile contrazione della produzione. I primi segnali arrivarono già negli anni Ottanta: la concorrenza dei prodotti orientali (cinesi, coreani e vietnamiti, in particolare, che avevano dalla loro un basso costo di manodopera), l’aumento del costo del pellame e la preferenza, da parte della grande distribuzione, del prezzo sulla qualità costrinsero buona parte dei circa quaranta calzaturifici della zona a ridurre le attività, a licenziare la maggior parte dei dipendenti e, nei casi peggiori, a chiudere i battenti. Nei primi anni Novanta tre grandi stabilimenti e decine di piccoli laboratori artigiani cessarono la produzione. La crisi complicò ulteriormente le cose per i calzaturifici rimasti poiché allontanò la manodopera locale orientandola verso altri settori, come quello della rubinetteria, comparto che ancora oggi fornisce il lavoro alla maggior parte degli abitanti del luogo.
Nonostante ciò, la produzione calzaturiera a Gargallo non è cessata del tutto, benché l’immagine poetica del ciabattino chino sul proprio deschetto sia ormai svanita per sempre. Oggi sono pochi, anzi pochissimi, i calzolai attivi, impegnati perlopiù in produzioni per conto terzi. Al momento la produzione è altamente tecnologizzata e, per non farsi stritolare dal mercato, punta tutto sull’alta qualità, unendo gli ultimi ritrovati della tecnica a creatività, tradizione e materiali di pregio.
Per celebrare i pionieri della calzatura gargallese, nel 2016 è stato realizzato un lungometraggio intitolato Ne hanno fatti di passi... i calzolai di Gargallo. L’idea di girare un film venne a Carlo Baroli, presidente del Gruppo Ecologico Gargallese e motore instancabile dietro molte iniziative del luogo. Carlo pensò di rivolgersi all’associazione Aquario 2012, organizzazione guidata da Guido Facchinetti e Loredana Lionetti e impegnata nella promozione del territorio attraverso filmati e iniziative varie. Guido Facchinetti ha curato la regia del film, mentre Loredana Lionetti si è occupata della sceneggiatura. La stessa Loredana ha giustamente definito “sociale” il film poiché “racconta il territorio, è scaturito dalla volontà dei gargallesi e infine perché gli attori sono i gargallesi stessi”.
La pellicola racconta una storia generazionale ispirata a un fatto realmente accaduto alla famiglia di Carlo Baroli. La vicenda prende avvio nei primi anni Settanta, periodo in cui il benessere era di casa a Gargallo, la disoccupazione pressoché nulla, la produzione e la vendita di calzature andavano a gonfie vele. Il protagonista del film, Carlo, ha però idee diverse rispetto al padre, proprietario di una fabbrica di calzature: non intende proseguire l’attività di famiglia per seguire i propri sogni di musicista. Inizialmente il padre è deluso e contrariato, ma una decina d’anni più tardi, allorché Carlo, ormai realizzato, torna in paese con la famiglia, ammette che il figlio aveva visto giusto: le difficoltà economiche stavano mettendo in ginocchio i calzolai del luogo, e anche la fabbrica di famiglia è in procinto di chiudere. Il figlio di Carlo, Matteo, rimane stregato dai racconti del nonno e incuriosito dagli strani attrezzi che trova in casa. Vuole saperne di più sul mestiere di calzolaio, e così viene condotto nel laboratorio dal Pinìn, decano dei ciabattini gargallesi, il quale finisce per instillargli la passione per quell’antico mestiere. Crescendo, Matteo unirà la tradizione locale con le nuove tecnologie dando vita a un calzaturificio specializzato in scarpe d’alta fascia.
Fotogrammi del film dedicato ai calzolai di Gargallo: nel primo, Pinìn (Ettore Giromini) mostra a Matteo (interpretato da Mattia Porceddu) come si produceva una calzatura al tempo dei deschetti. Nel secondo, Ermanno Baroli insieme alla sua famiglia. Baroli, deceduto nel 2017 all'età di novant'anni, era una figura storica del settore calzaturiero, titolare dell'omonima impresa fondata negli anni Quaranta.
Se il paese di Gargallo non ha ancora un motto, la seguente frase di Virgilio potrebbe fare al caso suo: Labor omnia vincit. Con il lavoro, la fatica (uniti a un pizzico di intraprendenza, aggiungo io) si viene a capo di tutte le difficoltà. Eh sì, perché prima di diventare calzolai, i gargallesi seppero volgere a proprio vantaggio una caratteristica dei terreni collinari di quelle parti, ossia la massiccia presenza di argilla, materiale che rende difficoltosi molti tipi di coltivazione. Fin dai tempi remoti, si scoprì di poter estrarre e lavorare quel materiale per trasformarlo in mattoni, coppi, vasi e altre terraglie. Un’attività che valse ai gargallesi l’appellativo di famoni: non un’offesa (la fame non c’entra, anche se all’epoca di certo non mancava), ma un riconoscimento alla loro infaticabile intraprendenza. Il termine è nato dalla fusione di due vocaboli dialettali: fa, dal verbo “fare”, e mon, voce della parlata locale corrispondente all’italiano “mattoni”.
Come l’attività calzaturiera, anche quella dei fornaciai ha conosciuto, prima, una fase artigianale e domestica, alla quale ne è seguita una meccanizzata e industriale. In principio, pressoché in ogni cortile di Gargallo c’era una fornace a pignone: mattoni accatastati con maestria e poi coperti con terra, sabbia e fango e fatti cuocere. Agli inizi del Novecento alcune fornaci erano specializzate nella produzione di mattoni e coppi, altre invece in vasellame. Ma già sul finire del secolo si era passati alla produzione in serie, quando, cioè, gli eredi della fornace Baroli avevano ceduto l’attività alla ditta Bottacchi di Novara, la quale abbandonò i forni a pignone per costruire, nel 1881, il forno Hoffman a fuoco circolante continuo. In seguito, la Bottacchi vendé la fornace di Gargallo al proprio amministratore, Lorenzo Ferraris. Questi si distinse per aver reso possibile la lavorazione dell’argilla non solo d’estate, come era sempre avvenuto, ma in ogni stagione grazie alla costruzione di locali adatti e all’acquisto di macchinari appositi. Oltre a mattoni pieni e forati, a tegole e vasellame, importante fu la produzione di refrattari realizzati con l’argilla di caolino prelevata nella zona di Pianezze. La fornace Ferraris rimase attiva fino al 1968, anno in cui cedette il passo alla produzione di calzature su scala industriale.
Per tenere viva la memoria di entrambe le attività, raccontandone nel dettaglio l’evoluzione, l’ex palazzo municipale di piazza San Pietro, all’ingresso di Gargallo, è stato adibito, al pian terreno, a Museo dei fornaciai, mentre al primo piano è stato allestito il Museo della calzatura. Mentre quest’ultimo è già stato inaugurato ed è visitabile, il Museo dei fornaciai ha subito una battuta d’arresto a causa della pandemia, anche se dovrebbe essere attivo a breve.
La storia dei laboriosi gargallesi sarà inoltre sintetizzata in un dipinto che troverà presto spazio sulla parete nord dell’ex municipio: esso sarà realizzato dalla fotografa e film-maker Ambra Guidetti e richiamerà le attività che hanno dato lustro al nome del paese in Piemonte e non solo.
👉 Ringrazio Luigi Guidetti e a Carlo Baroli, rispettivamente sindaco di Gargallo e presidente del Gruppo Ecologico Gargallese, per la cortesia e disponibilità. Un ringraziamento speciale a Guido Facchinetti e a Loredana Lionetti per avermi messo a disposizione il film sui calzolai di Gargallo.