Nel territorio compreso fra Chierese Astigiano e Val Cerrina – che per brevità designo come “Monferrato di confine” – si possono distinguere varie figure presenti nella popolazione e disporle lungo una scala di “localismo”. Vi sono persone totalmente locali per residenza, famiglia, lavoro e cultura, che tali permangono per tutta la loro vita. All’altro estremo vi è la condizione dell’esterno che, lasciata definitivamente la città, trasferisce in collina residenza e attività principale, in una sorta di “appaesamento”, che corrisponde alla riconversione del progetto di vita. Le figure prevalenti, intermedie fra queste due tipologie, si dispongono in un arco flessibile di possibilità, che combinano variamente i luoghi di origine, studio, lavoro, residenza, vita.
Le origini della bagna cauda, gli scioperi delle mondine, gli amori di Cesare Pavese, dai cercatori d'oro sui fiumi biellesi ai gavadur di Ozzano Monferrato passando per la musica occitana nel Cuneese. C'è moltissimo nel decimo numero (ingrandito) di Rivista Savej!
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Spiccano nel recente passato delle figure di “esploratori/innovatori” di vario talento: pittori, romanzieri, saggisti, giornalisti, artisti, scienziati, sociali, operatori di comunità, medici, sportivi che del territorio, anche non essendone originari, hanno saputo cogliere i pregi e mostrarne le potenzialità. Di queste figure si offre di seguito una sintetica rassegna, introdotta dal richiamo a due predecessori che, a vario titolo, hanno illustrato queste zone. Il primo fu Alberto Radicati conte di Passerano, per le sue idee di libero pensatore costretto all’esilio dal neonato Regno di Sardegna a Londra e poi ad Amsterdam, dove morì nel 1737. Il secondo, Edoardo Calvo, fu esponente del giacobinismo piemontese, sovente profugo da Torino a Cinzano ai primi anni dell’Ottocento, compose una divertente ode Su la Vita ‘d Campagna:
Com l’è mai lépida / l’è mai bagian-a, / l’idea ch’a stùssica / la rassa umana, / ch’ant le metròpoli / dov le gent vivo, / parèj dij givo, / cola sia l’ùnica, / la mej manera / ’d vive an sla tèra”.
Quanto mai è ridicola, quanto è baggiana l’idea che stuzzica la razza umana, che nelle metropoli, dove la gente vive, sussurra e brulica come i maggiolini, quella sia l’unica, la migliore maniera di vivere sulla terra!
Il tema oraziano è volto a vantaggio della rusticità semplice, contrapposta alle trame e mene insopportabili della gente di città.
Nel 1942, appena cominciati i bombardamenti su Milano e Torino con i miei sfollammo nella casetta di mia nonna materna, ai piedi del castello di Passerano. Due volte al giorno mi facevo questa strada a piedi (2 chilometri e 300 metri non asfaltati) andando e tornando dal liceo Gioberti a Torino. Nel paese c’era il castello dei Radicati con una biblioteca fornitissima. Erano libri in prevalenza francesi e inglesi. Tra i quindici e i diciotto anni lessi tantissimo. Credo non si possa più leggere come ho letto io. Ci vorrebbe un’altra guerra mondiale.
Così Carlo Fruttero ricorda la sua giovinezza a Passerano e le incursioni nella biblioteca del Castello, favorite dall’amicizia, che si protrarrà nel tempo fino all’ultimo, con i giovani Radicati, Paolo e Roberto, e con Leonardo Mosso di Cerreto. Nell’immediato dopoguerra Fruttero andò in giro per l’Europa a esercitarvi vari mestieri, alcuni assai improbabili. Poi interruppe la sua peregrinazione nel 1952 per entrare alla casa Einaudi come redattore e traduttore. Dopo l’emigrazione, da più d’uno ritenuta “stravagante”, si sposta a Milano per curare la collana di fantascienza “Urania”. Ritornò in via definitiva a Torino negli anni Settanta e con il romano Franco Lucentini compose i romanzi di culto della ex capitale d’Italia, allora capitale Fiat: la “domenica” dei primi anni Settanta e la “notte” dei secondi Settanta. Avviò poi una contemporanea collaborazione a La Stampa, punteggiata di divertimenti, fino allo stabilirsi definitivo sulla costa maremmana a Castiglione della Pescaia.
Carlo Fruttero e uno dei libri della collana "Urania".
Cultore fin dalla giovinezza di passeggiate a Vezzolano, da Passerano dove aveva casa, Fruttero fu (nomen omen) fra i fondatori del Frutteto dei Meli insieme con gli amici Roberto Radicati di Marmorito e Leonardo Mosso, al quale si deve l’impianto e la cura iniziale delle antiche varietà piemontesi, raccolte nel prato retrostante l’abside della chiesa. Sui misteri dell’Abbazia lo scrittore immagina una indagine da parte di uno Sherlock Holmes chiamato al castello di Passerano, “ospite con Watson di un conte anglofilo che è inoltre appassionato musicofilo, buon pianista” (si allude a Paolo Radicati), per risolvere il mistero delle cinque statuine mancanti sulle quaranta previste nel bassorilievo scolpito: mistero tuttora irrisolto nelle numerose dispute sulla datazione e la confezione dello jubé divisorio. Nel successivo romanzo Donne informate sui fatti (Mondadori, Milano 2006), Fruttero ambienta fra Torino, il castello di Passerano e Vezzolano un giallo urbano-rurale, che fu da lui presentato all’Abbazia nel 2007.
Anche negli ultimi tempi Fruttero non mancava di farsi vedere in quel luogo essenziale della sua vita, che era Passerano. Vi ritrovava il suo approdo giovanile, nella risalita tranquilla che conduce lentamente al borgo; dove “la valle si presenta intatta, coi suoi prati e pioppeti e distese di meliga, le sue edicole di mattoni dedicate ai santi, i suoi macchioni e boschetti”. Luogo di una bellezza inconsapevole, che richiede occhi avvertiti, capaci di vederla e riconoscerla: “si dirama a tua insaputa dentro di te come un’acqua sommamente miracolosa”. Significative le proteste che elevò nel 2008, contro l’ipotesi di insediare lì dappresso, a Fabiasco di Marmorito, il sito della megadiscarica provinciale di Asti. Aveva tradotto per Einaudi nel 1958 Excavations at Ur di Sir Leonard Woolley e nella circostanza paragonò i cacciatori di siti per discariche a degli “archeologi a rovescio”: gli archeologi veri estraggono i rifiuti del terreno per trarne sostanza di informazioni ai loro studi, mentre i “monnezzari” infilzano i rifiuti nel terreno per non farli vedere. Il timore appena accennato è che la bellezza inavvertita scompaia in fretta senza quasi lasciar traccia e che l’alluvione dei rifiuti finisca per dare materia di lavoro ad archeologi del futuro.
Il cameran-casaschese Angelo Gatti (La terra. Racconti del paese di Camerano, Mondadori Milano,1939; Il mercante di sole, Mondadori Milano, 1942) disegnò con empatia sorridente usanze e figurine del paese, dove si era ritirato dopo una carriera da ufficiale dell’esercito italiano da cui trasse un notevole Diario di Caporetto, ristampato per il centenario, e di accademico d’Italia. L’andezenese Guido Ceronetti, gran traduttore, saggista di sulfurea provocazione e cultore di un teatro di marionette di sua originale invenzione (La Jena di San Giorgio ne è la pièce più nota) nel suo Albergo Italia (1985), stilla quieta disperazione per le deformazioni del Bel Paese, “Italoshima morale”, non senza incursioni su brutture e paradossi del suo Piemonte. L’astigiano Giorgio Faletti, artista di poliedrica vocazione, rese popolare negli anni Ottanta la gag televisiva del Carlìn, ragazzotto sprovveduto di Passerano Marmorito.
Andavo a trovare degli amici da Asti a Castelnuovo don Bosco e ogni volta che passavo davanti al cartello Passerano Marmorito mi dicevo: questi qui, quando devono scrivere le cartoline agli amici rimasti al paese, hanno il crampo alla mano e rimpiangono di non essere di Bra. Così per caso è nata la gag di Carlìn. Certo anche questo è un mondo che scompare.
Proprio da Bra echeggia la voce di un vero Carlìn, Carlo Petrini, che ha portato notorietà e prestigio di Slow Food a Capriglio, dove chi coltiva e promuove l’antica varietà di peperoni vorrebbe fare di quella “comunità del cibo” il perno di una agricoltura rinnovata, socialmente più coesa e lungimirante. Anche per il frutteto di Vezzolano Petrini ha un apprezzamento all’idea vincente di realizzare “quel continuum arte-natura-paesaggio-attività umane, che è la vera chiave della tutela ambientale” (Gente del Piemonte, Biblioteca Repubblica-L'Espresso).
Pietro Carlo Mosso, nato a Cerreto nel 1893, ingegnere e assistente alla cattedra di Logica dell’Università di Torino, aveva fatto parte del Comitato di studio per i Consigli di fabbrica (un suo studio su Il sistema Taylor e i Consigli di produttori fu pubblicato in cinque puntate, dal 25 ottobre al 22 novembre 1920, su L’Ordine Nuovo di Gramsci). Col fascismo al potere, Mosso si ritirò da ogni attività politica e si specializzò, quale piccolo imprenditore meccanico, nella lotta contro i gas bellici e di miniera, costruendo speciali dispositivi che ebbero larga richiesta di installazioni in Italia e all’estero. Durante la Guerra, ritornato a Cerreto, fu commissario prefettizio di quattro comuni dell’area dove organizzava cooperative contadine molto seguite. Cadde vittima il 29 gennaio del 1945 nei pressi di Settime del mitragliamento della vettura, in cui aveva accompagnato don Josè Molas dal Colle don Bosco ad Asti, per trattare con i comandi germanici.
Il figlio Leonardo Mosso è stato insegnante al Liceo artistico, pittore dei mondi contadini con le suggestive immagini di piccole cose avvolte di affettuosa simpatia. A Vezzolano ha adornato le stanze dell’Abate con “caravaggeschi cesti di mele” (P. Salerno), allineando i banchi della scuola di un tempo con le ciotole di alluminio, sottratte all’abbandono, delle refezioni scolastiche dell’infanzia.
Questo piccolo mondo, perduto e rimpianto, lo si ritrova negli ambienti in miniatura – la scuola, la bottega, la farmacia, la cascina – che Anna Rosa Nicola ha composto negli ultimi anni per i suoi presepi. Lavoro di certosina pazienza e grande fantasia, dove brillano la sapienza artistica e la pratica artigianale del Laboratorio Restauri, che ad Aramengo il padre Guido Nicola ha fondato e portato a rilevanza internazionale. L’Associazione “Guido Nicola” per il restauro ne conserva l’eredità e la lezione.
Da ricordare infine, fra i pittori di grande reputazione, Felice Casorati, un maestro dei “Sei di Torino”, che aveva a Pavarolo casa e studio oggi trasformati in museo, e Sergio Saroni – direttore dell’Accademia Albertina di Torino – che a Passerano ha dedicato squisiti acquerelli con scorci di vigne, colline e borghi.
Figura atipica di giornalista-artista è stato il chierese Cesare Roccati, classe 1942, figlio del pittore “Vigin”, che gestiva con la famiglia “La Stasiòn” di Chieri: un locale che nei mitici anni Cinquanta si riempiva, di sera e fino a notte tarda, di artisti, giornalisti e perditempo vari. Roccati, animatore alla Gazzetta del Popolo dell’autogestione nei primi anni Settanta, decenni dopo scendeva a Castelnuovo da Ranello (una frazione discosta in uscita verso Gallareto), dove nel suo multicolore arsenale-laboratorio si esercitava con materiali poveri ma pieni di spruzzi di colore, a comporre oggetti e scene estrose e improbabili. Delle sue opere dai tratti ironici, talvolta malinconici – l’Emigrante con la valigia, segno di tante vicende italiane e di queste zone; il colorito Paesi miei, che figura nella copertina della sua storia curata dal figlio Gigi regista – faceva sovente dono generoso agli amici, non come oggetti da esibire, ma come inviti all’attenzione, se non fossero veri e propri consigli di vita senza prosopopea o retorica.
Giuseppe Conrotto, nato nel 1935 a Milano e genovese di formazione, era figlio di un campione del tamburello nativo di Cocconato. Denominato localmente “il professore”, ha fondato e animato a Cocconato una società di progettazione e design, attiva su larga scala. A Cocconato si è adoperato alla risistemazione del grande orologio della torre – il cui dispositivo meccanico fatiscente e in via di smaltimento era stato recuperato e ripristinato dal meccanico Alutto – ne ha disegnato una forma neomedievale, dai congegni e ingranaggi a vista, che fa bella mostra di sé presso la piazza centrale del paese: una “macchina del tempo” perfettamente funzionante.
Nella collina che digrada in prossimità della sua casa laboratorio, Giuseppe ha fatto nascere un ampio Parco Forestale (“L’Alberone”), con centinaia di piante autoctone censite da competenti botanici, segnalate con informazioni naturalistiche e agronomiche e distribuite su percorsi segnati da stazioni di sosta e avvistamento. Al suo Parco si è dedicato con grande passione e assidue cure, fino agli ultimi istanti della sua vita. Ne ha fatto un luogo aperto per la popolazione locale e il turismo ambientale e percorribile liberamente, dalla parte alta e nella zona in basso, dove un laghetto demarca l’apertura per chi scenda dal lato opposto della collina di Cocconato. Un richiamo al mare della giovinezza, in terre che – come mostrano i reperti fossili della geologia – sono state in ere lontane “valli del mare”.
Annibale Crosignani, originario di Piacenza, studiò medicina a Torino e fu direttore degli Ospedali Psichiatrici di via Giulio e di Collegno, negli anni travolgenti della chiusura dei manicomi. Dagli anni Novanta ha trovato in Pino d’Asti il suo buon rifugio, simile per morfologia collinare al Piacentino d’origine, vicino al Colle di don Bosco fondatore dei Salesiani “presso cui mi ero formato”. Camminando diuturnamente in un piccolo raggio (dieci/quindici chilometri dalla sua casa) come un Wanderer d’antichi tempi Annibale ha avuto modo di visitare le chiese romaniche, i paesaggi, i boschi, i vigneti, i siti gastronomici e alla fine “mi sono sentito legittimato a considerare Pino d’Asti la mia patria adottiva”. È diventato nel 2022 cittadino onorario del piccolo borgo a cui ha dedicato decenni di frequentazione discreta e fedele.
Un viaggiatore singolare, che ancor oggi si ha modo di incontrare per le colline, è l’ingegner Carlo Cornaglia, che dopo una carriera manageriale torinese si rilocalizzò ad Albugnano, e scoprì in età provetta una vena di poeta satirico di notevole efficacia e largo successo. Camminatore instancabile e immancabilmente quotidiano, Cornaglia ha compiuto più volte il giro del mondo (in chilometri) con diuturna fatica, ma senza allontanarsi troppo da casa.
Sulle due ruote scorre la vicenda di Nino Defilippis, detto ‘l cit, nato a Torino nel 1932 da padre pugliese, originario per parte di madre di Berzano di San Pietro. Da bambino Nino era spesso a Berzano San Pietro, dove frequentò due anni di scuola elementare in tempo di guerra, e continuò a venire a trovare parenti, amici, il sarto di fiducia. Fra i tanti momenti della sua carriera sportiva si segnala in particolare la tappa Gap-Torino del Tour de France 1956 perché Defilippis aveva deciso di partecipare proprio per quell’arrivo a Torino. Lungo il percorso di montagna riuscì, pur non essendo uno scalatore, a non farsi staccare e restare alla testa della corsa. In vista della torre Maratona dello stadio torinese, dove la tappa andava a concludersi, entrò di scatto per primo sulla pista d'atletica del Comunale con la maglia tricolore della nazionale italiana. "E lì ci fu un boato spaventoso, un rumore mai sentito né prima né dopo né mai. Adesso ho una forza incredibile": riferì ‘l Cit, che attacca la volata in testa sulla pista di atletica che non ha le curve sopraelevate e non lo passano più. Conclusa la carriera nel 1964, fu poi commissario tecnico della nazionale di ciclismo, imprenditore nel settore dell'indotto auto e titolare di un rinomato pastificio. Berzano (dov’è sepolto dal 2010) ha mantenuto a lungo la bella consuetudine di essere punto d’arrivo di una corsa per giovani allievi corridori, impegnati in un trofeo a lui dedicato.
Ciclisti d’altri tempi furono Luigi Marchisio di Castelnuovo che vinse nel 1931 il Giro d’Italia e Mario Ghella di Chieri che si impose nella velocità su pista alle Olimpiadi di Londra del 1948. Ghella andò poi in Sud America, emigrante di tempi in cui lo sport manteneva ancora i caratteri dell’avventura, con una pista smontabile su cui teneva le sue esibizioni. L’avvento della meccanizzazione motoristica vide poi nuove avventure: Paolo Deideri di Castelnuovo, meccanico di eccellenza, costruì un prototipo di vettura da corsa, oggi acquisito dal torinese Museo dell’Automobile, e una curiosa simil-biga a motore elettrico, con cui viaggiava a bassa velocità per il paese. Un antecedente pionieristico degli attuali monopattini, che gli valse l’affettuoso soprannome di Ben Hur.
Scendendo nella dorsale verde che unisce Albugnano a Pino si incontra il borgo di Pino d’Asti dominato dal Castello, che fu prima dei Freylino poi degli Scozia e dei Viani d’Ovrano e dei De Rege. Arrivato negli anni Settanta da Milano, il sociologo dei consumi Giampaolo Fabris si adoperò alla paziente ricomposizione del Castello nei due corpi di fabbrica che ne distinguono le parti, medievale e barocca, e gli annessi giardini.
Pino si segnala anche per l’interesse archivistico e memoriale piuttosto insolito per la storia del primo Novecento nell’area. Una ripresa di attenzione si è avuta nel 2016 con la Mostra per i settant’anni della Repubblica italiana e lo spettacolo teatrale Io ancora mi ricordo, che il regista Giulio Berruti ha dedicato alle vicende della sua famiglia, divisa fra Piemonte, Africa orientale italiana e Resistenza del ‘43-45. Quei momenti videro a casa Berruti l’insediamento del gruppo “Giustizia e Libertà” di Oreste Gastone, detto Alberti, Ferdinando Burlando, Giorgio Rolli, Riccardo Vanzetti, comandante del Gruppo Mobile Operativo, Giorgio e Fulvia Berruti e la madre Rina Melano, Gabriele Berra. La storia maggiore si unisce alla memoria documentale di vicende più tipicamente locali: colorite o tragiche, come il “delitto del borgno”, che negli anni ‘46 e seguenti suscitò vasto interesse giornalistico (“a Pino si chiamano tutti Berra…” scrisse il cronista dell’epoca). Vicende che tutte meriterebbero di essere raccolte e sistemate in piccoli musei di storia e cultura locale, utili anche per offrire a residenti visitatori e turisti un primo sguardo d’insieme sulla realtà dei borghi che abitano e frequentano. Una presentazione chiamata a rimuovere l’immagine, in fondo deprimente, che oltre al cibo e al vino null’altro di interessante questi paesi abbiano oggi da offrire.