Le onde collinari del basso Piemonte sono sempre state anche le “colline in pugno”: il balun, il gioco, il divertimento per antonomasia della cultura contadina e della Langa della tradizione. Il balun esalta le doti rusticane della forza, del colpo d’occhio e dell’astuzia ed evoca piazze gremite di gente, palloni velenosi, finestre che si aprono e si chiudono per favorire il giocatore di casa. L’anima del balun è la sfida, che incarna l’acceso campanilismo tipico di queste terre. Pertanto, i giocatori, nell’immaginario popolare, rappresentano il paese, la terra, la comunità e diventano guerrieri nella difesa o conquista della “caccia”. Vincere sulle piazze o nelle contrade dell’avversario-nemico è quasi impossibile: la gobba sul muro di una casa, i contrafforti di una chiesa o di un castello, un cornicione o un davanzale, i coppi, rappresentano altrettante insidie e opportunità. Quando non basta, ci si mette anche la gente del posto, con provocazioni assortite, con la vicinanza fisica. E, per vincere, allora, non è sufficiente dar forza di pugno sulla palla.
Il popolare e campestre gioco, infatti, ama le piazze, cerca alte mura per l’appoggio e, di conseguenza, trova le chiese, i castelli e le case più aristocratiche. Ne scaturiscono curiose questioni che, in pieno stile ancien régime, vedono il clero e la nobiltà di paese contrapporsi al popolo. Vere pagine di storia, attraverso le quali si possono raccontare i secoli e seguire il progressivo processo di affrancamento delle genti contadine di Langa e Monferrato nei confronti del potere fondato sul privilegio di nascita.
La desolata rassegnazione con cui il parroco di Castiglione Falletto, nel 1787, informa il vescovo di dovere molte volte ritardare le sacre funzioni o di dover cominciare “con ben pochi”, mentre davanti alla chiesa si gioca, è il segno di una società contadina che cambia ed è ormai sorda a tanti anatemi. A Novello, ad esempio, fin dal 1872, con un apposito articolo del regolamento di polizia urbana si proibisce il gioco delle bocce e del balun nelle pubbliche vie e piazze e specialmente nei giorni festivi: ma con quali risultati abbiamo già visto. Anche a Verduno, lamentandosi “un'evidente molestia e pericolo per i viandanti in ispecie per le donne e per i ragazzi” per via del balun, nel 1914 se ne proibisce la pratica nelle vie centrali del paese “nel tempo delle funzioni religiose e nel tempo fra l’andata ed il ritorno della popolazione dalle stesse funzioni, come pure in ogni occasione di insolita affluenza del pubblico”.
Intorno al balun, dopo il balun, c’è dunque la festa contadina, con tavole ricche di piatti, di convivialità, di assordante bellissima confusione, sovente l’unico divertimento per le nostre genti contadine. Ma anche per il più popolare gioco della società agricola di Langa arriva il momento della resa: confinato negli sferisteri per far libero spazio alla lambretta e alla macchina, il gioco delle piazze perde il contatto con i suoi palcoscenici preferiti e con la quotidianità del paese e, di conseguenza, non sa assorbire la crisi dei modelli culturali contadini del secondo dopoguerra. Gli unici a tenere in vita e a continuare a fabbricare la pregiata alchimia di colla e gomma per la Pallapugno sono i figli di Edmondo Stroppiana di Gallo d’Alba: da ottanta anni la ditta MONDO. Quella che oggi è la fornitrice delle piste di atletica leggera, con tutti i suoi record, nelle Olimpiadi dell’era moderna.
Il cofanetto celebrativo per i settant’anni della ditta conteneva un pallone di pallapugno firmato da Ferruccio Stroppiana per la storica partita rievocativa in piazza del Duomo ad Alba nell’autunno 2018, ne è stato l’autentico ricordo. Lui stesso spiegava che benché figuri come disciplina associata al Coni e con regolari campionati nazionali, il pallone elastico risulta praticato quasi esclusivamente tra il basso Piemonte e la Liguria. Nei paesi di Langa e Monferrato, condizionati dalla mancanza di ampi spazi, è praticato soprattutto nella variante “alla pantalera”. Chi bagna il pugno “sbilancia” la palla, che corre più veloce, accrescendo la difficoltà di chi deve respingerla. Ovviamente più si appesantisce il pugno, più si irrobustisce il colpo. Le vittorie e sconfitte sono i successi e gli insuccessi dei battitori. Dietro il gioco ufficiale c’è tutto un mondo più colorito di mille piccoli eroi di campanile, di sfide paesane, di astuzie, di intrighi. Il gusto della sfida riflette il carattere delle colline che vuole stupire e stupirsi anche soltanto una volta nella vita. La gloria di ogni giorno viene ricordata dal piccolo eroe di campanile per il bisogno di sentirsi qualcuno. Così raccontava Ferruccio Stroppiana:
Un giorno venne da noi, nel nostro laboratorio, il giovane Augusto Manzo divenuto poi il campionissimo del pallone elastico. Ci pregò di studiargli e di approntare un pallone molto più adatto al gioco di quello che si usava in quegli anni: più elastico, morbido e meno duro, che avesse un bel rimbalzo, visto che noi trattavamo i derivati della gomma. Allora gli unici palloni adatti per il gioco venivano fabbricati in città ma non soddisfacevano i giocatori, noi provammo e riprovammo con tante miscele finché raggiungemmo la giusta elasticità della piccola sfera e con Manzo soddisfatto fummo soddisfatti anche noi e giunsero le prime commesse importanti. Quegli ingredienti e quella miscela di gomma durano ancora oggi.
Questo è uno sport del basso Piemonte che si distingue come elemento di spicco, di forte vitalità e richiamo sulla gente di Alba e dell’albese fino alla Liguria. Ma definire “sport” il balun a pügn, almeno per quanto riguarda questo territorio, non credo sia totalmente corretto e significativo. Nei paesi che circondano le colline al di qua e di là del Tanaro, era soprattutto il gioco della tradizione, era puro divertimento. Bastava avere a disposizione uno spazio anche esiguo, come poteva essere il cortile di un’osteria o di un albergo, per soddisfare la voglia matta di dare un pugno al pallone, vederlo volare lontano, mandarlo con destrezza nell’angolo giusto da dove l’avversario non riuscirà più a ricacciarlo. La partita al pallone, per un’ampia fascia della nostra gente, era il momento massimo di aggregazione sociale, l’occasione propizia per dimostrare ciascuno la propria capacità e la propria bravura, non ai fini di un’ipotetica classifica materiale, bensì unicamente per crescere nella stima altrui e sentirsene pienamente gratificati. Al giorno d’oggi, vuoi perché la sua spettacolarità è ritenuta inferiore a quella di altri sport in voga, vuoi perché le giovani leve non v’intravedono le spettacolose carriere e gli strabilianti guadagni che questi promettono, la Pallapugno, nelle nostre città ha perso parte del fascino ad un tempo.
Cancello d'ingresso del Mermet di Alba e partita giocata all'interno (anni '50 ca.).
Oggi lo si gioca con la mano bendata. Nel medioevo fece la sua comparsa quel curioso arnese di legno, scolpito in superficie a punte e a teste troncopiramidali, detto “bracciale” o anche “busuolo” e da altri “manopola”, nel quale il giocatore infilava la mano usata per colpire la palla. Da esso prende il nome la specialità “al bracciale” che, con poche trasformazioni e grandi fortune, accompagnò l’evoluzione del gioco durante i secoli che vanno dal Rinascimento al primo Novecento. Ma quando dovette cedere ovunque il passo agli sport emergenti: ciclismo, ginnastica, atletica e football – versione anglosassone moderna assai simile al “calzo” fiorentino già in voga nella Firenze medicea –, qui da noi, sulle colline e nelle piane del basso Piemonte, come sui colli ripidi della confinante Liguria di Ponente, fu soltanto più Pallone Elastico.
Alba è stata una delle sue roccaforti e, per oltre cinquant’anni nell’ultimo secolo, la sua indiscussa piccola capitale. Oggi stenta invece a riconoscersi tale. Il vento è cambiato. Tira implacabile quello degli sport televisivi, dell’omologazione di massa.
I campioni del più recente passato sono Augusto Manzo, Felice Bertola, Massimo Berruti. I campioni di oggi del Pallone Elastico sono costantemente sulle pagine sportive dei nostri giornali locali. Ricordiamo qui i tre giganti del passato nella memoria costante e ben presenti nell’immaginario di tutti. Sicuramente Monferrato e Langa che uscivano dalle pagine dei libri di Giovanni Arpino, dalle fotografie di Agnelli, Masera e Cavallero sono immagini evocative. Augusto Manzo si è guadagnato un monumento tutto suo, bello e particolare, situato nel centro della città di Alba ad opera dello scultore Sergio Unia.
“quando Augusto Manzo, cedendo all’insistenza del tempo, si slaccerà dalla mano la benda e annuncerà al popolo delle Langhe di aver finito di battersi", paventava Bruno Raschi su Tuttosport, “il pallone senza Manzo sarà un assurdo. Ci sarà Balestra, è vero, ma sarà un assurdo lo stesso così come il ciclismo il giorno in cui, pur restando Coppi, perderà Bartali".
A scongiurare l’assurdo temuto da Raschi provvederà anche stavolta l’imponderabilità del Fato, che sotto quel lembo di cielo di Langa prese a far piovere, or sono settanta e passa anni fa, goccioloni di saperi, doti e magiche virtù, inconfondibili a chi sa di pallone per provata esperienza sul secondogenito dell’oste di Gottasecca. Di nome Felice di cognome Bertola e stranome Caramba.
A partire dagli anni Sessanta, mentre colorite beat generation di mezzo mondo usavano mettere “fiori nei propri cannoni” per portare “l’immaginazione al potere”, a Felice Bertola basterà la naturalezza del gesto innato per dettare legge e strapotere in terra da balun, strabiliante per potenza, precisione, fantasia e perfezione estetica.
Poesia e musica per schiere di cuori sognanti e innamorati: Alba, sferisterio Mermet, una sera di fine agosto del 1970: “Ho sognato di battere Bertola” canta un ragazzo al primo e unico Festival della canzone del Pallone Elastico. Nessuna concessione al rock modaiolo, tutto rigorosamente folk. Il motivetto vince il Festival. E Bertola campione resta a lungo, tanto che “Passano gli anni, si susseguono i campionati". Qualcuno osa scrivere, “Ma sul regno dell’asso di Gottasecca non tramonta mai il sole”, scomodando paragoni niente meno che con la storia. Questa come ben sappiamo non fa sconti nemmeno al più potente degli imperi. A far suo il sogno impossibile, smentendo categoricamente l’assurdo del giornalista Bruno Raschi di cui sopra, sarà infatti un ragazzo di Canelli “dal volto affilato, che porta gli occhiali e fa pensare ad uno studente di college statunitense" che da tempo gli sta insidiando il trono. Davanti a platee adoranti ora divise esattamente a metà, peregrinanti in massa dietro ai due eroi, l’anima delle colline in pugno, pazza d’amore per il pallone primigenio dei padri, nonostante che il boom economico e l’urbanizzazione accelerata delle campagne avesse inevitabilmente incrinato il costume originario di vita, è Berruti che fa sognare e fa scommettere!
Il marìn è il vento di collina. Arriva dal mare. È un vento fastidioso, ma nel risalire le valli e nello scollinare le colline, perde forze. Quando scende sui vigneti li accarezza. Pertanto porta sogni di mari, di porti e di fughe, ma non sradica la gente, costringendo nell’eterna dualità a scegliere tra la collina e l’altrove. Chi è partito, chi parte, vive poi nel melanconico desiderio di tornare. Chi è rimasto, chi resta, vive poi del malinconico rammarico di non essere partito. Questa è la sottile poetica tristezza degli sguardi delle Langhe che toccano il cielo.
Massimo Berruti è figlio di quest’anima. Da ragazzo, a Canelli, inseguiva l’America, fulminato dalla Pop-art e dai pionieri del rock and roll. Poi, fra Piemonte e Liguria, a giocare con il cielo: aerei e parabole contro terragne traiettorie. Oggi ancora nella sua Canelli dipinge e immagina spazi siderali con pianetini sferici e altri mondi con sensuali donne pulsanti come una “caccia” decisiva, tale da farlo invidiare ai migliori artisti contemporanei. Lui è presente nei grandi allestimenti di arte contemporanea. Una vita tutta completamente libera, ma tutta rigorosamente delimitata dei perimetri: dalla famiglia, dallo sferisterio, dal foglio da disegno.
La vita di Massimo Berruti è stata tutta una sfida: contro le maestre che bacchettano fino al sangue il suo mancinismo; contro il fisico troppo esile per uno sport di titanica forza; contro il grande Felice Bertola; contro le volgari traverse, contro la trombosi al braccio destro che quasi l’uccide quando all’apice della gloria; contro le sentenze della scienza medica che gli negano la carriera agonistica; contro le convenzioni sociali… contro le chiusure culturali. Una vita indomita, che sa perdere ma non conosce la resa come quando in una epica partita sul punteggio di 10 a 6 e 30 a 0 per Bertola con i suoi fans che già sfollavano delusi, trovò una battuta ad effetto che mette in crisi il rivale e non gli lascia più nemmeno un “15”, il trionfo! Che sa onorare l’avversario perché non perdona la slealtà, che sa giustificare gli errori dei compagni ma nulla concede a se stessa.
E poi nel gioco della Pallapugno c’è la scommessa. Un elemento insito nella storia del pallone, una leva d’entusiasmo nella gente langarola. La partita senza l’azzardo di un qualcosa che non sia soltanto la vittoria, della cena per gli amici o della più strampalata stramberia, nelle Langhe e nel Monferrato non verrebbe mai disputata, o perlomeno sarebbe disertata da quel pubblico che fa il mondo del pallone elastico.
Al pari c’è gente che affida a una bolletta dei “rossi” o dei “blu” il guadagno della vendita del vitello, il ricavato di una nottata alla ricerca di tartufi, la brenta di vino buono, ieri come oggi. Ed è pure pronta – se la sua squadra consente di raddoppiare la posta – nel lautamente contraccambiare il suo giocatore con moneta sonante e subito. Il rischio è nella natura dell’appassionato di questo sport, e nessuno assume toni drammatici quando un falso rimbalzo, un ricaccio serrato, mette in pericolo il piccolo gruzzolo. È la legge del pallone alla quale i più s’inchinano, contenti oggi se hanno “visto” giusto nello scegliere un colore, o soltanto crucciati se il loro campione non ha vinto. Mai deluse, perché delusione non vi può essere che domani è già nuovamente pronto, con moneta sonante, a fare la sua scelta tra i rossi e i blu, fra colui che dovrà diventare un personaggio o che continuerà a rimanere soltanto un giocatore.
In una terra, dove lo spazio è limitato, dove la gente per una congenita tradizione è legata, almeno nelle usanze, alla vita della comunità; dove la finanza talvolta doveva fare a pugni con le esigenze quotidiane della famiglia, soltanto un “gioco” fatto di poche cose indispensabili – un pallone, una fascia di tela, un pezzo di guttaperca – poteva fermarsi e trovare i suoi cantori.
È la leggenda del pallone elastico che continua. Non potrebbe essere diversamente in una terra che ha visto i primi coraggiosi prodromi sulle piazze grandi di paesi e città, dinanzi alle facciate severe di chiese e municipi; in una plaga dove ogni altro sport deve inchinarsi alla popolarità del gioco monferrino e langarolo. E ancora oggi nelle osterie di paese si ricordano le gesta di campioni come Gioetti, Rossi, Castellino, Silvestro, Balestra; ostentazioni che lasceranno poi il campo negli anni Sessanta a Corino, Defilippi, Delpiano, Sardo, Gallo, Alemanni, Bertola, Galliano, Ascheri, Manini, Gili. Ebbene per tutti questi fremevano gli sferisteri, s’acuivano i diritti di campanile, s’infiammavano le opposte fazioni sostenitrici. L’anima antica delle colline del basso Piemonte sta anche e soprattutto lì.