Il lupo, miglior nemico dell'uomo

Cronache piemontesi di una guerra lunghissima

Nata eporediese nel 1987, attualmente torinese, in futuro verosimilmente vagabonda. È biologa per formazione e comunicatrice per passione: progetta laboratori didattici e si occupa di educazione ambientale. Cammina per boschi, colline e laghi, fotografa piccole piante infestanti e scrive su un blog. Desidera visitare tutti gli ecosistemi del pianeta, a partire da quelli sotto casa.

  

Le guerre che studiamo a scuola hanno nomi e date: battaglie, territori persi o conquistati, sconfitte e vittorie. Esistono però, accanto a quelle che riconosciamo come tali, guerre combattute senza che alcun cronista tenga traccia della cronologia o delle strategie; a volte senza che nessuno si renda conto che di guerra, in effetti, si tratta.

Il conflitto che da millenni oppone l’uomo al lupo ha tutte le caratteristiche di una guerra: è il tentativo, deliberato e strategicamente strutturato, di annientare un gruppo percepito come nemico dalla maggioranza della popolazione degli aggressori. E soprattutto, come ogni guerra, è stato accompagnato da una serie di narrazioni tendenziose quando non false: in parte per giustificare noi, gli aggressori – “i territori occupati dai lupi ci servono per espandere lo spazio vitale di cui l’uomo ha diritto” –, in parte per demonizzare l’aggredito, che “mangia i nostri bambini” ed “è intrinsecamente crudele”.

Il disegno del lupo di Kevin Pennacchia, giovane artista albese.
Il disegno del lupo di Kevin Pennacchia, giovane artista albese.

Cause ed eventi scatenanti

Le origini di un conflitto così lungo si perdono in lontananza: è una guerra che ci accompagna da sempre, interiorizzata a tal punto che fatichiamo a riconoscerla come tale.

Il lupo è più antico di noi, ma non di molto: in termini evolutivi siamo entrambi specie piuttosto giovani. Mentre i nostri antenati mutavano differenziandosi dagli altri mammiferi, diventando primati, ominidi, australopitechi e poi homo, quelli del lupo facevano lo stesso passando nel Paleocene per il creodonte – il primo mammifero dotato di denti adatti alla masticazione della carne –, per il miacide, l’antenato di tutti i canidi grande quanto una faina; per il cinodotto, le cui lunghe zampe consentivano di marciare a passo regolare nelle fitte foreste dell’epoca. Sette milioni di anni fa compaiono le prime specie di canis, che due milioni e mezzo di anni fa hanno colonizzato l’intero emisfero boreale: Europa, India, Pakistan, Giappone, America. All’inizio del Pleistocene, un milione di anni fa, compare in Eurasia il lupo grigio: Canis lupus, progenitore di tutte le sottospecie odierne di lupo tra cui quello italiano, Canis lupus italicus.

Come noi, il lupo è un animale di grande successo evolutivo, capace di adattarsi a climi e ambienti diversi: e quando trecentomila anni fa homo sapiens fa la sua comparsa è necessario fare i conti con lui. All’inizio la convivenza è pacifica: sia l’uomo sia il lupo sono cacciatori, ma per millenni c’è spazio per tutti. Addirittura, intorno ai quattordicimila anni fa, i contatti tra gli uomini e i lupi si fanno più stretti e sembra aprirsi lo spazio a un’alleanza: forse gruppi umani e branchi collaborano nella caccia, forse semplicemente i lupi si avvicinano agli accampamenti per nutrirsi della carne cacciata e non consumata. In ogni caso, i discendenti dei lupi che allora scelsero la compagnia degli uomini, passando attraverso la domesticazione, sono ora il migliore amico dell’uomo: il cane.

"Il lupo è davvero pericoloso per l'uomo?" - La ricercatrice Francesca Marucco (Project Manager di LIFE WOLFALPS EU) risponde ad alcune domande inerenti la convivenza tra uomo e lupo.

Per chi rimane selvatico, però, le cose vanno diversamente. Gli insediamenti umani si espandono, gli habitat si sovrappongono; iniziano i problemi. L’abilità predatoria del lupo non è più un’opportunità ma una minaccia. L’uomo, da cacciatore che era, è diventato soprattutto un allevatore: il lupo no, e tra le sue prede rientra fatalmente il bestiame che pascola le terre un tempo sue e ora rivendicate dall’uomo. La competizione si fa più aspra man mano che l’uomo occupa capillarmente il territorio, civilizzandolo: lentamente il lupo diventa un simbolo di ciò che è rimasto selvaggio, della vecchia strada ormai abbandonata.

Nel Medioevo, l’uomo ha occupato tutte le zone di pianura e per la prima volta si spinge in massa verso le aree montane, le uniche rimaste al lupo: dopo millenni di tensioni, il conflitto contro l’antico alleato subisce l’escalation definitiva. Sarà una guerra sempre più sbilanciata: nei secoli, l’uomo passerà dai bastoni e dalle esche avvelenate alle armi da fuoco, dalle trappole ai mirini telescopici. E mentre il massacro si fa sistematico, razionale, coordinato strategicamente a livello statale, le storie iniziano a raccontare del lupo cattivo, del lupo mannaro, del loup garou.

Lupo nel Parco naturale Alpi Marittime (Foto A. Rivelli - © Archivio APAM)
Lupo nel Parco naturale Alpi Marittime (Foto A. Rivelli - © Archivio APAM)

Un animale elusivo anche nelle cronache

Il lupo è una delle specie più conosciute in Italia, ma anche una delle più elusive e difficili da studiare.
Piero Genovesi, responsabile coordinamento fauna selvatica ISPRA

Il Piemonte è un osservatorio privilegiato per riannodare i fili di questa guerra sconfinata. Qui il lupo era stato sterminato, come quasi ovunque altrove, ma è riuscito a tornare: nel Cuneese, per la prima volta dopo quasi cent’anni, le Alpi hanno rivisto il predatore che per millenni ne era stato il padrone.

Quella con il lupo non è mai stata una guerra come le altre: il nemico non era umano, dunque non valeva la pena tenere memoria del sangue versato. Bisogna quindi spulciare gli archivi nelle note a margine e nelle annotazioni di colore, sfogliare i commi secondari dei Decreti Regi cercando le taglie riconosciute per ogni cattura certificata. Bisogna ascoltare ciò che si dice in giro: leggende spaventose ancora narrate per vere, a testimonianza della paura che il nemico lupo ancora oggi suscita nell’uomo, che pure lo ha annientato. Attraverso voci e documenti, possiamo tracciare la storia di un antico alleato caduto in disgrazia.

Dopo il Medioevo, mentre nel resto d’Europa il massacro ha già assunto le proporzioni di una persecuzione razionale e organizzata, il lupo continua a essere diffuso abbastanza capillarmente nei territori perlopiù boscosi e mossi del Piemonte. Viene citato negli Statuti comunali dei paesi della collina torinese, nelle Langhe a sud-est di Asti. È presente sull’Appennino Ligure in almeno due aree: al limite con le Alpi Marittime e a nord di Genova. È presente nelle aree pianeggianti della baraggia vercellese, all’epoca terre remote ricoperte da un impenetrabile sottobosco.

Fino ai primi decenni dell’Ottocento, è segnalato tra Biella e Rovasenda, tra il torrente Elvo e la campagna di Novara, e poi, passando per il monte Mars, verso la valle di Gressoney e la Val d’Aosta. Le fonti lo segnalano nei boschi planiziali intorno a Torino: Caselle, Venaria e Stupinigi. Dove non vi sono tracce esplicite, come nelle valli valdesi e in alcune valli cuneesi, nel Monferrato e nella pianura alessandrina, a testimoniarne la presenza rimangono le leggende.

Lupo nel Parco Naturale del Marguareis (Foto © G. Cristiani).
Lupo nel Parco Naturale del Marguareis (Foto © G. Cristiani).

Tempi bui

L’estinzione, in Piemonte, inizia a metà Settecento. Negli archivi di Pino Torinese, in un documento datato 1732, si legge dell’acquisto di "una vacca per quella attossicare e con quella avvelenare li luppi". La spesa è di "lire 14 per la vacca e di lire 6 e soldi 10 per il tossico": così il lupo scompare dalla collina torinese.

Nelle aree pianeggianti la fine arriva intorno agli anni Venti dell’Ottocento: il lupo scompare dalla baraggia vercellese, dalle aree di Novara, dai dintorni di Torino dove minaccia la selvaggina che solo i Savoia possono cacciare.

Rimane la regione alpina, dove il massacro impiegherà altri cent’anni a compiersi. La fine arriva per prima in Valle d’Aosta, dove il lupo scompare insieme alla lince. Poi vengono l’Ossola e il Canton Ticino, e l’estinzione si diffonde verso sud come una pestilenza, valle dopo valle, branco dopo branco. La deforestazione fa ciò che la caccia, il veleno e le trappole non riescono a fare, frammentando gli habitat fino a renderli inadatti alle lunghe marce del lupo.

L’unica data certa nelle cronache piemontesi è una data monca. Sappiamo solo l’anno e vagamente il luogo: 1921, val Corsaglia, Monregalese. Sappiamo che l’ultimo lupo abbattuto nella regione era una femmina. Poi rimangono solo segnalazioni sparse, poco documentate. Forse si tratta di individui in dispersione dall’Appennino, forse si tratta di fantasie. Deve sembrar strano, a quei tempi, che l’antico nemico sia finalmente scomparso dopo secoli di battaglie. È come perdere la propria ombra.

Sulle valli piemontesi è sceso un silenzio che durerà settant’anni. Non va meglio nel resto d’Italia e del mondo: il lupo, un tempo il mammifero selvatico più diffuso nell’emisfero boreale, è quasi scomparso in Europa e Nord America. Sulle Alpi non esiste più; in tutta Italia ne sopravvivono pochi esemplari.

Non è un silenzio totale, però. Perché secolo dopo secolo il lupo è diventato un nemico soprattutto interiore: è il bosco, il timore di perdersi, il predatore che si nasconde sotto il guscio delle leggi con cui l’uomo ha imbrigliato la propria animalità. Ora che il lupo reale non c’è più rimane il suo fantasma: il lupo immaginario. Rimangono le favole, le leggende che raccontano e reinventano un passato mai esistito, i racconti con cui si insegna ai ragazzi di cosa conviene aver paura. Le favole, e i riti: durante il carnevale di Chianale, in Val Varaita, i giovani si imbrattano il volto di nero e tengono alla corda un compare travestito da lupo, che coperto di pelli corre per il paese importunando le donne. La gente, per ingraziarselo e non innervosirlo, gli offre timorosa cibo e doni.

Immagine dal carnevale di Chianale.
Immagine dal carnevale di Chianale.

Come facciamo senza il nostro miglior nemico?

Il lupo reale non è l’abisso di perversioni che abbiamo proiettato su di lui: è un mammifero di media taglia, superpredatore degli ecosistemi in cui vive. Gli altri superpredatori, la lince e l’orso, sono quasi svaniti a loro volta: il fatto che i loro massacri non siano stati caricati di altrettante valenze simboliche non cambia il risultato finale.

Il problema diventa evidente dopo qualche decennio: privi dei predatori gli ungulati si sono moltiplicati più del dovuto, complici le reintroduzioni a scopo venatorio. Privata del suo vertice la piramide alimentare scricchiola, gli equilibri saltano. I cinghiali invadono le coltivazioni, danneggiandole. E per quanto la caccia ai nuovi nemici possa sembrare la risposta più semplice, l’unico modo per rendere stabile un ecosistema è ristabilire il suo equilibrio precedente. Non c’è solo questo: nel frattempo è cambiata la percezione del lupo. L’uomo, che lo ha sterminato, ora lo rimpiange: una volta che il conflitto sembra finito, a prevalere è la nostalgia. Il lupo diventa così, accanto al mostro, il simbolo idealizzato della natura perduta, da cui l’uomo è sfuggito e da cui, ora che forse è troppo tardi, vorrebbe essere riaccolto.

Le cose cominciano a cambiare. Nel 1971 il lupo è escluso dall’elenco delle specie nocive. Nel 1976 viene inserito tra le specie protette: non potrà più essere cacciato. Nel 1979, con la convenzione di Berna, entra tra le specie europee a protezione assoluta. Nel 1992 a tutelarlo e proteggerlo si aggiunge anche la Direttiva Habitat, e in Italia la legge sulla caccia 157 introduce il carcere per chiunque ne uccida uno.

Nel 1972 il biologo Luigi Boitani e l’etologo Erik Zimen avevano effettuato la prima indagine sulla situazione italiana del lupo, scoprendo che in tutto il territorio rimaneva un centinaio di esemplari, nell’Appennino centro-meridionale. Nei primi anni Ottanta, una nuova indagine certifica circa duecento esemplari, in espansione geografica. Negli anni Novanta sono quattrocento, e sembra si riavvicinino alle Alpi.

Il lupo torna perché l’uomo si pente di averlo scacciato, e perché la sua assenza si è rivelata più nociva della sua presenza. Non solo: torna perché l’uomo, per la prima volta dal Medioevo, abbandona le montagne. La popolazione si concentra nelle città, le valli si spopolano. La natura si riappropria delle terre abbandonate; i pascoli diventano sottobosco, poi bosco. L’uomo si ritira spontaneamente dalle terre alte che ha addomesticato con tanta fatica: il lupo, a un passo dall’estinzione, ne approfitta.

Video sul monitoraggio nazionale del lupo a cura dell'Ispra (Istituto Superiore per la Protezione
e la Ricerca Ambientale).

Riconquista

Negli anni Ottanta, in Piemonte, si parla spesso di lupi. Molti dicono di averne avvistati: sta tornando, si dice. Ma non ci sono certezze. Il lupo non appartiene al nostro mondo civilizzato; preferisce le aree remote con cui abbiamo poco a che fare: e nei boschi è lui a vedere noi, quasi mai il contrario. Ci vorrà ancora tempo: ma nel 1996 viene avvistato dai guardaparco in Valle Pesio, e non ci sono più dubbi.

In una ventina d’anni il lupo ha risalito l’Italia, imboccando il corridoio ecologico dell’Appennino Ligure per raggiungere le Alpi Marittime: centinaia di chilometri di areale guadagnati in poche generazioni, senza bisogno dell’aiuto umano. Dalle Marittime, la marcia proseguirà verso il resto delle Alpi, in Francia, in Svizzera, in Austria, consolidandosi anche nei numeri: gli ultimi monitoraggi riportano circa 680 individui tra Piemonte, Liguria e Valle d’Aosta; sessantotto branchi solo in Piemonte. Dalle montagne, l’espansione si è spinta anche alle colline e alle zone più remote delle pianure. Se si esclude Novara, dove si segnalano solo esemplari in dispersione, tutte le provincie piemontesi sono state riconquistate. L’uomo ha di nuovo la sua ombra selvatica.

I motivi per cui il lupo ha riconquistato le Alpi sono gli stessi che gli hanno permesso di conquistare il mondo prima che lo facessimo noi. Il branco alla base della sua struttura sociale è un nucleo familiare che conta dai due ai sette individui. Al centro c’è la coppia riproduttiva, monogama, poi i giovani dell’anno ed eventuali subadulti, esemplari nati negli anni precedenti che non hanno ancora abbandonato il branco. Nessuno, a parte la coppia, può riprodursi: così dice la legge non scritta dei lupi. Una volta raggiunta la maturità sessuale, i giovani si trovano a un bivio: rimanere nel branco, sfruttandone la protezione al prezzo di rimanere subordinati e non diffondere i propri geni, o andarsene. Ai secondi non rimane che disperdersi, vagando in cerca di un territorio proprio e di un partner con cui creare un nuovo branco.

Il lupo è strutturato per camminare sulle lunghe distanze: un giovane in dispersione può percorrere centinaia di chilometri al giorno. Un esemplare monitorato nelle valli meridionali del cuneese è stato osservato in Ossola, poi in Svizzera, prima di morire su una strada tedesca pochi mesi dopo il primo avvistamento. Non è un’eccezione: un altro esempio ben documentato è quello di M15 (o Ligabue), la cui storia è narrata a metà tra il fiabesco e la cronaca naturalistica al Centro Uomini e Lupi di Entracque, in Valle Gesso. M15 è stato seguito per 318 giorni tra il 2004 e il 2005, grazie a un radiocollare: partito dal Parco dei Cento Laghi sull’Appennino parmense ha superato cime, valli, strade, ferrovie, ha attraversato il centro di Cuneo, ha superato il confine con la Francia per tornare, infine, sulle Marittime. Mille, tortuosi chilometri in tutto: queste sono le distanze che i lupi sono in grado di coprire pur di colonizzare un nuovo territorio.

La famosa dispersione del lupo M15 (Ligabue) immaginata da Martina Guidi. Dettaglio dal libro
La famosa dispersione del lupo M15 (Ligabue) immaginata da Martina Guidi. Dettaglio dal libro "Un posto per Ligabue".

La guerra è finita?

Il lupo è tornato e le popolazioni lentamente si rinforzano, ma la guerra non è finita. Il lupo che abbiamo combattuto è un agglomerato simbolico, non più solo l’animale reale ma anche e soprattutto ciò che noi vi abbiamo proiettato: non è semplice liberarsi di un immaginario così radicato, intessuto di odi latenti e paure inesprimibili. Il lupo reale è un predatore versatile. Si nutre perlopiù di ungulati selvatici: caprioli soprattutto, e poi cervi e camosci, piccoli di cinghiale, raramente mufloni e stambecchi. In inverno mustelidi, roditori, frutta e verdura, i rifiuti degli umani. E poi gli ungulati domestici: che soprattutto in estate, quando le greggi si spostano verso l’alto, nelle terre del lupo, finiscono a volte predati. L’interesse economico basta a risvegliare l’ostilità che nei millenni abbiamo nutrito nei confronti del nostro miglior nemico, insieme con le giustificazioni che trovavamo per sterminarlo senza rimpianti: il lupo uccide per il gusto di farlo, i bambini non sono al sicuro.

I lupi erano qui prima che arrivassimo noi, e hanno il medesimo diritto di restarci. Il punto, di conseguenza, non è l’entità delle perdite economiche che causano. Il punto è che, al di là di qualsiasi questione utilitaristica, la convivenza è una necessità: il fatto che l’uomo abbia il diritto di difendere i propri interessi non significa che nel farlo debba calpestare quelli altrui.

Esemplare nell'area faunistica
Esemplare nell'area faunistica "Uomini e Lupi" (Foto R. Licalzi - © Archivio APAM)

Progetti come Life WolfAlps e Lupo Piemonte, enti come il Centro Conservazione e Gestione Grandi Carnivori e l’Ispra, con i suoi monitoraggi nazionali, tentano di cementare la pace con aiuti economici e una comunicazione incentrata sul lupo reale e non sull’immaginario. Si tenta di diffondere la consapevolezza che allevare animali non è mai stato un mestiere semplice, e che se lo è stato per una settantina d’anni, quando si potevano tenere greggi anche numerosissime senza spendere molto in guardiania, è stato soltanto a costo della crudeltà e del sopruso – crudeltà che non avevamo il diritto di commettere. Per aiutare le attività che il lupo reale può danneggiare vengono stanziati fondi europei e nazionali. Si offrono incentivi per l’acquisto di recinzioni elettriche. Si allevano pastori maremmani, che vengono dalle terre in cui il lupo non è mai sparito e sono più adatti di altre razze per tenere a bada i canidi selvatici senza che nessuno si faccia male. Non solo: al Centro Uomini e Lupi di Entracque trovano ospitalità i lupi che per incidenti più o meno dolosi o per gravi malattie non potrebbero sopravvivere in natura. È un modo non solo per salvarli, ma anche perché l’uomo possa vederli da vicino – in tutta sicurezza, dall’alto di una torretta – mentre conducono la loro vita in un territorio non troppo diverso da quello che avrebbero allo stato brado. Visto da vicino, il grande nemico non fa poi così paura.  

Probabilmente non basterà a rendere il lupo un amico – ammesso che un obiettivo così antropocentrico abbia senso: l’importante è che non sia più considerato un nemico. Le popolazioni sono in crescita, ma ancora instabili. In molte aree il lupo è ancora minacciato. Di certo servirà tempo perché l’immagine del lupo cattivo divoratore di bambini si dissolva, affrancando l’animale reale dagli incubi che gli abbiamo gettato addosso. Ma se questo avverrà, forse un giorno sarà normale per l’uomo recarsi, la sera, sui confini delle terre coltivate e civili, per ascoltare gli ululati dell’antico compagno di caccia che è rimasto a presidiare le terre selvatiche. E forse, se saremo fortunati, altri lupi risponderanno.

L'immagine del lupo Ormea del centro faunistico
L'immagine del lupo Ormea del centro faunistico "Uomini e Lupi" diventata simbolo del progetto (Foto F. Beltrando - © Archivio APAM)

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Bibliografia

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  • Marucco M., Bridging the gaps between non-invasive genetic sampling and population parameter estimation, European Journal of Wildlife Research, 57, 2011, pp. 1-13.
  • Meriggi A. e altri, Changes of wolf (Canis lupus) diet in Italy in relation to the increase of wild ungulates abundance, Ethology Ecology & Evolution, 23, 2011, pp. 195-210.
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