“Quale percorso seguivano i pellegrini medievali che transitavano da qui?”: questa domanda è alla base dello studio che ha portato alla costituzione dell’associazione Via Romea Canavesana Onlus.
Siamo a Mazzè, borgo di circa quattromila abitanti incastonato tra la morena frontale creata dal ghiacciaio Balteo e il lago di Candia; l’anno è il 2008 e la domanda veniva posta da alcuni membri dell’associazione culturale “Mattiaca”, nata qualche anno prima con finalità storico-archeologiche locali.
Alcune ricerche avevano già in passato evidenziato il transito devozionale nel comune: la presenza della chiesa della Madonnina, posta all’esterno dalla scomparsa cerchia muraria, nata per accogliere i viandanti era già un ottimo indizio, rafforzato dalla presenza di un dipinto murale raffigurante la Madonna del latte, iconografia molto spesso legata al passaggio di pellegrini.
Per rispondere alla domanda si analizzò la viabilità canavesana partendo dalla struttura viaria impostata in epoca romana, valutando e motivando le trasformazioni avvenute poi in età medievale. Un esempio tra tutti, la via delle Gallie, che insisteva per un tratto a sud del lago di Viverone (un tempo detto lago d’Azeglio): nel Medioevo tale percorso venne abbandonato per un più sicuro passaggio a mezzacosta sulla collina a nord del bacino. Questo accadde a causa della scarsa manutenzione dei corsi d’acqua in periodo altomedievale: alcune zone del lago divennero infatti paludose e la presenza di acque stagnanti si accompagnò presto a malattie quali la malaria, celebrata, per così dire, da una leggenda che invitava a stare lontani dal lago poiché qui viveva un terribile mostro.
Stabilito quindi il probabile itinerario, che da Ivrea si snodava prima verso sud-ovest per poi puntare decisamente verso Vercelli cioè ad est, occorreva verificare se vi fossero prove concrete di passaggio dei pellegrini, quindi manufatti e testimonianze della loro presenza lungo il percorso, proprio come avevamo rilevato alla Madonnina. Fu di grande aiuto in questa fase il libro Romanico in terre d’Arduino (Diocesi di Ivrea), scritto dal candiese Guido Forneris, interessante e accurata raccolta dei monumenti dell’epoca, con un ricchissimo apparato iconografico. Le prove non tardarono a emergere, erano davvero ancora molte e tutte ben documentate, ma nessuno probabilmente aveva ancora pensato di correlarle per ricostruire un percorso.
Scoprimmo così, in primo luogo, che il priorato di Santo Stefano di Candia era attestato come dipendenza dell’Ospizio dei santi Nicolao e Bernardo di Monte Giove (Ospizio del Gran San Bernardo), poi che nella frazione Masero di Scarmagno, nella chiesa di sant’Eusebio, era conservato un bellissimo affresco raffigurante la Madonna del latte, attribuito a Domenico della Marca di Ancona e ancora che sulla cima di una collina nei pressi di Perosa Canavese esiste tuttora la chiesetta di Santa Maria di Morano, pur molto rimaneggiata, ma che anticamente era a tutti gli effetti uno xenodochio, ovvero un ospizio gratuito per i pellegrini.
La conferma più curiosa è stata tramandata oralmente dalla popolazione locale; venne raccolta durante un sopralluogo presso Scarmagno a quanto rimane dell’antica chiesa di San Giacomo. Le vestigia sono oggi poste su terreno privato e quando interpellammo il proprietario per poterle visitare, l’arzillo signore accompagnandoci ci comunicò, rigorosamente in piemontese, che a “San Giacomo ci passavano i pellegrini un tempo, me lo raccontava mio nonno”.
Quanto scoperto portò il gruppo a proseguire entusiasticamente nella ricerca anche a est della Dora Baltea. Nel Medioevo il fiume veniva attraversato, oltre che ad Ivrea, proprio a Mazzè, su un ponte distrutto presumibilmente da un’ondata di piena in epoca sconosciuta. La presenza del manufatto è dimostrata dall’atto di fondazione della chiesa dedicata a Maria Maddalena (1209), che giace oggi ormai ridotta a rudere nel parco del castello lungo il corso della Dora: nel documento si specifica che la chiesa si trovava apud pontem (presso il ponte).
Inoltrandosi nell’area vercellese, si rivelò fin da subito un’ulteriore difficoltà d’indagine, dovuta al totale stravolgimento della viabilità antica a causa delle sopraggiunte coltivazioni di riso, ragione per cui analizzammo dapprima le località per ricostruirne il percorso in seguito. Si tracciò così una linea che parte dal confine tra Canavese e Vercellese, dal perduto borgo con struttura fortificata di Uliaco, di cui sopravvive la sola chiesa di San Martino: l’antica Uliaco fu uno dei villaggi i cui abitanti andarono a costituire il borgo franco di Villareggia.
La chiesa di Santa Maria di Isana, ancora oggi all’interno di un grande cascinale alle porte di Livorno Ferraris, è un buon esempio di come usavano realizzare le loro domus i templari che la costruirono tanti secoli fa. Essa rappresenta infatti una delle strutture dell’ordine religioso-cavalleresco meglio conservate in Piemonte. Nel territorio di Crova un cascinale apparentemente anonimo rivelò nel nome, Cadè, le proprie origini di ospizio. Cadè è la contrazione di Casa Dei derivante da Domus Dei, un grande ospizio atto a ricoverare i pellegrini lungo il percorso.
A Bianzè, circa quindici chilometri da Vercelli sulle strade attuali, durante uno dei tanti sopralluoghi emerse un’altra interessante traccia dal passato: in pieno centro una lunga strada denominata via Mazzè. La cosa era davvero singolare, in quanto non vi erano notizie di accordi passati tra i due comuni, né alleanze storiche, come nel caso di Crescentino e Vische, in cui le popolazioni si unirono nel comune intento di liberarsi dei rispettivi signori-tiranni. Il collegamento, infatti, era ben più semplice e pratico: si trattava di quanto rimaneva dell’antica strada medievale de Mazzadio, che metteva in comunicazione i due centri abitati, una via di cui l’uomo aveva ormai perso la memoria, ma rimanevano indelebili nel tempo le antiche mappe, che divennero poi le targhe in marmo poste agli angoli delle vie.
Al termine della nostra analisi ci ritrovammo quindi con un percorso di tutto rispetto, circa ottanta chilometri, che metteva in comunicazione Ivrea e Vercelli, lungo il quale si potevano osservare moltissime testimonianze storiche e artistiche, spesso correlate tra di loro, che avallavano definitivamente l’ipotesi di un percorso devozionale.
Qualcuno sollevò un legittimo dubbio: si poteva parlare di percorso francigeno? Poiché, a quanto sapevamo, la strada ufficiale europea della fede transitava più a nord. Va chiarito che viene convenzionalmente riconosciuto come itinerario francigeno (anche detto Via Francisca o Romea) quel percorso che mette in comunicazione l’Europa occidentale con Roma, per proseguire poi verso la Terra Santa. Spesso si sente anche parlare della via di Sigerico, in ricordo di colui che per primo documentò un itinerario di fede, anche se forse è più corretto dire che il diario di Sigerico è, al momento, il più antico documento ritrovato su tale argomento.
Sigerico fu un arcivescovo di Canterbury (noto anche come Sigerico il Serio). Quando ottenne tale incarico nel 990, si recò a Roma da papa Giovanni XV per ricevere il pallio, simbolo della dignità arcivescovile. Durante il viaggio di ritorno tenne un diario, dove scrupolosamente annotò le settantanove tappe tra Roma e l’imbarco per l’Inghilterra: in territorio canavesano Sigerico fece tappa a Ivrea dopo aver soggiornato nel Vercellese a Santhià e nella città della futura basilica di Sant’Andrea.
Era pratica piuttosto comune quella di tenere un diario durante il cammino, lo si fa ancora oggi, e la cronaca di Sigerico, insieme alla relazione di viaggio tenuta nel XII secolo dall’abate islandese Nikulás da Munkaþverá, sono davvero indispensabili per comprendere quale fosse il tracciato originario della Francigena. L’abate Nikulás non si limitò alla descrizione del viaggio, ma redasse una vera e propria guida turistica ante-litteram degli usi e costumi dei territori attraversati, le varianti del percorso principale e relazionò anche sulla gentilezza, o meno, degli abitanti di borghi e città visitati (ciò che sostanzialmente fece Karl Baedecker con le sue guide rosse nel XIX secolo aggiungendovi solo le cartine topografiche).
Sembrava proprio che l’itinerario Ivrea-Vercelli, recuperato dall’oblio con tanta fatica, non potesse rientrare tra i percorsi francigeni. In realtà occorreva solo modificare i criteri adottati nell’analizzare la viabilità antica, introducendo un concetto che il medievista Giuseppe Sergi aveva esposto già negli anni Novanta dello scorso secolo: quello di “area di strada”. Chi studia un sistema viario antico, non deve “cercare nel passato di una grande via internazionale un percorso nettamente disegnabile, bensì il territorio da essa condizionato, cioè un’area di strada”.
In effetti la scelta di un percorso può essere condizionata da una miriade di fattori: una guerra tra città rivali, condizioni ambientali avverse, strade interrotte, problemi per la salute pubblica, o magari questioni personali come passare a trovare un amico durante il viaggio, portare un messaggio da parte di qualcuno. L’argomento è davvero molto complesso e interessante, ci si limiterà qui a una considerazione: il pellegrino medievale sceglieva quale fosse il miglior percorso esattamente come fa oggi un moderno escursionista montano, stabilito il punto d’arrivo, l’itinerario può subire variazioni a causa di fattori non sempre prevedibili, quali un albero caduto luogo il sentiero, una frana, il cattivo tempo e così via. Date queste premesse, si era ragionevolmente certi che anche il nostro percorso era francigeno, si trattava ora di capire come renderlo noto e quindi fruibile ai moderni pellegrini.
Chi bisognava coinvolgere in un progetto di questo tipo? Non ne avevamo assolutamente idea e mentre qualcuno cercava informazioni in rete sull’organizzazione della Via Francigena italiana, altri si domandavano chi potevano essere gli interlocutori locali. Ottanta chilometri non erano affatto uno scherzo da gestire e occorreva un certo numero di persone. Esporre il progetto alle amministrazioni comunali era certo una scelta corretta, ma sapevamo bene che davvero poche erano sensibili alle questioni culturali, soprattutto se riguardavano un territorio così vasto e non il loro specifico comune. Fortunatamente oggi la situazione è per certi versi molto cambiata.
Si decise quindi di contattare altre realtà associative che avevano a cuore la tutela e la promozione del territorio; iniziammo da quelle più vicine a noi: l’associazione “Francesco Mondino” di Mazzè, la Duchessa Jolanda di Moncrivello, Natura & Paese di Vische, gli Amici della chiesa di S. Stefano del Monte di Candia, l’Accademia dei Livornesi di Livorno Ferraris; tutti risposero favorevolmente alla proposta di unirci in un progetto condiviso. Eravamo consapevoli che l’idea, per poter funzionare, doveva coinvolgere necessariamente la totalità dei comuni in cui transitava la riscoperta via della fede; non in tutti però esisteva un’associazione con cui poterci confrontare. In modo insperato vollero unirsi a noi anche alcune persone che, pur non facendo parte di una realtà associativa, amavano il loro territorio e decisero di offrire il loro contributo.
Fu così che nell’ottobre del 2009 si costituì con atto formale l’associazione Via Romea Canavesana Onlus. Tra gli obiettivi del sodalizio c’è la volontà di: recuperare dall'oblio un percorso utilizzato dai pellegrini medievali; valorizzare le rilevanze romaniche che si incontrano lungo l'itinerario e proporre il progetto ai neo-pellegrini del XXI secolo in viaggio verso Roma. Cominciammo quindi a presentare il progetto nel dettaglio alla popolazione dei vari comuni e alle amministrazioni. Alcune di queste risposero entusiasticamente, altre ci domandarono subito quale ricaduta economica avevamo previsto nell’arco di tre anni. Come spiegare loro che per noi era volontariato e non un modo per fare soldi? Cercammo di far capire che il volano economico poteva sicuramente mettersi in moto, ma occorreva l’aiuto anche da parte dei comuni, seguendo l’esempio di quanto stava avvenendo per il Cammino di Santiago in Spagna.
Attualmente l’associazione è formata da dodici soci promotori, undici soci effettivi e diciannove “amici” (Associazioni e/o Enti Territoriali che a vario titolo collaborano o hanno collaborato all’organizzazione di manifestazioni ed eventi oppure forniscono visibilità all’associazione).
Dal 2011 ad oggi l’associazione ha promosso oltre cento eventi (suddivisi tra camminate e interventi/relazioni culturali), più altre dodici manifestazioni nelle quali abbiamo collaborato attivamente con varie realtà territoriali. Molta cura viene dedicata alla presentazione delle rilevanze storiche e architettoniche lungo il cammino e si provvede, qualora non lo siano, a renderle fruibili e visitabili durante gli eventi o anche su richiesta di studiosi e amanti di quell’architettura religiosa considerata “minore” e spesso sottovalutata.
Altra attività è quella degli incontri a carattere divulgativo, tenuti dai volontari dell’associazione oppure da esperti esterni legati al mondo della cultura: si rivolgono ad un pubblico che vuole avvicinarsi alla storia, alle tradizioni e alle peculiarità della propria terra senza il timore di trovarsi ad assistere a una lezione per “addetti ai lavori”. I temi trattati riguardano la quotidianità nel Medioevo (il filone di conferenze Res Cottidianae), oppure personaggi di varie epoche storiche, spesso poco noti, nativi del territorio canavesano o vercellese, che hanno dato lustro con la loro arte o la loro scienza al territorio e non solo (Clarae Persone), o ancora interventi mirati a presentare il territorio su cui incide il percorso nei suoi diversi aspetti: morfologia, geologia, attività lavorative, sociali, turistiche (Per Agrum).
Abbiamo inoltre realizzato nel 2014 un cortometraggio promozionale di circa 26 minuti, dal titolo In Cammino con noi in cui l’associazione si presenta e descrive le proprie finalità attraverso una narrazione che alterna l’esperienza di un pellegrino contemporaneo e uno medievale lungo il percorso “romeo” tra Ivrea e Vercelli, a sottolineare la continuità storica tra presente e passato. È storia recente invece l’uscita di un lungometraggio indipendente di avventura della durata di circa due ore, Il Tesoro di Ypa, che mira alla valorizzazione storico-paesaggistica di diverse località del territorio canavesano.
Nel tempo inoltre sono state attivate collaborazioni con le scuole secondarie di primo grado e gli istituti di istruzione superiore del territorio, con uscite didattiche sui percorsi o con interventi dedicati allo studio della storia locale, in collegamento con gli argomenti trattati durante l’anno scolastico. Interessante è la collaborazione con l’Istituto Nazionale di Astro Fisica (INAF) di Brera, quale supporto storico locale, al fine di realizzare rilevamenti archeoastronomici di alcuni edifici religiosi presenti lungo il percorso (chiesa templare di Santa Maria di Isana a Livorno Ferraris, priorato di Santo Stefano a Candia, San Giacomo di Ruspaglia, già chiesa templare, a San Giusto Canavese).
Per il futuro molte attività sono in itinere: uno degli obiettivi più rilevanti è la palinatura dell’intero percorso; prima però occorre tornare completamente operativi dopo il fermo forzato di questi due anni. Certo sono stati effettuati alcuni timidi tentativi di ripartenza nelle attività e i risultati, quanto a numero di partecipanti, ci sono stati: si tratta ora di continuare, sperando che finalmente non si ripresentino nuove sgradite sorprese.
Cosa ricercano quei ragazzi che, zaino in spalla, vediamo di tanto in tanto transitare nelle vie dei nostri borghi? Perché molti neo-pensionati decidono di affrontare le difficoltà e le incognite di un lungo percorso a piedi? Non è semplice rispondere a queste domande, poiché le risposte possono davvero essere le più disparate: chi si muove per mettersi alla prova, chi lo fa per fede, chi perché è in crisi, chi perché ha deciso di organizzare una vacanza culturale a basso prezzo, chi per meditare e ascoltare se stesso durante il cammino, c’è poi chi sostiene che la desacralizzazione delle culture intrecci ormai inesorabilmente il pellegrinaggio con un banale turismo di massa di cui ormai non è che un sottoprodotto.
Ritengo che le ragioni che muovono a tali scelte siano estremamente personali, poiché non entra in gioco il solo ragionamento legato al risparmio: ci sono la fatica, il disagio, le incognite del clima e gli incidenti che si possono avere lungo il percorso. Ciò che è certo è che tutti quelli che ritornano dopo un’esperienza di questo tipo hanno uno sguardo diverso, sono più sereni e più sicuri di loro stessi, e in cuor loro pianificano già il successivo viaggio “lento”.
Forse quello di intraprendere a piedi un cammino è un modo di rifugiarsi in un “altrove”, che creiamo attimo dopo attimo, oppure di evadere: la strada, che è uguale per tutti, ci porta lontano dallo stress di un lavoro sempre più opprimente, dall’ossessiva insidia di quell’orologio che scandisce tutta la nostra giornata. In cammino l’unico ritmo è dato dal battito del cuore, dall’alternarsi di luce e buio e dal rumore sordo dei passi; il resto è una piacevole incognita che si può scoprire a ogni angolo, è meravigliarsi osservando un panorama, magari visto altre centinaia di volte ma non con la dovuta attenzione, è riflettere sull’esplosione di luce di un’alba.
I cammini della fede sono il caotico presente che strizza l’occhio a un passato più pacato per ritrovare forse la serenità, o forse la nostra vera essenza. Un anonimo ha scritto: “Il pellegrino è colui che cerca, accettando l’incalcolabile rischio di trovare veramente”. Ciò che trova magari non sarà la risposta a tutti i suoi problemi, ma la forza interiore per poterne affrontarne molti altri.