Allestita nella Galleria del Beaumont e nella sala della Rotonda di Palazzo reale, l'Armeria reale, inaugurata nel lontano 1837, conserva armi e armature dall'età del Bronzo fino al Novecento, in un percorso scenografico e suggestivo alla scoperta del mito cavalleresco.
L’Armeria reale di Torino, oggi compresa nell'itinerario di visita dei Musei reali, è uno di quei luoghi che da sempre suscita nel visitatore meraviglia, stupore e grande fascino. Il percorso dell’esposizione, che accompagna il visitatore alla scoperta di un mondo di acciaio, è pensato proprio per portarci indietro nel tempo, in un medioevo favolistico fatto di cavalieri, armi splendenti, armature di principi e di re. L'Armeria reale difatti non è un museo della guerra, ma un luogo dove si celebrano i valori e le virtù cavalleresche, dove le armature sono splendidi abiti indossati realmente da alcuni dei più importanti protagonisti della storia sabauda (ma non solo), e le armi sono emblemi di rappresentanza e di status sociale.
L'intenzione del re Carlo Alberto, che istituisce la Reale Armeria nel 1833 e la apre al pubblico nella primavera del 1837, è sia mostrare la storia e l'evoluzione del sistema offensivo e difensivo nei secoli, ma soprattutto tramandare ai suoi visitatori, e a quelli di ogni epoca, quei valori di rispetto e devozione peculiari della virtù cavalleresca. L’idea di costituire un’Armeria reale, che esaltasse le virtù militari, in primis ovviamente sabaude, si univa così allo spirito romantico e restauratore individuato nel Medioevo cavalleresco che in quegli anni in Piemonte godeva di tanta fortuna: lo stesso sovrano sabaudo aveva provveduto a far realizzare, verso il 1834, la margaria del castello di Racconigi e gli edifici di tenuta di Pollenzo, che possono essere considerati i due principali complessi architettonici del neogotico piemontese. Il potere evocativo dell’Armeria, quale esempio di valori antichi ed eroici, si inserisce dunque perfettamente in questo clima culturale e ne diventa per Carlo Alberto un manifesto ideologico.
Se vogliamo ricercare un’origine a tutto questo, dovremmo risalire al 2 ottobre 1832 quando venne inaugurata a Palazzo Madama la regia pinacoteca voluta da Carlo Alberto e allestita da Roberto D'Azeglio con opere provenienti dalle raccolte reali, alcune di queste collocate alle pareti della galleria Beaumont. L’ambiente, ormai vuoto, con le sole Storie di Enea dipinte sulla volta da Claudio Francesco Beaumont un secolo prima, diventa così lo scrigno perfetto in cui allestire le armi che erano state raccolte e accatastate negli Arsenali di Torino e di Genova. La scelta di utilizzare la galleria Beaumont, inoltre, non è casuale: qui un tempo vi era la grande galleria voluta da Carlo Emanuele I che univa Palazzo Reale a Palazzo Madama, e che custodiva armi e armature dei suoi antenati. Il compito di raccogliere gli oggetti che diventeranno il primo nucleo della collezione venne affidato dal sovrano sabaudo in primis a Roberto D'Azeglio e poi al capitano d'artiglieria Vittorio Seyssel d'Aix, autore nel 1840 del primo catalogo del museo.
Il primo documento che attesta il ritiro di opere per il nuovo museo è del 14 marzo 1833, quando sono ritirati dal Museo di Antichità alcuni pezzi per l’Armeria, tra cui
Uno scudo ovale niellato e cesellato, una spada nel pomo della cui elsa è rappresentato un combattimento di cavalleria, un paio di pistole a ruota in una custodia, una tromba parlante in avorio figurata.
Dall’elenco è possibile riconoscere nello “scudo ovale” la targa cinquecentesca da parata, forse appartenuta a Enrico II di Francia, proveniente dalle collezioni del principe Eugenio di Savoia Soissons e decorata con episodi della guerra fra il re africano Giugurta e i romani guidati da Mario, tanto sontuosa e imponente da essere all’epoca ritenuta opera di Benvenuto Cellini e, come tale, allestita in una vetrinetta a forma di mandorla, ancora oggi sul percorso di visita. La “tromba parlante” è invece il raro e preziosissimo olifante da caccia. Appartenuto al re Emanuele I di Portogallo, fu realizzato in Africa agli inizi del Cinquecento, probabilmente in Sierra Leone, da maestranze locali secondo schemi iconografici forniti dalla committenza, che hanno portato a rielaborazioni proprie, come la raffigurazione del cervo, sconosciuto in Africa, con corna di fantasia. Entrambi gli oggetti, solo indirettamente collegabili al tema “guerresco” che potremmo trovare in un museo di armi, documentano piuttosto un gusto evocativo per la meraviglia, più da Wunderkammer che da esposizione di armi, già presente sin dalle origini.
A questo “stupore”, “meraviglia”, va aggiunto l’allestimento scenografico delle armi raccolte nell’Arsenale di Torino. Prima di essere trasferite, le armi e armature difatti si trovavano nei locali dell’Arsenale raggruppate in panoplie e trofei militari, secondo un allestimento deciso da Bernardino Galliari, importante scenografo del teatro Regio di Torino. Ed è proprio in questo contesto che trova con tutta probabilità origine l'allestimento dell'Armeria reale di Carlo Alberto, che in parte riprende i criteri espositivi di molte armerie inglesi, documentate in diversi volumi a stampa ancora conservati nella biblioteca storica dell'Armeria reale, e dall'altra si ispira alla grande tradizione scenografica settecentesca ancora viva ai primi dell'Ottocento, come dimostra il lavoro compiuto dallo scenografo Alessandro Sanquirico per l'opera lirica Cavalieri di Valenza rappresentata alla scala di Milano nel 1828. Non a caso uno dei primi acquisti per l'Armeria reale sarà proprio la raccolta di armi antiche dello scenografo milanese, composta da circa trecento pezzi, quasi tutti di notevole interesse, ma spesso rimaneggiati secondo un gusto collezionistico tipico dell'epoca che integrava le parti mancanti con rifacimenti spesso di eccezionale qualità e raffinatezza tecnica.
Anche nell'Armeria di Carlo Alberto dunque troviamo spesso opere che sono state integrate o del tutto rifatte durante l'Ottocento, secondo il principio che privilegiava l'integrità narrativa a scapito dell'originalità. Il ruolo degli armaioli al servizio di Sua Maestà era dunque fondamentale, in quanto essi erano tenuti a conoscere le antiche tecniche realizzative per la lavorazione dei metalli, in modo tale da restituire un'opera finita esattamente come se fosse stata realizzata nei secoli precedenti. Oltre alle integrazioni richieste, l’armaiolo provvedeva alla manutenzione delle armi, nonché alla realizzazione di quelle richieste dal sovrano. Il suo compito era dunque di grande responsabilità: non a caso il suo laboratorio era collocato a una estremità della Galleria, probabilmente nel locale di servizio ancora oggi presente tra la galleria e la Sala del Medagliere. Nove furono gli armaioli di Sua Maestà che si succedettero fino al termine del secondo conflitto mondiale; tra questi, il primo, Giovanni Mussone, uomo di fiducia del sovrano (accompagnò spesso il direttore Seyssel d'Aix, o per lui intraprese numerosi viaggi per acquisti), è da ricordare perché fu quello che partecipò più attivamente, attraverso integrazioni e restauri, a rendere le collezioni dell’Armeria quelle che ancora noi oggi vediamo.
Interni dell'Armeria Reale oggi (foto di Manuelarosi - CC BY-SA 3.0).
A lui si deve, ad esempio, la ricostruzione dell’Armatura e barda ottomana con marchio dell’arsenale di Santa Irene a Istanbul, collocata nell’ultima finestra a destra: giunta in Italia verso il 1845 su di un carico di “ferrovecchio”, venne rifatta in molte sue parti da Mussone, tale da renderla nuovamente fruibile. Stessa cosa accade per i cavalieri collocati in corrispondenza della terza e quinta finestra: in entrambi i casi, Mussone si occupa di realizzare in toto, probabilmente sulla base di qualche incisione, le protezioni corazzate dei rispettivi cavalli, restituendo armonia con le armature collocate sui destrieri. Per questi casi, che comunque non sono molti, possiamo parlare di falsi? Niente affatto: nelle ricostruzioni affidate agli armaioli di Sua Maestà non vi è mai intenzione di dolo o di frode, ma ricerca di completezza storica o di raggiungimento di quei canoni estetici peculiari della moda del tempo, che abbiamo visto trattarsi di un medioevo evocato e non filologico, per cui tra le mani di un guerriero con armatura da cavallo viene posto un elegante ed esile spadino da gentleman, si rendono ancora più cupi i martelli d'arme (come quello della vetrina 19, che presenta un artiglio "strappa occhi"), o si inventano armi di favolistici sovrani (come la spada con elsa in avorio appartenuta a un inesistente Ludovico II di Savoia e datata 1597, ma realizzata a metà Ottocento).
L'allestimento è dislocato in cinque campate e dodici finestre. Tra di queste sono allestite alle pareti trenta vetrine, più altre collocate in testa e in fondo alla galleria, per un totale di quarantuno vetrine, tutte realizzate dall’ebanista Gabriele Capello detto il Moncalvo su disegno di Pelagio Palagi. Ad un primo sguardo l'occhio è catturato dalla parata di cavalieri e uomini d'arme, che abbracciano la Galleria in tutta la sua interezza. Si tratta di armature dinastiche, tesori di famiglia (Carlo Alberto acquisì l'intera collezione della famiglia bresciana Martinengo), opere insigni dagli Arsenali di Genova e Torino o pezzi raccolti in tutta Europa nel corso del tempo.
I cavalieri sono poi allestiti sui cavalli: non si tratta di animali imbalsamati, ma sculture lignee rivestite di pelle equina, cui lavorarono abili scultori piemontesi fin dagli anni Trenta dell'Ottocento, quali Giovanni Tamone, Antonio Artero, Giacomo Marchino. L’eccezionale bravura degli scultori, unita alla presenza della pelle animale, permette di distinguere i cavalli per genere e per razza. Tra quelli più riconoscibili vi è certamente il cavallo della quinta finestra, rivestito con un manto variopinto riconducibile a un appaloosa delle praterie americane. Questa pelle apparteneva a un cavallo donato a Carlo Alberto, molto probabilmente a ricordo della campagna di guerra francese del 1667 contro il popolo americano degli irochesi, al quale aveva partecipato anche un reggimento dei Savoia-Carignano (il "reggimento Carignano", fondato nel 1636 da Tommaso Francesco di Savoia, primo principe di Carignano).
L’attenzione al dettaglio e al realismo non fa altro che esaltare ancor di più l’effetto scenografico reso dalla parata: e spesso si dimentica che qui sono allestite armi e armature di eccezionale bellezza ed eleganza, ma anche curiose. Come ad esempio le pistole della vetrina 34, veri e propri prototipi, in un’epoca, il Cinquecento, in cui queste armi da fuoco sono più un oggetto curioso che efficace. Le forme di queste armi, a volte tozze, altre eccessivamente lunghe con dei pomi sproporzionati per controbilanciare il peso, ricordano più i corpi delle balestre che pistole vere e proprie. Tra queste spicca la terzetta lancia dardi a ruota a tre canne rotabili, appartenuta, come conferma il motto “Plus ultra” inciso sul cilindro delle canne e il collare del Toson d’oro riprodotto tra fogliami, all’imperatore Carlo V d’Asburgo. Un’arma unica quanto poco utile (i dardi non fanno che qualche metro), che può rientrare nella tipologia di pistole chiamate all’epoca “mazzagatto”, per le dimensioni tascabili e per la scarsa gittata.
O ancora, il complesso di armi da fuoco e accessori della vetrina 39, chiamato “le Armi di Monaco” perché là realizzati nel Seicento dagli artisti Emanuel Sadeler e Adam Vischer e non a caso chiamati “I più bei fucili del mondo”. Certamente non spararono mai un colpo. Furono donati da Massimiliano I duca di Baviera per le nozze del figlio Ferdinando Maria di Wittelsbach con Enrichetta Adelaide di Savoia, sorella di Carlo Emanuele II, celebrato a Torino nel 1650. Ma basta guardarsi intorno per scorgere ancora tra le armature elmi con ali di pipistrello, celate cesellate con delfini, mostri e altro ancora: tutto ciò che può essere utile per meravigliare o spaventare l’avversario, magari durante un torneo o una giostra, i principali avvenimenti in cui questi “vestiti d’acciaio” venivano indossati.
Volgendo un ultimo sguardo alla Galleria, si accede alla seconda e ultima sala, quella detta della Rotonda. L’ambiente, attualmente a forma di T, si chiama così perché qui in origine vi era il Rondò, lo spazio di raccordo, presente fino agli inizi dell’Ottocento, tra Palazzo Madama e Palazzo Reale, prima che venisse demolito il braccio di collegamento su piazza Castello. Utilizzato come piccolo teatro di corte, nel 1820 è trasformato in sala da ballo per i festeggiamenti per le nozze di Maria Teresa di Savoia con il duca di Lucca. Sarà poi Carlo Alberto, dopo l’istituzione della Reale Armeria, a ritrasformare questo ambiente, deciso inizialmente a utilizzarlo come biblioteca militare per i cadetti. Il progetto di allestimento sarà affidato a Pelagio Palagi che fornirà il disegno per le vetrine, per il ballatoio superiore e per il soffitto, dove sono inseriti tre dipinti di Carlo Bellosio e di Francesco Gonin.
Dopo la morte del sovrano, lo spazio sarà poi invece riutilizzato come luogo destinato alla raccolta delle armi orientali e dei doni regali, nonché le armi e bandiere risorgimentali e le collezioni dei sovrani sabaudi, da Carlo Alberto in avanti, allestite nelle vetrine. Di Carlo Alberto, fondatore dell’Armeria, qui ritroviamo anche il suo cavallo: si tratta di Favorito, con i finimenti che indossava durante la battaglia di Novara del 1849. Amatissimo dal sovrano, il cavallo aveva seguito l’esilio di Carlo Alberto a Oporto. Dopo la morte del re, il cavallo ritornò in Italia e visse fino al 1866, anno in cui si decise di realizzare una scultura rappresentativa. L’incarico verrà affidato a Giovanni Tamone, autore di numerosi cavalli presenti in Armeria, il quale utilizzerà proprio la pelle dell’animale per rendere più “realistico” l’allestimento.
Dalla suggestiva balconata della Rotonda un tempo si affacciavano centinaia di bandiere risorgimentali, già all’epoca mal ridotte per le battaglie affrontate, e ora, dopo un sapiente restauro, collocate nei depositi. All’interno di questi sono custoditi circa 2.000 pezzi, più o meno la metà dell’intera collezione. Ciò è dovuto in primis alla ristrettezza degli ambienti espositivi (nell’immediato dopoguerra si pensò anche di trasferire l’Armeria nei più ampi spazi della Manica Nuova di Palazzo reale) oltre che a scelte qualitative, conservative e a criteri museografici condivisibili.
Custoditi nei depositi, tra oggetti preziosi o storicamente rilevanti, vi sono comunque delle vere e proprie chicche, come ad esempio gli abiti di gala dell’Ordine della Giarrettiera appartenuti a Vittorio Emanuele II e a Umberto I, ricevuti rispettivamente nel 1855 e nel 1878 dalla regina Vittoria; il nécessaire da campo di Carlo Alberto, completo di libro di preghiere; una ciocca di capelli di Napoleone, custodita in una scatolina assieme alla sua maschera funeraria; completano la collezione le numerose armi africane e asiatiche, testimonianze di viaggi, esplorazioni o doni diplomatici. Non mancano infine oggetti curiosi e più disparati: tra modellini di cannoni, armi, moschettieri e navi, nei depositi si può trovare anche un pezzo della corda di comunicazione elettrica per il telegrafo sottomarino stabilito tra la Francia e l'Inghilterra, una cazzuola dorata donata a Vittorio Emanuele II, il cannoncino della Stella Polare, la nave della spedizione di Luigi Amedeo di Savoia, Duca degli Abruzzi, per l'esplorazione del Polo Nord fra il 1899 e il 1900. Giustamente custoditi ma non esposti, tutti questi oggetti “curiosi” restano comunque testimoni di un tempo che fu.
In ricordo di Giorgio Dondi, maestro e amico.