La storia dei diritti delle donne è molto più breve di quella dei diritti degli uomini, questo perché il riconoscimento dei diritti femminili è avvenuto in tempi relativamente vicini a quelli odierni. La storia del diritto di voto è una vicenda per certi versi inesplorata, una storia che spesso viene vista come una concessione e non come il traguardo di un lungo percorso.
Recentemente una giovane studentessa mi ha chiesto “Perché per gli uomini il voto è stato un diritto e invece le donne hanno dovuto meritarlo?” Molti, troppi, ritengono che il suffragio femminile sia stato un premio elargito alle donne che si erano distinte per il loro operato durante il secondo conflitto mondiale. Più che una risposta la domanda ne suscita un'altra: perché si pensa che le donne abbiano avuto un ruolo totalmente passivo nella vicenda?
Non è affatto andata così.
Per ricostruire la storia del suffragio femminile ho trovato particolarmente interessante il pamphlet edito a cura del Comitato pro voto di Torino nel 1923 dal titolo Diciassette anni di lavoro e di lotta per la causa suffragista. Il breve saggio è forse l’unica voce femminile che descrive il contributo dato dal sodalizio piemontese e rappresenta la rivendicazione della memoria di ciò che si è e ciò che si è fatto. Riporta inoltre quanto accaduto nelle tornate parlamentari a partire dal 29 maggio 1863, data in cui l’onorevole Ubaldino Peruzzi propose per la prima volta un disegno di legge per il voto femminile, al marzo 1922 quando fu l’onorevole Giuseppe Emanuele Modigliani a presentare un progetto per l’estensione dei diritti politici. È utile ricordare che la proposta di Peruzzi fu anteriore anche alle rivendicazioni fatte al parlamento inglese da Stuart Mill nel 1867. Il filosofo britannico della "Libertà" lottò per la parità e il suffragio universale e il suo intervento aprì ufficialmente le porte alla discussione pubblica sul tema.
Non deve stupire che la prima rivendicazione europea per il suffragio femminile sia stata italiana. Ciò avvenne per un motivo molto semplice ma poco conosciuto: l’annessione al regno d’Italia significò per le donne lombarde, toscane e venete la perdita dell’esercizio del diritto di voto amministrativo. Nella Raccolta Bertarelli, custodita negli archivi del Museo del Risorgimento di Milano, vi è traccia della prima rivendicazione suffragista avvenuta proprio nel 1861 e ripresa nel 1880 da Anna Maria Mozzoni. Quando la questione del suffragio femminile diventò un argomento internazionale anche nel nostro paese fiorirono associazioni e testate giornalistiche volte a sensibilizzare le donne e l’opinione pubblica in genere sul tema dell’emancipazione.
Anche Torino fu tra le città italiane che videro nascere i comitati pro voto. Sabato 10 febbraio 1906, presso la sede di via Sant’Agostino n. 8, si riunirono, su sollecitazione di Emilia Mariani, le socie fondatrici. Esse si diedero uno statuto nel quale affermavano, in modo semplice e lineare, che lo scopo del sodalizio era quello di ottenere il voto politico e amministrativo per le donne e, nell’attesa, di prepararle all’esercizio cosciente di questo nuovo ufficio.
È utile in questo contesto chiarire la differenza tra voto amministrativo e voto politico: il voto amministrativo derivava dal censo e riguardava strettamente l’amministrazione della cosa pubblica (paragonabile all’attuale elezione del Sindaco) mentre il voto politico era propriamente l’espressione dell’esercizio di un diritto con valenza politica attraverso il quale esercitare scelte legislative che impattavano direttamente sui cittadini e sulla società in generale (paragonabile all’attuale elezione dei membri del Parlamento).
Il Comitato era apolitico, federato all'International Woman Suffrage Alliance e aperto a tutti, senza distinzione di sesso. Tra i soci anche l’avvocato Giambattista Cagno, il professor Giacinto Cravera e due personalità di spicco del femminismo torinese: Rita Jachia e Maria Ferraris.
L’impegno del comitato appare chiaro già nella lettera inviata nel 1910 al Partito Socialista dove si specifica che:
Il Comitato Pro Voto Donne di Torino non ha mai chiesto il voto limitato a certe categorie di donne, ha sempre chiesto che le donne siano ammesse a godere del diritto di suffragio insieme agli uomini alle stesse condizioni presenti e non future. Esso lo chiede in nome del diritto universale delle donne, tutte ugualmente conculcate da una inibizione che le offende nella loro dignità di esseri coscienti e responsabili. Lo chiede in nome del principio della gradualità che impera dovunque nel mondo fisico e nel mondo morale, poiché la natura ci insegna che non si procede per salti. Lo chiede in nome della serietà di una domanda che non può essere impostata sopra un diritto futuro, ipotetico e che per non essere irrisoria ha bisogno di essere portata dal campo delle ipotesi in quello della realtà.
A queste dichiarazioni di intenti, rimaste pressoché invariate nel tempo, si aggiunsero attività di rivendicazione ben testimoniate nella pubblicazione citata. L’opera del comitato iniziò con la raccolta di circa 600 firme a favore della petizione delle donne italiane indirizzata al Parlamento. La richiesta scatenò un contenzioso approdato dinanzi alle Corti d’Appello di Torino, Palermo, Brescia, Cagliari, Firenze, Napoli, Venezia, pronunciatesi, tra il 6 luglio e il 5 novembre 1906, con esito unanimemente sfavorevole alla richiesta.
Solo la Corte di Appello di Ancona, presieduta da Ludovico Mortara, accolse la richiesta di inclusione nelle liste elettorali delle dieci aspiranti elettrici, ricordate in seguito come “le maestrine di Senigallia”, decidendo che
Secondo la vigente legge elettorale politica, le donne che possiedono gli altri requisiti di capacità, hanno diritto di essere iscritte nelle liste elettorali.
Il fatto, senza precedenti, fece molto discutere ma non cambiò la sostanza delle cose: le donne continuarono a non poter esercitare la piena cittadinanza.
Petizione delle donne italiane per il voto politico e amministrativo del 1906 (Fonti: Unione Femminile Nazionale e la Repubblica).
Il primo Congresso pro-suffragio femminile, organizzato dal Comitato torinese può considerarsi il punto di arrivo della stagione più feconda del femminismo italiano di inizio Novecento. Venne inaugurato il 7 ottobre 1911 e si tenne in concomitanza con l’Esposizione Generale di Torino mentre in Parlamento si discuteva la riforma elettorale che avrebbe portato alle urne gli elettori maschi di oltre 21 anni in grado di leggere e scrivere e gli analfabeti che avessero compiuto 30 anni e prestato il servizio militare.
I festeggiamenti per il cinquantesimo anniversario della costituzione del Regno d’Italia erano visti come l’occasione irrinunciabile per la rivendicazione del diritto di voto femminile in considerazione del fatto che anche le donne – Anita Garibaldi e Cristina di Belgiojoso non sono che alcune esponenti di quella significativa componente – avevano attivamente partecipato alla lotta risorgimentale.
Purtroppo, la presa di Tripoli, avvenuta proprio in quei giorni, fece sì che non si potesse sfruttare a pieno la visibilità offerta dal primo importante anniversario dell’Unità d’Italia ma la presidente Emilia Mariani dichiarò ugualmente la sua soddisfazione per l’esito dei lavori.
Si stima che si accreditarono al Congresso circa 150 persone; non solo le rappresentanti dei vari comitati nazionali ma anche molte operaie e “un bel nucleo” (Emma Schiavon in Torino 1911) di deputati e giornalisti.
Il Comitato continuò la sua opera di sensibilizzazione fino allo scoppio del primo conflitto mondiale.
Come si approcciarono le suffragiste alla guerra? A differenza di quanto accaduto in occasione della conquista libica le donne ebbero un atteggiamento favorevole verso la prima grande guerra considerata, non solo come il coronamento del processo dell’unificazione italiana, ma anche come acceleratore del processo di emancipazione femminile che avrebbe messo in risalto il ruolo attivo e partecipe delle donne, ruolo a cui non erano disposte a rinunciare. Fu per questo che il Comitato si preoccupò di preparare le donne affinché potessero sostituire gli uomini nei posti restati vacanti.
Quando, nel maggio 1915, l'Italia entrò in guerra, il Comitato Pro Voto Donne di Torino aveva già costituito l'Ufficio Informazioni per le famiglie dei Combattenti Italiani, che cominciò immediatamente a funzionare dando alle famiglie dei richiamati tutte quelle informazioni inerenti alla corrispondenza coi militari, ai sussidi e a tutte quelle opere di soccorso offerte ai parenti bisognosi dei militari.
In questa lunga storia si inserisce la figura della segretaria del comitato pro voto: Rita Jachia, donna di alto spessore che dopo la morte dell’amica Emilia Mariani portò avanti il suo lavoro all’interno del Comitato torinese, tenendo anche i contatti e stringendo collaborazioni con importanti figure del femminismo italiano del tempo: Ersilia Majano e Ada Sacchi.
Rita era nata alla fine dell’Ottocento. Rimasta orfana iniziò a lavorare nella fabbrica Cirio nel 1902 fino a diventarne procuratrice. Negli anni Venti si occupò di pubblicità e marketing, settori ancora pressoché sconosciuti. Fu lei a inventare le raccolte punti e il concorso per ideare il nome del ketchup Cirio, diventato poi la famosa Salsa Rubra, dopo che il fascismo vietò l’uso di termini stranieri. Nonostante l’età continuò a lavorare in Cirio e, a ben 80 anni, era a capo degli ispettori di vendita.
Di origine ebraica, nonostante l’autorevole posizione, subì le persecuzioni razziali alle quali non si piegò supinamente; il suo nome è tra quelli denunciati alle autorità perché, nonostante il divieto, aveva continuato a tenere alle sue dipendenze personale “non ariano”. L’archivio della fondazione 1563 conserva la pratica del sequestro della sua abitazione al civico 11 di corso Trento. Dall’8 settembre 1943 risultò irreperibile fino alla fine del conflitto.
L’impegno di Rita per la causa del femminismo durò per tutta la vita. L’Archivio delle Donne in Piemonte custodisce una breve corrispondenza che scambiò con la professoressa Giuseppina Capurro Picchi, presidentessa e fondatrice della Federazione Italiana Donne. Dal contenuto delle lettere si evince che Capurro Picchi ha interesse a ricostruire la storia del Comitato Pro Voto e Rita si rammarica di non poterle dare la documentazione. Scrive il 26 marzo 1962:
sono a sua disposizione per darle tutti i dati e i nominativi che ancora ricordo per il nostro lavoro passato che è in fin dei conti l’ideale per il quale tanto abbiamo contribuito e che ci viene riconosciuto non in virtù solo del nostro passato ma per la tenacia delle giovani che ci hanno seguito. Deploro di non avere più i documenti del triste periodo 1918 – 1945 ma con un po' di sforzo di memoria potrò darle tutti i chiarimenti che Ella può desiderare.
Morì a Torino nel 1965; cinque anni prima aveva ricevuto dal Presidente della Repubblica Gronchi la Stella al merito del lavoro.
Che ne fu del comitato? Il governo di Benito Mussolini lo sciolse come tutte le altre associazioni non favorevoli al regime. La cultura fascista si adoperò poi, affinché il ruolo femminile fosse ridimensionato e la donna tornasse a incarnare il mito dell’angelo del focolare che poco o nulla corrispondeva alla realtà di una clausura nelle mura domestiche. Nell’annullare ogni rivendicazione femminile la figura della donna venne sminuita e ridimensionata.
Il suffragio femminile fu emanato a livello nazionale nel 1945. Non è stato un premio elargito ma fu, in realtà, la conclusione di un lungo e faticoso percorso, partito da lontano, per il riconoscimento di un diritto di cittadinanza inalienabile.
Donne Italiane!
Il nostro Governo ha concesso il voto alle popolazioni libiche e non ancora a noi che dal 1863 lo domandiamo incessantemente.
L'Italia condivide colla Grecia e colla Spagna la vergogna di non aver ancora riconosciuto i diritti politici alle donne, che costituiscono la metà della popolazione.
Le rivendicazioni economiche sarebbero molto più facilmente conseguite dalle donne lavoratrici se esse rappresentassero una forza politica!
La prossima riforma elettorale deve comprendere il Voto alle Donne!