Illustrazione di Ginger Berry Design.
La figura di Lidia Poët è, purtroppo, ancora sconosciuta ai più. Prima donna a laurearsi in giurisprudenza nel 1881, prima donna a chiedere, e ottenere, l’iscrizione all’Albo degli Avvocati di Torino, per poi esserne radiata.
Nella sentenza di Cassazione che la escluse dall’avvocatura si legge:
"Ma sebbene gli studii tecnici e scientifici degli uomini e delle donne siano una preparazione alle professioni, è troppo ardita la pretesa di voler trovare una legge sulla pubblica istruzione sottintenda una dichiarazione generale nel senso, che il diploma ottenuto da una donna basti a far nascere la capacità relativa e la condizione di diritto in ispecie, della professione dell’avvocato, mentre nemmeno l’ammissione all’esame pratico, e l’averlo sostenuto con esito favorevole, valgono per radicare un diritto acquisito all’esercizio."
Non si vuole qui trattare dell’annosa vicenda ben conosciuta ma piuttosto delineare la personalità di Lidia Poët, anche alla luce del suo essere valdese.
Mi spinge in questa impresa la convinzione che sia difficile costruire un futuro partendo da un presente che ha dimenticato le sue radici storiche. Sono persuasa che all’oblio della sua figura corrisponda la dimenticanza di una parte importante della storia della conquista di diritti fondamentali, non solo nella società italiana, ma anche in quella europea.
Per rendere un’idea della vastità dei temi dibattuti dalla giurista Lidia Poët, a titolo esemplificativo, si elencano: il diritto alla giusta pena, alla riabilitazione dei rei, i diritti dei minori a essere giudicati in un apposito tribunale, quello della parificazione dei figli, sia che siano nati fuori o in costanza di matrimonio, e ancora la rivendicazione di diritti per le donne quali il diritto al lavoro e al voto.
Scordarsi delle lotte intraprese per ottenere queste conquiste rischia di farci cadere nella trappola di ritenere che questi siano stati diritti elargiti, “donati” per buonismo. Sminuendo l’operato delle donne ottocentesche, che si voglia chiamarle femministe o proto femministe, si ha una visione distorta dei fatti e della storia, e si corre il rischio di ridimensionare la portata di questi diritti svuotandoli del loro reale valore.
La psicoterapeuta israeliana Dina Wardi, ha dimostrato che traumi generazionali, come le persecuzioni, vengono trasmessi, anche attraverso il “non detto”. Esiste una sorta di eredità della memoria che impregna e influenza le generazioni successive a quelle che hanno subito il trauma; ai figli viene addossata la responsabilità di tenere viva la memoria e/o del riscatto. Basandosi su questo studio Bruna Peyrot, nel suo saggio Essere terra, afferma che anche tra i valdesi esiste una sorta di DNA culturale trasmesso dai genitori ai figli.
La cultura valdese era, ed è, complessa, influenzata non solo dalle vicende storiche di questa minoranza religiosa ma anche dal territorio. Le valli valdesi sono terre di confine; numerosi gli scambi con la vicina Francia ma anche, e soprattutto, grazie all’adesione alla Riforma protestante, con Inghilterra e Germania. La cultura valdese non è locale, va ben oltre le Valli e può essere definita, a pieno titolo, transalpina.
In qualità di valdese il carattere di Lidia Poët si basava sicuramente sull’irriducibilità all’obbedienza gerarchica, sulla consapevolezza di essere portavoce di valori comuni che vanno oltre l’individualismo e, non meno importante ma più difficile da individuare, sul sentirsi al confine di qualcosa, il tutto infarcito dallo spirito di contestazione, tipico delle popolazioni di montagna.
Vivere su di una linea di confine porta a comprendere che esiste un limite, non solo legato al territorio ma anche a noi stessi. Questa consapevolezza offre una visione particolare: la frontiera non è solo una linea che divide; è soprattutto un passaggio, un tratto che unisce. Dal punto di vista spirituale è dunque possibile, e necessario, affrontare il proprio limite, non solo per superarlo, ma per comprendere che altri possono colmare le nostre mancanze. La logica conseguenza è che tutti hanno un valore, che la diversità non è un assioma per l’ineguaglianza. Da qui nasce il reclamare diritti e doveri non solo per se stessi ma anche per chi ancora non è riconosciuto; anche per i “non valdesi”. Il reciproco riconoscimento è la base che consente di costruire qualcosa insieme, per migliorare la società.
Soffermandomi su questo pensiero mi sono chiesta quale sia stato il messaggio che l’avvocatessa ci ha trasmesso e che, nonostante l’oblio della sua persona, ha saputo raggiungerci.
Nell’agire di Lidia furono sicuramente presenti anche le parole del benefattore valdese Charles Beckith:
Dovrete avere la convinzione della vostra causa e l’ardire di marciare diritti in avanti sul cammino delle libertà civili e religiose, senza remore, con onestà e perseveranza: altrimenti sarete sorpassati, eclissati e cancellati dal catalogo. O diventerete una realtà o non sarete assolutamente nulla.
La sentenza della Cassazione che vietò a Lidia Poët l’esercizio della professione forense non le fece dimenticare di essere una valente giurista.
A partire dal 1885 si prodigò per ben trent’anni, per i diritti dei carcerati e fu tra i fondatori dell'attuale diritto penitenziario non solo italiano ma internazionale. La sostennero in questo le caratteristiche di cui abbiamo già parlato. I cronisti dell’epoca la descrivono come una ragazza timida e modesta, che poco ama mettersi in luce ma la consapevolezza di essere portavoce di rilevanti valori e di dare rilevanza a chi non era riconosciuto la indusse a superare il limite della sua timidezza e ad affrontare le aule dei congressi penitenziari internazionali.
Per capire la portata del suo impegno bisogna innanzitutto soffermarsi sulla situazione delle carceri a fine Ottocento e sui dibattiti che si svilupparono a partire dalle istanze di Cesare Beccaria. Qual era la funzione della pena? Doveva essere intesa come vendetta della società, come punizione esemplare e deterrente o, al contrario, avere una funzione riabilitativa? Argomenti ancor oggi dibattuti, essendo sempre acceso il dibattito sulla recidiva e sulla situazione delle carceri.
Nella società dell’epoca i minori abbandonati a se stessi spesso venivano arrestati e giudicati per piccoli furti o per accattonaggio. Non vi era nessuna distinzione tra bambini, ragazzi e adulti. Esisteva un unico organo giudicante, una sola legge e un identico istituto carcerario. Le necessità dei detenuti erano a loro carico, non erano garantiti né vitto né vestiario che restavano a carico della famiglia o di benefattori. Riusciamo a ben immaginare le prigioni riandando col ricordo alle pagine de I miserabili o de Il Conte di Montecristo. Questo è il contesto in cui la giurista Lidia Poët decide di operare. Fondamentale per lei è la riabilitazione del detenuto che si può ottenere attraverso l’educazione e il lavoro.
Nel 1890, a San Pietroburgo, affronta il tema della riabilitazione dei minori. L'avvocatessa auspica interventi differenziati per il loro recupero. È necessario innanzitutto distinguere tra chi ha già commesso reati, ed è "corrotto moralmente", e chi è semplicemente abbandonato. Qual è il modo più efficace per procedere? Meglio affidare il giovane a famiglie volenterose o a case di correzione?
La risposta non è univoca, occorre distinguere per tipologie di rischio, è necessario integrare i due modelli. Lidia osserva che sarà difficile trovare famiglie disposte ad accogliere giovani criminali e, nel contempo, ingiusto rinchiudere in istituti i giovani abbandonati a sé stessi. È opportuna un'attenta valutazione del giudice che sappia cogliere il carattere del giovane e creare un percorso di recupero che possa anche prevedere un primo soggiorno in istituto e un successivo inserimento in famiglia. Secondo Lidia solo la famiglia può indirizzare al meglio i giovani e fornirgli un adeguato appoggio nell'inserimento nella società.
L'avvocata si interroga anche sulle caratteristiche che devono avere i direttori di questi enti di recupero. Non dovranno essere ex direttori di carceri, il loro cuore non dovrà essere indurito ma aperto alla comprensione e alla compassione perché il ruolo da ricoprire dovrà essere simile a quello di un educatore.
Nel 1925, a Londra, si occupa ancora una volta del recupero dei detenuti, questa volta si parla di adulti. Come ospitarli in carcere? Quali attività organizzare per favorire il loro recupero? Non bisogna pensare che le proposte di Lidia siano esclusivamente teoriche, afferma infatti di aver visitato di recente le carceri e di conoscerne la realtà. Ritiene che sia necessario classificare i detenuti in base alla gravità del reato commesso. Evitando la promiscuità sarà più facile abbattere la recidiva. Le maggiori energie dovrebbero concentrarsi sulla fascia d'età 20–35, quella che, a suo dire, è più facilmente recuperabile. Affinché il carcere sia rieducativo al detenuto dovrà essere insegnato un mestiere che sia confacente alle sue aspirazioni.
Il carcere doveva essere anche promotore di cultura. Avrebbe dovuto organizzare "conferenze o lezioni su temi morali, storia e politica tenute da persone che sanno renderle interessanti ed educative" e creare occasioni di intrattenimento, favorendo la recitazione o l'insegnamento della musica anche grazie la collaborazione con persone estranee al carcere.
In tutte le sue proposte non manca l'attenzione al lato pratico. Lidia è conscia dell'impegno economico per la realizzazione di queste riforme. Auspica perciò la creazione di diverse tipologie di carceri a cui assegnare i detenuti. Sconsolante constatare che, nonostante il passare del tempo, il tema del sovraffollamento non sia ancora stato risolto.
L'impegno dell'avvocata era anche concreto, testimoniato sia dalle visite presso le case circondariali, sia dalle testimonianze orali che la vogliono ideatrice di programmi di lavoro per le detenute che avrebbero creato i poggiatesta dei sedili dei vagoni di prima classe delle ferrovie. In quest'ottica si deve considerare la collaborazione con la scuola di ricamo Bandera testimoniata dal conferimento di una medaglia da parte della giuria dell’esposizione internazionale di Torino del 1911. Sarebbe certamente orgogliosa del progetto che Nadia Caro, rappresentante dell’associazione Toponomastica Femminile, ha promosso presso il carcere di Padova. I biscotti toponomastici (intitolati a numerose figure femminili, tra cui Lidia Poët) contribuiscono al recupero dei detenuti abbassando la recidiva dall’86% al 4%.
L’impegno di Lidia Poët andò pari passo con i tempi. Pur non approvando i metodi delle suffragiste inglesi non si sottrasse all’impegno per l’emancipazione femminile e l’ottenimento del diritto di voto. Fin dal 1903 aderisce al Consiglio Nazionale delle Donne Italiane (CNDI) e, in qualità di consulente legale, segue i lavori della sezione giuridica.
Fu tra le organizzatrici dei primi congressi femminili italiani che si tennero nei primi anni del Novecento per la piena emancipazione della donna attuabile solo attraverso l’abolizione dell’istituto giuridico dell’autorizzazione maritale e la concessione del diritto di voto.
La rivista "La donna" con un'immagine del primo Congresso delle donne italiane a Roma nel 1908, al cui programma Lidia Poët partecipò attivamente, e lo stesso congresso rappresentato da "La Domenica del Corriere".
Nei congressi si misero all’ordine del giorno anche altri argomenti, ancor oggi attualissimi come si legge negli atti del congresso del 1914 che si riporta integralmente:
l'ammissione delle donne alle funzioni di tutori, la vigilanza del magistrato e il patrocinio scolastico per la protezione fisica e morale dei minori, il divieto di presenza dei minori nelle udienze penali di Tribuni e corti di giustizia, la privazione della patria potestà per i genitori che si rendono indegni o che sono riconosciuti incapaci; assistenza immediata ai minori i cui genitori sono in carcere, in ospedale o abbandonati; il divieto di ammettere minori a spettacoli cinematografici offensivi della morale; il divieto di servire negli esercizi bevande alcoliche ai minori; la regolamentazione del lavoro dei minori aumentando i limiti di età e riducendo l'orario di lavoro che non può superare le otto ore giornaliere per i ragazzi al di sotto dei sedici anni e per le ragazze al di sotto dei ventuno anni; l'aumento del limite di età per i delitti contro la morale delle vittime a quattordici anni invece di dodici, e a diciotto anni invece di sedici, e la pena aumentata al massimo per le scritte e le immagini oscene esposte al pubblico.
Dal 1922 fu presidentessa del Comitato pro-voto di Torino dove si adoperò per il suffragio femminile.
Nella sua tesi di laurea Lidia Poët, disquisendo di tutt’altro, scrisse nel 1881: “Terremmo collo Stuart Mill essere un ben che si tolgano i ceppi agli esseri umani anche quando non desiderano camminare”. Ritengo che queste parole, più di tante altre, possano racchiudere il senso della sua esistenza e della sua dedizione per i diritti degli emarginati. Togliere i ceppi anche a chi non desidera camminare rende il senso dell’impegno che caratterizzò la sua vita. Si legge ancora:
Credo che unendosi le qualità degli uni a quelle delle altre, contemperandosi le esagerazioni e le imperfezioni reciproche, si giungerebbe a quella armonia migliore desiderabile tanto nello Stato, che è pure la grande riunione delle famiglie, quanto nella famiglia stessa.
Copertina della tesi e diploma di laurea di Lidia Poët, 1881.
Eccoci tornare al concetto del reciproco riconoscimento, elemento fondamentale per il superamento delle diffidenze e delle differenze; condizione necessaria e indispensabile per una fattiva crescita della società. Tornando alla definizione di Bruna Peyrot che ritiene che la cultura valdese stia “sempre sulla frontiera di qualcosa” possiamo domandarci se Lidia avvertisse questa linea di demarcazione. Alla luce di quanto esposto la mia risposta è affermativa.
La prima avvocata d’Italia ben avvertiva la linea che delinea il mondo del possibile da quello dell’irrealizzabile, che separa gli emarginati dagli inclusi, che differenziava i diritti degli uomini da quelli delle donne. Lidia stava su questa linea con la volontà e la forza di chi lotta per abbattere le barriere che tengono separate le due parti. La dichiarazione rilasciata nella sua ultima intervista “Sono come un lampione, all’angolo di una strada, dove non passa più nessuno” ci riporta al motto valdese Lux lucet in tenebris ma rileva anche una profonda amarezza e disillusione, quasi la certezza, di aver vinto fondamentali battaglie ma non la guerra.
Non le si può dare del tutto torto se, ancora oggi, la nostra società si interroga sull’effettiva emancipazione femminile. A noi raccogliere la sua eredità per non rendere vano il suo lavoro.
SITOGRAFIA