Atto I (“In soffitta”) dell’opera “La Bohème” interpretata al Teatro dell’Opera svedese (Kungliga teatern) nel 1901. Fotografia di Anton Blomberg.
La storia letteraria delle soffitte comincia probabilmente con un passo di Ferragus di Balzac del 1833, un racconto in cui la città di Parigi è la vera protagonista. Essa viene descritta come un animale mostruoso (una specie di aragosta) in cui tutte le parti sono connesse, a partire dalle soffitte, che corrispondono ai cervelli squattrinati, per poi passare ai primi piani, fatti di stomaci felici, e ai piedi delle attività commerciali che muovono i loro passi in tutte le direzioni. Questa pagina deve avere agito in profondità sugli scrittori italiani che giudicavano le loro ben più modeste, ma anch’esse in via di trasformazione, città.
A Torino un primo colpo d’occhio su una realtà urbana ottocentesca, non più solo centro burocratico o militare, ci viene spesso offerto dall’ intellettuale che si inurba. È così che Angelo Brofferio la descrive ne I miei tempi narrando nel settimo volume l’arrivo con la sua famiglia astigiana a Torino, intorno al 1814.
All’occhio del ragazzo, arrivato col padre a prendere visione dell’alloggio in via d’Angennes, la città sembra inizialmente molto prosaica e provinciale: all’entrata in casa Mejna incappa addirittura in un portiere che fa anche il materassaio. Ma poi dal terzo/quarto piano del suo appartamento può accedere a una soffitta, la quale dà a sua volta apre la strada a una sorta di “torre diroccata dove si sarebbe potuto giurare che Simon Mago facesse una volta gli scongiuri suoi”, e in quella soffitta lui si accampa.
Quella catapecchia in mezzo alle nuvole mio padre la chiamava la specola; io invece la chiamava la reggia di Alboino, perché da essa in pochi giorni mi avvezzava a camminare sulle tegole sottoposte colla sicurezza di un conquistatore che piglia possesso della soggiogata terra; e tutto un vasto isolato, nel quale abitava far gli altri il conte Prospero Balbo, stava sotto i miei piedi, e quelle piccole formiche dette uomini che si agitavano giù nelle profonde vie di sotto gli occhi mie appeno io le degnava di uno sguardo.
La prima soffitta torinese che viene descritta, crediamo, nella letteratura torinese ottocentesca fa sentire il giovane un conquistatore, ben al di sopra anche del potente conte Balbo, all’epoca capo della polizia torinese: “stanco di passeggiare in piazza dove fra il fasto insolente della capitale mi ravvisava l’ultimo dei mortali, io saliva sui tetti e diventava il primo”.
Analoghe descrizioni vengono offerte da Vittorio Bersezio, in un altro libro di memorie (I miei tempi) che ha lo stesso titolo di quello di Brofferio, ma fu pubblicato circa cinquant’anni dopo, in quel 1899 in cui una città ormai industriale sfiorava per la prima volta contraddizioni sociali:
La popolazione dividevasi in tre classi: ceto nobile, ceto medio, ceto infimo, e ciascuna si spartiva in sottoclassi: aristocrazia vecchia e nuova, borghesia grassa e magra, popolo e plebe. L’aristocrazia antica, quasi esclusivamente di origine feudale, aveva resi e rendeva importanti servigi alla monarchia e al paese, col valore in guerra, col talento in diplomazia e nella magistratura, e andava giustamente altera, non dissimulando la sua poca stima per gli ordini inferiori, sprezzosa e disdegnosa forse più di ogni altro, della nobiltà nuova.
[…] L’alta borghesia comprendeva gli arricchiti da ultimo, i quali, alla lor volta, picchiavano alla porta della nobiltà nuova, per essere ammessi e comprare un titolo di barone o di conte.
[…] Più intelligente la borghesia media, che componevasi delle professioni liberali, legulei, medici, ingegneri professori, e maestri, artisti e modesti proprietari rurali indipendenti. La piccola borghesia contava i mercantuzzi da non largo fondaco, i bottegai, smerciatori, di derrate, osti, caffettieri, mediatori, e si distingueva per una gran riverenza verso la nobiltà vera e antica. La plebe (tutti i lavoratori manuali) era rispettosa, non servile, operosa, non scevra di vizi, ossequente alle autorità, degna di questo popolo che il Botta chiamò il meglio fazionato a governo.
È chiaro che la divisione è netta ma rassicurante, anche se non priva di strali verso quella nobiltà presuntuosa e strafottente e quell’alta borghesia poco sapiente. Ma è proprio nella descrizione della coabitazione delle diverse classi che Bersezio si distanzia da Brofferio:
Un palazzo torinese era un modello in azione del corpo sociale. A pian terreno le botteghe, e negli ammezzati i bottegai; al piano superiore, che si chiamava superbamente piano nobile, l’aristocrazia e la ricchezza; negli altri piani successivi la borghesia sempre minore di grado, a seconda che si saliva, e da ultimo sopra i tetti, nelle soffitte, la plebe. Non si poteva rimanere affatto estranei gli uni agli altri nelle fasi dell’esistenza.
[…] Alla moglie del merciaiuolo che aveva partorito, il piano nobile mandava il brodo ristretto e i confetti e qualche bottiglia di buon vino per le allegrie del battesimo; al capezzale della povera madre, che dolorava in pericolo di vita all’ultimo piano, saliva anche la marchesa a recare soccorso di buone parole, di assistenza, all’uopo di denaro; agli orfani dell’operaio ucciso dalla disgrazia sul lavoro, il potente inquilino di rispetto permetteva e dava la sua efficace protezione.
Questa volta il calco da Balzac è trasparente. Se nel testo di Brofferio non mancava la realtà dura della servitù, qui si risolve tutto con un interclassismo caritatevole, e la rabbia delle classi più sfortunate può al massimo sfociare nell’invidia, ma mai nell’odio o nella distruzione. Sono parole scritte dopo quella che fu forse la più grande paura che la borghesia dovette subire nella sua esistenza, e cioè l’anno terribile del ‘98. Ma Bersezio vuole velatamente escludere che la ribellione sociale sia un elemento autentico piemontese, e lo considera “importato”.
Bozzetti di Adolfo Hohenstein per la Bohème del 1896 del Teatro Regio di Torino (Archivio Storico Ricordi © Ricordi & C. S.r.l. Milano - www.archivioricordi.com).
Una altrettanto tranquillizzante, sebbene larmoyante, immagine delle soffitte, la troveremo a Torino nel 1896 nella prima torinese di Bohème, il cui libretto di Illica e Giacosa, alla poetica povertà delle mansarde dei pittori, è dedicata. Così la scena del primo quadro: "Ampia finestra dalla quale si scorge una distesa di tetti coperti di neve. Una tavola, un letto, un armadietto, una piccola libreria, quattro sedie, un cavalletto da pittore con una tela sbozzata sullo sgabello". E la mitologia sentimentale dell’artista da povero risorgerà potentemente nello scritto di Emilio Salgari La bohème italiana, in cui la soffitta diventa la “topaia” e che fu pubblicato da Bemporad nel 1909.
La stratificazione sociale della città è tema, sempre in quel fatidico 1898, di De Amicis. Nello scritto Tre capitali, lo scrittore, che pure aveva già aderito al socialismo, è preso dalla celebrazione storica dell’Unità e la cifra peculiare delle vie e dei palazzi di Torino è per lui, la democraticità:
Non c’è il palazzo vistoso del gran signore, che schiaccia gli edifizi circostanti, e dà l’immagine d’una vita splendida e superba. L’architettura è democratica ed eguagliatrice. La distribuzione delle classi sociali a strati sovrapposti, dal piano nobile ai tetti, toglie alla città quelle opposizioni visibili di magnificenza e di miseria che accendono nell’immaginazione il desiderio inquieto e triste delle grandi ricchezze. Girando per Torino si prova piuttosto un desiderio di vita agiata senza sfarzo, d’eleganza discreta, di piccoli comodi e di piccoli piaceri, accompagnati da un’operosità regolare, confortata da un capitale modesto ma solido come i pilastri dei suoi portici, che dia la sicurezza dell’avvenire.
In tale descrizione Torino smarrisce ogni complesso di inferiorità con Parigi e lo scrittore cerca di convincere il lettore della bellezza di una città che ha una sua grazia “metastasiana” con le sue strade schierate in ordine stretto e lineare come un esercito, dettate da “l’abitudine delle passioni contenute”. Anche Deamicis però insiste come Bersezio nella coabitazione interclassista, pur annotandola in modo meno paternalista:
Si trovano degli angoli ariosi tranquilli e simpatici, che fanno pensare alla vita raccolta dì un buon caposezione giubilato, che vada ogni giorno a quell’ora a leggere il giornale al caffè vicino e a far la sa passeggiata igienica nel viale accanto, ed abbia la sua oretta fissa per la visita galante a una buona amica di quarant’anni; piccoli crocicchi puliti, d’aspetto giovanile, formati da alte case poderose, che dominano un vasto orizzonte, dentro alle quali par di vedere le camerette di tanti studenti di provincia poveri ma di buona razza piemontese che martellino ostinatamente sui libri, menando una vita di sacrifizi, per prepararsi un avvenire onorato e lucroso.
Non c’è nulla di colpevole nella pacata ambizione di questi studenti di provincia di un avvenire sereno e florido, così come non c’è nulla di eccessivo nel desiderio di quell’impiegato giubilato di una rendita fissa e di una lettura di giornali al caffè. Il nostro impiegato deamicisiano desideroso di un parco benessere è già una prefigurazione del cavalier Bianchini, uno dei più interessanti personaggi di Primo Maggio, il romanzo sociale incompiuto di De Amicis. Così infatti veniva caratterizzato:
I suoi piaceri erano molto modesti. Una passeggiata igienica la mattina per i viali di piazza d’armi leggendo la Gazzetta del Popolo, due buoni pasti fatti con buon appetito, il vermouth, il sigaro Cavour, gli amici del caffè Londra la sera, quando non accompagnava moglie e figliuola in società o al teatro, e un buon sonno filato di otto ore.
È proprio il signor Bianchini il “travetto” berseziano divenuto buon borghese che incarna Torino e la sua aurea mediocritas, ed è interessante che il romanzo incompiuto si apra con un suo girovagare per la città in cui cerca, spaventato, di cogliere i tratti minacciosi della manifestazione incombente del Primo Maggio. Se in una città così impietosamente ortogonale non è possibile nessuna flânerie, è vero che il percorso familiare da casa al caffè si complica per lui e diventa un labirintico rimbalzo per capire dove il pericolo addenserà le masse dei rivoltosi. E, alcuni capitoli più avanti, la plebe minacciosa che si affolla a un passo dell’abitazione del signor Bianchini, oltre piazza Statuto appunto, rumoreggia sotto le sue finestre, tira i sassi contro i lampioni del gas, svillaneggiando (secondo sua moglie) l’esercito. Alla fine (nel finale mai definitivo) la morte tragica del figlio del Bianchini rende evidente come sia impossibile per il corretto e pietoso buon borghese, mantenere una neutralità verso i conflitti di cui la città sta diventando teatro.
Più drammatico del quadro di De Amicis solo Giovanni Cena ne Gli Ammonitori, racconto che fu pubblicato sulla Nuova Antologia nel 1906 e in cui l’autore, ormai trasferitosi a Roma, evocava gli anni della bohème studentesca a Torino, nel palazzo dove aveva vissuto, e che si situava proprio in via San Donato, al numero 21 bis. Nel romanzo le soffitte diventano livide e la miseria disperata e tangibile. Non si tratta più di mogli di operai che stendono i loro “miseri cenci” (puliti, pertanto) ma di persone che muoiono di fame, di alcolizzati che lasciano mogli e figli senza pane. La scena si svolge in un palazzo proprio di quella via San Donato ricordata da De Amicis, come luogo extra moenia. Il protagonista, Martino Stanga tipografo ingegnoso e autodidatta, abita appunto in una soffitta raggiungibile con 142 scalini:
Io non avevo mai badato di proposito agli inquilini delle soffitte. Uscivo la mattina, alle cinque d'estate, alle sei d'inverno, e non tornavo che la sera tardi, stanchissimo. Qualche bestemmia di ubbriaco, qualche urlo di donna percossa, qualche strillo di bimbo, le martellate di un calzolaio matto, chiamato Cimisin, mi destavano talvolta d'improvviso, ma non mi davano inquietudine. A poco a poco, senza volerlo, vidi chi fosse l'ubriacone e la donna percossa che stavano entrambi nella soffitta attigua alla mia, e parecchi degli squallidi abitanti di quel lunghissimo corridoio a ferro di cavallo, fiancheggiato d'una quarantina di cellette dall'uscio color caffè, quasi sempre chiuse lungo il giorno e piene la notte di agitazioni e di sonni più pesanti che la morte.
L’immagine ideale del proletariato proposta da Primo Maggio si trasforma nell’impietosa descrizione di Cena. Non è simile a quella che l’operaio Barra raccontava al professor Bianchini:
Sì, quasi tutti i giovani operai che venivan su, eran per la causa, perché intendevan le cose meglio dei vecchi. Ed erano i meglio della classe perché capivano che bisognava istruirsi, portarsi con dignità, rendersi degni del nome di socialisti. Quelli là non s'ubbriacavano, non battevan la moglie, non sacrificavano una conferenza a una partita alle bocce. Eran giovani di cuore, che davan l'ultimo centesimo per aiutare un compagno di fede gettato sul lastrico, che compravano i giornali del partito per chi non aveva soldi, e che quando si trovavan senza lavoro, sopportavano l'appetito con coraggio, senza commetter bassezze.
Nel condominio di Cena questa aristocrazia operaia non sembra essere entrata. Se al pian terreno permane un personaggio bizzarro e allegro, il calzolaio che ricorda nei suoi momenti canori un poco il materassaio di Brofferio, man mano che si sale verso le soffitte la vita diventa più pesante e il protagonista vi scopre con sgomento di non potere veramente assaporare neppure la solitudine:
La mia vita, il lavoro, le lezioni serali all'Università Popolare, mi ripresero. Ma rincasando tardi, mentre sedevo a sbrigare i miei còmpiti sotto la lampada a petrolio, davo più retta ora ai rumori della soffitta, alla vita notturna di quella specie di chiostro aereo ove nessuno conosceva o vedeva forse mai il vicino; esseri umani le cui sofferenze, le cui gioie di un attimo, i cui riposi pesanti, divisi soltanto da un sottil muro, gettavan nei corridoi rumori indistinti, vagiti, gemiti, ronfi, bestemmie. E allora sentivo qualcosa che entrava in me, qualcosa di tutti quegli esseri, con un senso quasi di molestia: pareva che la lor vita grave pesasse sulla mia: non mi sentivo più libero di esser solo: non ero più solo: coloro m'imponevano qualcosa ch'io non accettavo se non con riluttanza.
Il chiostro aereo richiama l’immagine dell’intellettuale nel suo nido d’uccello, di Balzac o di Brofferio, e la sofferenza comune del palazzo ha dei punti in comune con l’organismo mostruoso di Balzac, ma di nuovo il “sottil muro” che divide gli inquilini fa gravare la sofferenza degli uni sugli altri, senza possibilità di fuga. Le soffitte, spiega il protagonista alla dottoressa che le visita, raffigurazione letteraria di Gina Lombroso, non sono abitazioni umane ma “nidi da gufi per gente che non lavora e non mangia”. Intanto la stratificazione sociale diventa un’ascesa nel freddo:
Eravamo giunti al nostro palazzo. Aprimmo: dallo scalone coperto di tappeto, intiepidito dal calorifero, alla scaletta nuda del nostro lubbione, i gradini erano sempre più alti: traversavamo così ogni sera tutte le zone della società: caldo, temperato, freddo: noi eravamo al polo.
In questo allontanarsi dal tepore è ben indicato il senso di una distanza ormai incolmabile fra le classi: quello che veniva percepito da Brofferio come privilegio intellettuale dello studente squattrinato e da Bersezio come coabitazione pacifica, ormai si è trasformato in uno stacco drammatico e definitivo di due razze. E qui è chiaro che Cena è debitore di altre rappresentazioni letterarie e soprattutto di quella, celeberrima, del palazzo di Rue La Goutte d’Or dell’Assommoir di Zola. Quel palazzo, enorme e labirintico, in cui la protagonista Gervaise sogna di abitare all’inizio del racconto e che si trova appunto alla periferia di Parigi, fuori dalla cinta daziaria. I poveri sono stati sospinti già nella Parigi del dopo 1848 tratteggiata da Zola verso l’esterno della città. Una simile trasformazione a Torino la potremo ritrovare solo molto più tardi, in parte con il racconto La maestrina degli operai, sempre di De Amicis, oppure, col nuovo secolo, con i romanzi molto meno noti di Mario Sobrero. In Violetta di Parma (1920) si descrive, nel primo capitolo, il palazzo in cui il protagonista affitta una camera:
Vagando su mare dei tetti lo sguardo di Guido capitò all’incirca, sulla sua casa; alla quale serviva di freccia indicatrice l’acuto campanile di San Giovanni Evangelista. Era uno di quei grandi casamenti alla parigina, pieno di pretese nella facciata, che dentro sono come una sintesi del mondo: ai primi piani vasti alloggi di signori, e più in su famiglie modeste, e delle soffitte povera gente a mucchi.
In Violetta di Parma, il primo romanzo di Mario Sobrero, autore quasi dimenticato che fu fratello di Emilio, pittore non mediocre della scena torinese legato alla scuola del primo realismo novecentesco, le vie delle lunghe passeggiate del protagonista sono sempre precisamente nominate e Torino è concreta e riconoscibile. Nel secondo romanzo di Sobrero, il prezioso Pietro e Paolo, che dipinge la scena operaia torinese del Primo Novecento, ambientato nell’atmosfera drammatica dei giorni della fine della Prima Guerra mondiale e del cosiddetto Biennio Rosso i luoghi divengono più sfumati, quasi simbolici e universali. Qui è compiutamente la scena di un caseggiato operaio quello in cui si svolgono i fatti principali, le vicende dei nipoti dell’ex giudice Davide Artero, e cioè sua madre, suo fratello e i suoi figli, fra cui spicca Pietro, votato alla causa rivoluzionaria e poi vittima degli scontri del dopoguerra. Ecco la casa in cui vive la famiglia “proletaria”:
Ogni volta che Davide Artero penetra nel grande casamento, si sente stringere il cuore. Innumerevoli generazioni sembrano aver lasciata nell’edificio l’impronta del loro passaggio; ed è costruito da pochi anni. Ai finestroni delle scale non uno dei vetri colorati è salvo; neri sono gli scalini e le pareti; davanti alla canna della spazzatura bisogna scansare immondi residui. Sui pianerottoli si rincorrono gridando dei fanciulli che dall’alto le madri chiamano a perdifiato. Dagli usci, socchiusi a dar aria ai quartieri angusti, si intravvede gente scamiciata tra un disordine di vecchie suppellettili. […] Pietro e la sua famiglia abitano al quinto piano in poche stanze soffocate e ingombre. Per giungervi, sul ballatoio che sovrasta vertiginosamente il cortile chiuso fra case altissime, bisogna passare davanti all’abitazione di tre altre famiglie.
Sono cambiate le coordinate rispetto al romanzo naturalista: sappiamo che ci troviamo in una Torino periferica, perché riscostruiamo la passeggiata di Davide, giudice in pensione, che si reca a trovare all’altro capo di Torino la famiglia di suo fratello operaio, ma la topografia è vaga e simbolica insieme, lascia suggerire un paesaggio urbano comune a tutte le città industriali. In rilievo sono i sentimenti di Davide, mentre attraversa i luoghi operai, più che gli elementi esterni, e la madre stessa è raffigurata, per quanto in città, con i panni e le attitudini di una contadina: “Solida e pesante come un cavallo da fatica, essa gira per la cucina con la sottana infilata nella cintura per tenerla rialzata, secondo l’uso delle contadine.”
Il secondo dopoguerra aprirà le soffitte ad altre migrazioni che provenivano da più lontano ancora. Ma questa, per ora, è un’altra storia.