Illustrazione © Giuseppe Conti
Era nato con l’Unità d’Italia, Guido Boggiani, il 20 settembre 1861, a Omegna. Di famiglia facoltosa e di tradizione progressista, a diciassette anni Guido si era iscritto all’Accademia di Brera per studiarvi pittura, ma era anche un apprezzato pianista, e con uno spiccato interesse per le scienze, ereditato probabilmente dalla madre, figlia di un docente di zoologia dell’Università di Torino. Lavorò come giornalista, e sviluppò un interesse precoce per una nuova forma di arte visiva: la fotografia.
Spirito eclettico, Guido Boggiani. Venne molto lodato da Gabriele D’Annunzio, che lo volle sul proprio yacht in un giro delle isole greche. Fu proprio durante l’esplorazione delle rovine classiche al fianco di D’Annunzio e di altri intellettuali che Boggiani si appassionò alla fotografia.
Ma era e si considerava ancora un pittore, Boggiani. Un suo dipinto venne acquistato dal Museo Nazionale di Modena per 6.000 lire dell’epoca (una cifra ragguardevole), e nel 1887 espose una selezione delle proprie opere alla Mostra di Venezia: Gli ulivi a Francavilla al Mare, Sentiero a Lago Maggiore, Villaggio sul Lago Maggiore, e Ortensie.
Fu un successo, e l’artista venne invitato ad esporre le proprie opere in Argentina. E fu in Argentina che, parlando con alcuni italiani emigrati in Paraguay, Guido Boggiani sentì parlare per la prima volta della regione del Chaco, e ne rimase affascinato.
Oggi il Chaco (il nome deriva dal dialetto Quechua e significa “territorio di caccia”), regione del Mato Grosso al confine fra Brasile, Argentina, Paraguay e Bolivia, è un’area in rapido disboscamento, e la giungla sta cedendo il posto ad allevamenti intensivi di bestiame; la regione è famosa soprattutto per essere stata il teatro della più lunga guerra di confine combattuta in Sud America, proprio tra Bolivia e Paraguay, fra il 1932 e il 1935.
Ma nel 1887 il Chaco era ancora ampiamente inesplorato e incontaminato, popolato di tribù indigene che avevano avuto contatti minimi con la civiltà. E così nel 1888, Guido Boggiani si recò nel Chaco, con la scusa di commerciare in pelli e animali, ma in realtà per esplorare quei luoghi sconosciuti.
Prese contatto con gli indigeni Chamacoco, e nei cinque anni successivi raccolse appunti e materiale che, una volta tornato in Italia, gli permisero di mettere mano a una serie di raffinati studi etnografici. Il materiale raccolto venne ceduto a diversi musei: al Museo Kircheriano (oggi Museo Etnografico di Roma Luigi Pigorini), al Museo di Storia Naturale dell’Università di Firenze, al Museum für Völkerkunde di Berlino e al Museo di Stoccarda. Il Museo Civico di Storia Naturale di Genova acquisì la collezione di esemplari di flora e fauna del Chaco.
I Chamacoco fotografati da Guido Boggiani © Pavel Scheufler.
Nel 1896 Boggiani tornò nella giungla, questa volta con le migliori macchine fotografiche sul mercato, e con tutto il necessario per sviluppare le lastre fotografiche di vetro, e cominciò a muoversi fra i villaggi della regione, fotografando gli Indios. Era sua convinzione dichiarata che solo attraverso una ricca documentazione fotografica sarebbe stato possibile studiare in maniera scientifica queste popolazioni.
Svolgendo la propria ricerca, Boggiani cartografò in dettaglio la regione, e fu il primo a documentare la pratica delle pitture corporali della popolazione Kadiweu.
Una parte delle sue oltre 500 fotografie vennero acquistate dal Museo Etnografico di Berlino.
Il 24 ottobre 1901, Boggiani lasciò la cittadina di Asuncion insieme col suo assistente e cuoco personale, Felix Gavilan, e scomparve.
Una sua lettera del 1902, nella quale Guido Boggiani descriveva i piani della spedizione, raggiunse suo fratello in Italia. Boggiani spiegava la propria intenzione di mettersi sulle tracce di una fantomatica tribù di “indiani barbuti”, nella regione abitata dai tumanà, una tribù nota per essere ostile agli stranieri.
Poi il nulla.
E fu solo nel 1904 che la comunità italiana di Asuncion decise di organizzare, attraverso l’istituzione di un “Comitato Pro Boggiani”, una spedizione per scoprire cosa fosse stato del fotografo, e ingaggiò lo spagnolo José Fernandez Cancio per guidarla.
Nell’ottobre di quell’anno, Cancio rinvenne i resti di Boggiani. I Chamacoco lo avevano ucciso e poi avevano distrutto il suo cranio, ipoteticamente per impedire alla sua anima di tornare a perseguitarli. Felix Gavilan aveva subito la stessa sorte.
All’epoca la spiegazione ufficiale fu che la paura superstiziosa dei “selvaggi”, terrorizzati dall’idea che la macchina fotografica rubasse loro l’anima, avesse spinto gli Indios a uccidere l’italiano.
La sua macchina fotografica era stata sepolta, e ancora oggi molti sospettano che una quantità di lastre fotografiche siano sepolte da qualche parte nelle foreste del Chaco.
Esiste però anche un’altra storia, che un indio di nome Luciano, che aveva spesso viaggiato con Boggiani, avrebbe raccontato a José Fernandez Cancio. Stando ad un articolo pubblicato nel 1998 sul quotidiano brasiliano Folha de São Paulo, la vera ragione dell’omicidio di Boggiani fu molto più prosaica: sorpreso mentre si intratteneva con una giovane in un villaggio, il fotografo italiano era stato aggredito da uno degli Indios (forse lo stesso Luciano), che in preda alla gelosia, gli aveva spaccato la testa con un’ascia di pietra. Il successivo “rituale contro gli spiriti” sarebbe stato tanto una precauzione sovrannaturale quanto un sistema per far sparire le prove.
È interessante a questo punto notare, tuttavia, che una storia praticamente identica — dalla tresca con la bella indigena alla distruzione del cranio della vittima — circola anche riguardo al Colonnello Percy Fawcett, esploratore inglese scomparso nel Mato Grosso nel 1925 (e un personaggio che tornerà presto ad essere popolare, vista l’imminente uscita di un film sul mistero che circonda la sua scomparsa).
Una coincidenza per lo meno curiosa, ma che fa sorgere dei dubbi. Si tratta forse della stessa storia, dello stesso cliché dell’esploratore ucciso dai selvaggi mentre seduce la bella indigena, riciclato in circostanze diverse?
Ci stiamo addentrando in un territorio pericoloso, quello delle testimonianze non documentate, riferite attraverso il passaparola a distanza di un secolo. Ed è perciò corretto affermare che le esatte circostanze della morte di Guido Boggiani restano ad oggi avvolte nel mistero.
Ma la storia non finisce con la morte di Boggiani, perché davvero l’arte, a suo modo, garantisce una forma di immortalità.
Il rientro in Italia delle proprietà di Boggiani (il suo corpo rimase nel cimitero italiano di Asunciòn) venne organizzato dall’esploratore Alberto Vojtech Fric, il quale ricevette in pagamento per la sua assistenza 400 lastre fotografiche sviluppate dall’italiano durante la sua permanenza nel Chaco. Queste fotografie vennero successivamente ereditate dal nipote dell’esploratore cecoslovacco, un fotografo ed etnografo che nel 1997 ne pubblicò una selezione in un volume edito a Praga che riportò all’attenzione del mondo accademico e del mondo dell’arte e della fotografia l’opera pionieristica di Boggiani. Le fotografie della famiglia Fric furono successivamente l’oggetto di una mostra tenutasi in Brasile nel 2000, con notevole successo. Le foto infatti non solo sono di una qualità straordinaria considerati i mezzi dell’epoca, ma riprendono la vita dei Chamacoco e dei Kadiweu con estrema naturalezza.
Segno che Boggiani aveva davvero conquistato la fiducia degli Indios, o una prova che li fotografava di nascosto e, una volta scoperto, questo precipitò la situazione? Anche questa ipotesi, per quanto improbabile, non si può escludere.
Certo ancora nella seconda metà del ventesimo secolo i Kadiweu ricordavano Boggiani, e le loro donne si mostravano quantomai disponibili a lasciarsi fotografare, come scoprirono Levi-Strauss (che cita Boggiani nel suo Tristi Tropici) e Darcy Ribeiro nelle rispettive spedizioni etnografiche. L’atteggiamento delle donne davanti all’obiettivo suggerì a Levi-Strauss che Boggiani avesse spiegato ai suoi soggetti cosa stesse facendo con l’ingombrante treppiede della sua macchina fotografica.
Dal canto suo Ribeiro interrogò gli anziani delle tribù, che gli raccontarono storie di seconda mano su Boggiani, inclusa quella secondo la quale avrebbe avuto una moglie (o secondo altre versioni un amante omosessuale) appartenente proprio alla tribù dei Kadiweu. Per le sue tendenze omosessuali — considerate perfettamente accettabili dagli Indios — Boggiani sarebbe stato anche soprannominato “Lilli” dai Kadiweu, e molti ripeterono quel nome nell’osservare le fotografie proposte loro da Levi-Strauss e Ribeiro.
L’avventura iniziata sulle rive del Lago Maggiore e terminata tragicamente nelle giungle del Mato Grosso fece di Guido Boggiani un pioniere della fotografia e un’importante figura nello studio etnografico e antropologico delle popolazioni del Sudamerica, e l’artista è oggi ricordato con rispetto e ammirazione sia per le sue fotografie che per la ricchezza e profondità delle informazioni che raccolse nei quasi tredici anni trascorsi nella giungla.