Nel 1983, in occasione del centenario della nascita della scrittrice Maria Catella, Gustavo Buratti fece pubblicare, sulla Rivista Storica Biellese, il saggio intitolato 1883–1983. Maria Giusta Catella. Una scrittrice biellese da non dimenticare. A poco è valsa anche la successiva ristampa di due romanzi della scrittrice, che è purtroppo rimasta sconosciuta al grande pubblico. Eppure Maria Catella non merita l’oblìo a cui è stata condannata per troppi anni, vista la modernità delle sue posizioni e la lucidità delle analisi contenute nei suoi romanzi. Noi di Rivista Savej diamo il nostro piccolo contributo affinché la piemontese continui a essere letta e ricordata.
Maria Catella, prima di tre sorelle, nasce a Vercelli il 31 maggio 1883. Suo padre è il biellese Eugenio Catella, la cui famiglia appartiene all’agiata borghesia cittadina. Ingegnere, dopo aver contribuito all’elettrificazione delle ferrovie sarde, torna a Biella, dove viene eletto consigliere comunale e presidente del Consiglio di Direzione dell’Ospedale degli Infermi. La madre, Ida Pietra, viene dalla ricca borghesia agraria vercellese. Il padre, intanto, acquista una villa con splendido giardino al Piazzo, quartiere signorile di Biella. Maria vi trascorre l’infanzia e la prima giovinezza — intervallate da periodi presso la cascina Portone, di proprietà dei Pietra, a Vinzaglio, angolo di terra conteso tra le province di Vercelli, Novara e Pavia. A Biella conosce Frida Maurin Mader. Di origini tedesche, scrittrice e poetessa, moglie del pastore valdese Giovanni Daniele Maurin, Frida diventa l’amica più cara e la confidente più intima di Maria.
La giovane, come si diceva allora, era nata “nel bene” e la sua vita pareva essere in discesa. Eppure, a diciassette anni, Maria conosce la prima di una lunga serie di delusioni. Un medico di Torino l’incontra e se ne innamora all’istante; si trasferisce a Biella e si dice pronto a sposarla. Quando tutto è pronto per le nozze, il promesso sposo pretende centoventimila di dote: il padre, indignato, rifiuta e Maria, per qualche tempo, cade in preda alla disperazione.
Devono passare quattro anni prima di cedere alla corte del professore e poeta Giuseppe Giusta. Il matrimonio questa volta si celebra, il 16 luglio 1904, a Biella. In seguito la coppia si trasferisce a Ivrea, dove il docente insegna al Collegio Nazionale. Dopo un primo periodo di felicità, Maria si accorge di essersi imbattuta nella seconda delusione della sua breve esistenza: l’unione matrimoniale non fa per lei, e l’ambiente piccolo-borghese cittadino la intristisce giorno dopo giorno. Nemmeno la nascita del figlio Eugenio, nel 1909, riesce a sollevare le sorti del matrimonio. Solo nella scrittura Maria trova uno sfogo alle proprie frustrazioni. Alcuni giornali iniziano a pubblicarle alcuni racconti, e nel 1915 lo Studio Editoriale Lombardo di Milano accetta di stampare il romanzo La casa senza lampada.
Ambientato in località Scavarda, a Vinzaglio (Novara), il romanzo registra la decadenza di una famiglia di proprietari terrieri, i cui membri, sterili e passivi, appaiono minati dalla malattia e dalla follia. A questo nucleo familiare “privo di luce” fanno da contraltare il vigore dell’ambiente naturale (al quale sono dedicati lunghi squarci descrittivi nei quali la scrittrice si esibisce in tour de force linguistici) e l’esuberante vitalità dei lavoratori delle risaie. La crisi della classe padronale è evidente nell’incapacità di comprendere le sacrosante preteste che agitano il mondo contadino.
Delle pretese! Non si sa più come fare; una volta si viveva quasi insieme, loro da servi, noi da signori, s’intende,
così i signori reagiscono alle richieste dei braccianti.
Spicca, a capo delle mondine, la figura della Rossa, donna carismatica venuta a diffondere il verbo socialista del riscatto degli oppressi:
la donna alta, diritta, il capo regalmente eretto sul collo, il volto bianchissimo continuava a parlare. La sua chioma, a mezzo sciolta, lingueggiava mossa dall’aria, a ciocche, che sul rogo del cielo parevano altrettante fiamme vive.
Lodevole e singolare che le attenzioni di Maria Catella siano state attirate dalle proteste contadine, lei che, all’epoca, godeva di una condizione di privilegio in seno a una famiglia esattamente dall’altra parte della barricata.
Il romanzo inizia col ritorno a Vinzaglio dell’esponente di un’altra famiglia padronale, i Laviny, caduti in disgrazia. Andrea Laviny è un letterato, gode di un discreto successo editoriale, ma il suo ultimo romanzo è stato un buco nell’acqua. Dopo dieci anni di assenza, torna alla Scavarda cercando consolazione nell’abbraccio materno della campagna.
Chi non si è mai mossa è invece la famiglia del suo vecchio amico, Giovanni, proprietaria della tenuta Palazzo. Ne fanno parte la madre Anna, irrimediabilmente depressa, suo marito Pietro, vittima di febbri frequenti, e Angiola, sorella infelice e sfortunata. Se, per il personaggio di Angiola, l’autrice si ispirò a una zia, nella descrizione fisica della protagonista è facile vedere la stessa Catella:
Gli occhi troppo grandi, troppo neri per il biancore inquietante del volto, con quel loro senso di barriera che chiude. La bocca, però, deliziosa, una violenza di bocca, rossa, carnosa, cogli angoli un po’ cascanti, in contrasto col mento rotondo.
L’unico personaggio sano e vitale è Betty, moglie di Giovanni, dalla pelle “rosea”, il corpo “rotondo e sodo” sul quale si erge un “volto curioso, capricciosissimo”. Betty è una maestra, segue con trasporto le proteste contadine, è oltremodo paziente col marito benché stanca di quella vita di cupezza.
Poco alla volta Andrea dimostra interesse per Angiola, “creatura di dolore” che vorrebbe sottrarre alla “casa senza lampada”. È però anche attratto dalla prorompente sensualità di Betty. Scoperta la relazione, Betty è cacciata di casa e Andrea, senza dir nulla, fugge con lei. Delusa, Angiola risolve di annegarsi nel laghetto del giardino mentre tutt’intorno i contadini riflettono sul dolore causato dall’esistenza e sull’inutilità della lotta.
Nel 1920, sempre a Milano, sono dati alle stampe altri due romanzi: Uno di quelli… (storia di un pescecane), risultato di uno sforzo congiunto col marito, e La donna senza pace, scritto dalla sola Catella. A quest’ultimo mancano gli slanci lirici del primo e le lunghe descrizioni naturali, così come è pressoché assente l’attenzione per le tematiche sociali del momento. La narrazione de La donna senza pace si esaurisce, infatti, nella dimensione privata dei protagonisti, dimensione alla quale l’autrice contribuisce con numerosi spunti autobiografici. Di ciò se ne avvantaggia la struttura romanzesca, omogenea e compatta, e maggior spazio hanno i giudizi lucidi e crudeli sulla provincia piemontese del primo Novecento.
Il romanzo si apre su una classe femminile di un istituto superiore di Vercelli. A frequentarlo, tra le altre, è Anna Bossi, figlia della buona borghesia cittadina, giovane dagli “occhi chiari e ambigui” e dal “volto strano brunissimo, pallido” sul quale si apre “una bocca di amarezza voluttuosa”. Sulla ragazza concentra le proprie attenzioni il professore di italiano, Giovanni Cantelmi.
Ma l’amore totalizzante e inquieto agognato dalla protagonista si scontrerà presto con la realtà. Dopo essersi trasferiti a Ivrea, città di origine di Giovanni, Anna trova subito disagevole e squallida la nuova sistemazione e oltremodo forzata la convivenza con la madre e la sorella del marito. Anche l’ambiente sociale, eccessivamente meschino per i suoi gusti, le appare lontano e ostile. Per farla sentire meglio, Giovanni si sobbarca lavori straordinari così da poter tenere il passo con le costose abitudini di vita della moglie. Le cose peggiorano in fretta: Giovanni è sempre più frustrato da un mestiere, quello dell’insegnante, incapace di appagarlo. Finisce così per trascurare la moglie, alla quale non rimane che abbandonarsi tra le braccia di un giovane e prestante avvocato, Franco Silva. Anna allontana così i disagi economici e la soffocante prigionia domestica con l’attesa dei furtivi incontri amorosi. Il sesso, forse più che l’amore, è la sola forma di compensazione a una vita amara e vuota.
Sembrerebbe, fino a qui, uno schema narrativo abbondantemente visitato nel quale Madame Bovary svetta come modello supremo. Eppure Catella delinea eventi e personaggi senza una prevedibile distinzione tra buoni e cattivi, vittime e carnefici, riuscendo così a sottolineare frustrazioni e contraddizioni in cui innocenza e colpa appaiono intrecciati. I tradimenti di Anna, infatti, non escludono tumulti di coscienza seguiti da impulsi affettuosi verso il marito, così come l’insoddisfazione di quest’ultimo lascia spazio a una candida presa di coscienza quando si accorge di aver commesso un marchiano errore di giudizio nei confronti della moglie:
Ti chiedo perdono di averti voluta. La colpa è stata mia: pensavo di prendere una donna come “maman” […] una vera donna, almeno nel mio concetto.
Lo stesso tipo di mentalità permea, in fondo, la società che circonda i protagonisti e che l’autrice sottopone a un’analisi impietosa. Una società che Catella smaschera nei suoi finti perbenismi, nelle ipocrisie, nei riti religiosi e mondani insulsi e vuoti. In un mondo siffatto, tuttavia, Anna sbaglia a chiedere aiuto alla persona meno indicata, che di quel mondo è il distillato più amaro: Franco si rivela difatti un opportunista infimo e miserabile, condizionato dal conformismo della provincia più gretta. Persino la nascita del figlio non sarà motivo di gioia e consolazione. Il padre finisce per considerarlo un estraneo, mentre la madre lo lega a sé da un affetto al limite della morbosità. La malattia e la morte del piccolo, pur nella sua tragicità, rompe quel bozzolo di vita insano in cui erano imprigionati i protagonisti. Anche se ciò non servirà a sistemare le cose: Anna e Giovanni, bene o male rimasti insieme, decidono di lasciare Ivrea per recarsi a San Severo, in Puglia, dove l’insegnante è stato trasferito. La fuga ribadisce l’infelicità insita nella natura umana e un destino al quale è impossibile sfuggire. Nessun riscatto o ribellione possono mutarlo: l’unica soluzione parrebbe essere la morte, la sola ad avere un senso “nella grande inutilità della vita”.
Il destino segnato da privazioni e sottrazioni che non trovano risarcimento e rendono impotente qualsiasi gesto di rivolta è evidente dalla ripetizione della preposizione senza nei titoli di entrambi i romanzi. Di ciò la stessa scrittrice sarà presto consapevole.
I romanzi non hanno molta fortuna, e della scrittrice Maria Catella si perdono presto le tracce. Il marito Giuseppe, malato di tubercolosi, muore nel 1921 lasciando alla moglie una misera pensione. Maria investe i pochi soldi nell’acquisto di alcuni appartamenti a Genova. Ennesima delusione: inesperta e indifesa, la vedova è facile preda di mediatori senza scrupoli. Trovandosi sul lastrico e con un figlio da mantenere, Maria si rivolge alla suocera, da lei descritta “donna crudele ed egoista” che la tratta come una sguattera. Meglio dunque impiegarsi come infermiera sui transatlantici, occasione che le permette anche di tornare all’amata scrittura: compone alcune novelle nelle quali descrive la vita di bordo (di questi e altri racconti, che Frida Maurin giura essere stati pubblicati su riviste quali L’Illustrazione Italiana e La Donna, non è stata ancora trovata alcuna traccia).
Abbandonata ogni velleità letteraria, Maria s’impiega a Genova come donna di servizio. Deve sgobbare duramente, da mane a sera, e cambiar posto frequentemente poiché, appena i datori di lavoro scoprono che è tisica, viene licenziata su due piedi. Con l’eredità ottenuta alla morte della suocera, Maria si stabilisce in Sardegna, a Nuoro. Qui il figlio, diplomato geometra, ha trovato un buon lavoro. Entrambi possono così curarsi dalla tubercolosi e il peggio sembra finalmente alle spalle.
In realtà, il rapporto con il figlio è tutt’altro che idilliaco: lui la maltratta e approfitta della bontà della madre sperperando le esigue fortune familiari. Finiti i soldi, madre e figlio tornano sul continente. Eugenio si suicida, a ventun’anni, in un albergo di Torino; Maria, tramortita dal dolore, si stabilisce con la madre a Pegli. Trascorre il proprio tempo a letto soffocando l’angoscia per la perdita del suo “Gege” con massicce dosi di Veronal. Poco alla volta si riprende: si cerca un lavoro, pare nelle Colonie italiane, ma i soldi non bastano mai. Un giorno, per non ferire ulteriormente la vecchia madre, si reca a Torino per farla finita. Muore all’ospedale San Giovanni per avvelenamento da barbiturici. Era il 1 maggio 1932.