Illustrazione di Cesare Pavese di Manuel Fior.
Furono gli amori infelici di Pavese, primo fra tutti quello per Tina Pizzardo, a condurlo al suicidio? Questo contributo cercherà di suggerire una risposta al delicato quesito partendo da un punto di vista esclusivamente femminile, una prospettiva spesso trascurata dalla bibliografia precedente. Fu per prima proprio Battistina “Tina” Pizzardo, con l’autobiografia pubblicata postuma (Senza pensarci due volte), a rifiutare l’immagine stereotipata della donna-carnefice costruita da Pavese nel suo diario e ripresa da Davide Lajolo nella biografia dedicata allo scrittore.
Nata a Torino nel 1903, Tina perde, giovanissima, la madre. Dal 1911 è in collegio e, grazie alla predisposizione per la matematica, nel 1920 può iscriversi alla Facoltà di Matematica. Gli anni universitari sono importanti per la sua formazione politica. Ribelle d’indole e antifascista per istinto, aderisce al Partito Comunista. Nel 1926, mentre è a Roma per partecipare ad alcuni concorsi scolastici, conosce Altiero Spinelli. Con Spinelli intreccia un’intensa relazione — perlopiù epistolare vista la lunga carcerazione del futuro leader federalista.
Nell’autunno 1926 ottiene la cattedra di matematica a Grosseto, dove è anche segretaria della locale federazione comunista. Nel 1927 subisce un primo fermo; rilasciata, torna a Torino e viene arrestata: la condanna è un anno di reclusione e tre di vigilanza. Dal 1928 vive di lavori precari e, per il suo atteggiamento indipendente e spregiudicato, si allontana dal Partito Comunista per avvicinarsi al nucleo di intellettuali che si raccoglie intorno all’Einaudi. Tra questi, Leone Ginzburg. È proprio Leone a parlarle di
un amico che passa le giornate al caffè a scrivere poesie, fumare la pipa, tormentandosi il ciuffo: peccato che sia un gran dispregiatore di donne.
Il primo incontro con Pavese avviene il 31 luglio 1933 sul Po. Tina chiede di provare a manovrare il barcone sul quale si trova Cesare: seppur seccato, questi acconsente. Ai remi, Tina non si comporta molto bene, ma tanto meglio: ci saranno ulteriori occasioni d’incontro.
Si vedono altre tre volte; l’ambiente fluviale, in cui Pavese è completamente a proprio agio, contribuisce ad alimentare l’immagine di “superuomo” che dapprincipio Tina si era fatta di lui. Al termine del quarto appuntamento, Cesare non le chiede di rivedersi; Tina è delusa, ma non osa prendere l’iniziativa. Così torna dal compagno Henek. Ebreo polacco, militante comunista rifugiato a Torino, Henek Rieser incontra Tina per la prima volta nel 1924. Si rivedono otto anni dopo, allorché nasce un rapporto profondo e complesso. Henek è impacciato, di poche parole ma capace di esercitare un fascino misterioso sulla giovane. Tina se ne innamora all’istante, ma non è corrisposta. Eppure quel sentimento non ricambiato, che le dà tristezza, è per Tina l’unico a contare veramente.
Il 25 gennaio 1934, Pavese si rifà vivo. L’incontro è vivace e Cesare si offre come insegnante di inglese. Si vedono per un mese durante il quale Tina si sente rinascere: se con Henek è costretta al monologo, “il dialogo, la simpatia” che Pavese le mostra “la fanno tornare quella di sempre”. Un giorno Cesare confessa che si sta innamorando; segue un fitto dialogo al quale non mancano tenere effusioni. Quella sera stessa si rivedono: Pavese tenta di baciarla e parla ormai di “vero amore”. Tina subodora il pericolo — dopotutto lei si trova lì per “salvarsi” da Henek, mentre le intenzioni di Cesare sembrano serissime.
Il 5 marzo 1934, la prima rottura: Tina comunica a Cesare che il loro amore, come lo chiama lui, è finito. Sono fatti per essere amici: o amici o nulla. Cesare scoppia in un pianto infantile:
ricordo la delusione, il fastidio, l’imbarazzo per quei lacrimoni che venivano giù a pioggia e rotolavano sul bavero del paltò.
“Meglio amici che niente”, le sussurra appigliandosi a qualche flebile speranza. Se Pavese avesse sentito mancare anche la minima speranza — sostiene Tina, si sarebbe ucciso: per questo motivo, dunque, lei gli sta vicino, almeno fino a quando non sarà passata.
Il patto di amicizia salta un mese dopo:
baci che rompono il patto d’amicizia (e mi vendicano dell’altro). E poi un momento, solo un momento di lucida follia, d’abbandono.
Mentre Tina torna presto in sé, Pavese è già in ginocchio a supplicarla di sposarlo.
“Ma come prenderlo su serio quando parlava di matrimonio e poi piangeva ad ogni rifiuto minacciando d’ammazzarsi? Eppure, quando non si parlava d’amore e matrimonio”, assicura Tina, “le ore che passavamo assieme erano le uniche felici della mia vita affannosa e senza speranza”.
Di patto in patto, arriva l’estate. A passare intere giornate in barca, in compagnia di “Pavese e delle sue poesie”, Tina si sente “tanto bene”. Con la stagione invernale avviene, invece, un cambiamento repentino: costretto a seguire Tina in gita collettiva in montagna, Cesare diventa “un cane scacciato che guaisce”, riuscendo “insopportabile a tutti, oltre che ridicolo”.
I due non fanno in tempo a chiarirsi che alcune retate disperdono il gruppo antifascista torinese. Tra gli arrestati: Tina, Henek e Cesare. Benché estraneo alla politica, Cesare avrebbe consentito a Tina (vigilata speciale da anni) di ricevere presso il proprio indirizzo la corrispondenza a lei indirizzata proveniente dal carcere di Roma. Il 15 maggio 1935 Pavese è tradotto alle Nuove di Torino, quindi a Regina Coeli. Alla fine è condannato a tre anni di confino, poi ridotti a otto mesi. Tina e Henek tornano invece liberi già nell’estate 1935.
Nelle sue memorie, non solo Tina rifiuta la versione secondo la quale Pavese si sarebbe sacrificato per salvarla, ma ribalta la questione. Secondo lei, Pavese “aveva sempre vagheggiato di rovinarsi per una donna”, quindi ha preferito credere “di essere finito al confino” per le lettere e di conseguenza per colpa di Tina. Tina è convinta di essersela cavata con poco perché la polizia non credeva possibile che una povera insegnante fosse davvero coinvolta con l’intellighenzia torinese. Se è cascata nella retata, un po’ ci è finita per caso, un po’ per colpa di Pavese. Intanto Cesare, durante il confino, è tormentato da un sospetto che si dimostrerà fondato. Tornato a Torino, è informato delle imminenti nozze di Tina ed Henek. Cesare ottiene di vederla ancora prima del matrimonio: lui sembra rassegnato, supplicante ma senza scatti, ma Tina non è del tutto tranquilla.
Luglio 1937. Henek è in Polonia per la morte del padre; Tina è rimasta a Torino. Per un impulso irrazionale, alza il telefono e chiama Cesare. I due s’incontrano, passeggiano a lungo e si rivedono nei giorni successivi.
“Stiamo bene insieme, ci vogliamo bene… ci comprendiamo al volo, ci ammiriamo”; eppure “l’amore ci è precluso”.
Ciononostante, ogni volta Pavese torna alla carica: “divorzia e sposiamoci”. Tina, a quel punto, avrebbe anche divorziato “per togliersi dal cuore Henek”. Ma, sposare Pavese?
Se fosse un uomo normale e non l’eterno adolescente che è, l’avrei anche sposato.
Per mettere fine alle insistenze di Cesare, un giorno di agosto Tina gli dice
ciò che per pietà gli ho sempre taciuto, ciò che lui sa e finge di non sapere, ciò che mai avrebbe voluto sentire.
Cosa gli avrà detto? Che non lo amava e che non era l’uomo forte e deciso che si aspettava? O, crudeltà massima, che non era in grado di soddisfare una donna? Qualunque cosa sia stata, ha un effetto detonante: per Cesare “è la fine di tutto”. Seguono nuovi incontri e altrettante rotture. Lo strappo definitivo avviene nel maggio 1938, quando Tina annuncia di aspettare un figlio da Henek. Poi si incrociano casualmente per Torino e si vedono l’ultima volta, senza parlarsi, da Franco Antonicelli.
Nell’agosto 1950 Tina si trova in vacanza in Val d’Aosta, nella stessa località in cui trascorrono le vacanze Natalia Ginzburg e il suo secondo marito, Gabriele Baldini. Il 28 mattina proprio Baldini riferisce a Tina quanto accaduto nella notte tra il 26 e il 27 agosto: Pavese si è tolto la vita. Tina spera in un tentativo andato male, ma così non è. Da qui, sostiene Tina, complice Lajolo, ha inizio “la falsificazione del personaggio Pavese”.
Lajolo assicura che l’incontro con Tina, l’unica donna da lui amata, turbò tutta l’esistenza di Pavese, rendendolo infelice e, in pratica, spingendolo al suicidio. Tina respinge le accuse facendo osservare che, dalla loro separazione, Pavese visse altri dodici anni. Inoltre, per Tina, Cesare era alla ricerca degli amori infelici: “solo nel tormento dell’uomo respinto e tradito ritrovava se stesso”. Poi, lui si sarebbe dimenticato di lei, invaghendosi di altre. Infine, Tina attacca le altre donne:
lo hanno lasciato morire, mentre finché lui ha smaniato per me ho saputo vigilare e salvarlo.
Uscito con le ossa rotte dal rapporto con Tina, Cesare è, perlomeno inizialmente, cauto nei successivi rapporti sentimentali. Incoraggiato da comuni interessi letterari, sul finire degli anni ’30 Pavese si dichiara a Fernanda Pivano. Per due volte la giovane respinge le sue proposte; il rifiuto, se non altro, non lascia strascichi velenosi.
Anche l’esordio della relazione con Bianca Garufi è segnato da un mutuo riconoscimento intellettuale. Incontrata nel corso della forzata trasferta a Roma, dove Bianca lavora come capufficio della segreteria Einaudi, Cesare scopre in lei un inatteso interesse per la mitologia. Presto il legame diventa intimo e travolgente, e Cesare intravede finalmente la possibilità di dedizione assoluta a una donna. Benché Bianca declini la puntuale offerta matrimoniale, il rapporto è fecondo dal punto di vista creativo: tra ottobre e dicembre 1945, Cesare compone nove poesie ispirate dalla nuova musa; terminate quelle, inizia i Dialoghi con Leucò; infine, Cesare e Bianca si buttano nella stesura del romanzo Fuoco grande. Ancora scossa dalla notizia del suicidio di Cesare, Bianca s’interroga:
Pavese, sciocco, non potevi farti aiutare? Io forse, adesso, ti potevo aiutare.
Ormai era tardi: aveva dunque ragione Tina?
Ebbe effetti angosciosi la relazione con Constance Dowling. Sensuale e spregiudicata, ballerina a Broadway, prima; attrice a Hollywood, poi, tra il 1947 e il 1950, insieme alla sorella Doris, è in Italia in cerca di fortuna. Cesare la incontra la notte di Capodanno 1949 presso l’abitazione romana dei Rubino. Da principio non sembra particolarmente colpito, ma lo sarà prestissimo. A marzo Doris chiede ai Rubino di ospitare Connie, bisognosa di riposo; loro la portano a Cervinia e invitano anche Pavese. A Cervinia, e poi a Torino, si consuma la loro breve storia d’amore. Pavese non vuole farsela sfuggire e, per trattenere l’attrice, scrive un copione dopo l’altro; ma Constance, di colpo, lo lascia, decisa a tornare negli States. Per Pavese è la conferma delle proprie “tare”, come le definisce lui. Raggiunta dalla notizia del suicidio, Connie reagisce così:
non sapevo fosse uno scrittore così famoso!
Nei mesi precedenti il suicidio, Natalia scrive a Tina:
Pavese è più matto di sempre. Si è preso una cotta per una ragazzina, sorella di un collaboratore dell’Einaudi.
La “ragazzina” è Romilda Bollati, sorella diciassettenne e bellissima di Giulio, redattore Einaudi dal 1949.
“Lavoravo allora nella moda e stavo lì ad annoiarlo con questioni di sartoria” — ricorda “Pierina”, come la ribattezza Cesare. “Però lui si divertiva, la frivolezza era per lui come un balsamo”.
A Pierina scrive due lettere e due biglietti tra il tenero e il disperato. Secondo Romilda, quelle missive furono “casualmente indirizzate a me” poiché “una persona arrivata a quel punto non scrive per gli altri, scrive per se stesso, per capire quello che gli sta succedendo”. La tragica notizia le giunge dal fratello, che rincara la dose: “così impari a trattare il cuore degli uomini come barattoli vuoti”. Per Romilda è uno schiaffo, cui segue un indicibile senso di colpa. “Da allora la vita mi è cambiata”.
Davvero Pavese si uccise per una “ragazzina” appena conosciuta? Le cause del suicidio devono essere state più profonde. Per aiutarci a capire, affidiamoci a chi Pavese lo conosceva bene e non ebbe, con lui, alcun intreccio sentimentale: mi riferisco a Natalia Ginzburg e a Lalla Romano. Secondo la prima, lo scrittore
non aveva, in fondo, per uccidersi, alcun motivo reale. Ma compose insieme più motivi e ne calcolò la somma, con precisione fulminea, e ancora li compose insieme e ancora vide, assentendo col suo sorriso maligno, che il risultato era identico e quindi esatto.
Di natura psicoanalitica le ragioni di Lalla Romano:
Pavese è stato un bambino spaventato dalla vita… Lui sapeva che era rimasto bambino, indifeso, spaventato. E, nonostante le apparenze, di grande sensibilità… Perciò aveva sempre sognato quell’infanzia felice che invidiava a me, e che lui non aveva vissuto.
Dunque, la morte prematura di tre fratelli nati prima di lui, la perdita del padre nel 1914, e quella della madre nel 1930, potrebbero aver turbato così profondamente la giovinezza di Pavese da farlo chiudere in sé e precludergli la felicità nel rapporto con l’altro. Per questo, forse, Cesare andò sempre alla disperata ricerca di una donna (per un uomo, l’“altro” per eccellenza) con cui ricostruire una famiglia e attraverso questa crescere e riscattarsi della felicità perduta.
Ammettiamolo: la questione è troppo complessa e le relazioni sentimentali troppo misteriose per sperare di trovare una ragione unica e incontrovertibile al suicidio di Pavese. Tuttavia, ci sia consentito affermare che il presente contributo ha il merito di aver ampliato il campo di indagine introducendo un punto di vista, quello femminile, spesso trascurato, se non addirittura intenzionalmente tralasciato, negli ultimi settant’anni di dibattito. Ma, per ora, basta con i “pettegolezzi”.