Illustrazione © Alessandra Parigi
Le dettagliate descrizioni impiegate da Emilio Salgari nei suoi romanzi di avventura ci forniscono oggi una precisa rappresentazione della lussureggiante natura dei luoghi esotici dove venivano ambientate le sue storie. Ci viene ancor più difficile credere che, nella realtà, Salgari non vide mai quei luoghi. Per sopperire alla mancanza di conoscenze dirette, si concentrò sullo studio di testi scientifici e botanici ricreando ambientazioni uniche con la sola arma della fantasia.
Chi volesse, può trovare in rete una scheda, alla voce "mussenda", dove si assegna la data di prima attestazione del vocabolo a Giulio Ferrario, già direttore della Biblioteca di Brera. Il riferimento è alla sua monumentale opera in 21 volumi Il costume antico e moderno (1817—1834) e la data è il 1818. Segue, nel 1896, Emilio Salgari con l'opera I pirati della Malesia. Per la verità occorre precisare alcune cose. Vale a dire non solo il fatto che quel romanzo è stato pubblicato prima a puntate su La Gazzetta di Treviso con altro titolo tra il 1891 e il 1892, così da anticipare di un lustro la data assegnata a Salgari. Ma soprattutto il fatto che la mitica mussenda compare ancora prima in I misteri della Jungla Nera (in volume nel 1895), già apparso a puntate su Il Telefono di Livorno nel 1887: ed è questo l'anno giusto da citare a proposito di Salgari, il 1887, nove anni prima.
Chiunque abbia letto all'età giusta I misteri della Jungla Nera, ha ancora impressa nella memoria la misteriosa e fugace apparizione nella giungla di una stupenda fanciulla che darà il via a uno degli indiscussi capolavori di Salgari. È Tremal-Naik, il protagonista, a raccontare turbato:
...quando a venti passi da me, in mezzo ad una macchia di mussenda dalle foglie sanguigne, apparve una visione, una donna bella, raggiante, superba […] Ella mi guardò, emise un gemito lungo, straziante, poi scomparve al mio sguardo.
Intere generazioni di giovani lettori hanno ignorato per il resto della loro vita cosa fosse la mussenda e perché le sue foglie fossero sanguigne, appagati dai vocaboli estrosi, appartenenti a mondi lontani, che in quelle pagine da divorare aumentavano il senso dell'avventura, del mistero e dell'altrove. Non sapevano neppure che Salgari, che non inventava nulla, stava esibendo nozioni botaniche, apprese anche sui testi scientifici della biblioteca civica di Torino, relative a tutto il mondo e in tempi in cui piante e fiori esotici erano introvabili nei nostri giardini botanici e bisognava lavorare di fantasia.
Oggi molte delle quaranta specie di mussenda, originarie dell'Africa, dell'Asia e delle isole del Pacifico, sono coltivate nelle serre di tutto il mondo per il loro alto valore ornamentale, considerata la vivacità dei caratteristici fiori a cinque petali, che secondo la specie sono rossi, gialli o color arancio. Nelle serre, quelle piante hanno le dimensioni di un arbusto nano, ma in natura superano i due metri, così da rendere realistica l'apparizione di una inquietante fanciulla in una macchia di mussenda.
Va da sé che non sarà possibile, qui, soffermarci sulla flora internazionale esibita, spesso con qualche tocco di fantasticheria, nell'intera opera di Salgari, tanto più che la natura, in quelle pagine, diventa autentica protagonista, accanto agli eroi di turno, con risultati eccezionali.
In tema di fiori non si può tuttavia fare a meno di ricordarne almeno altri due: il primo perché riesce a resuscitare da morte certa, per così dire, e l'altro perché ha dimensioni da non credere. E il primo, il "fiore della resurrezione", ha colpito talmente la fantasia di Salgari da indurlo a scriverne in due romanzi: Le figlie dei faraoni (1906) e Le meraviglie del Duemila (1907). In quest'ultimo ricava il titolo del capitolo iniziale, dove uno dei personaggi spiega di averne studiato i misteri per venticinque anni ed essere così riuscito a scoprire come fermare la vita umana anche per un secolo e poi dare istruzioni affinché riprenda come e meglio di prima.
Salgari ebbe notizia di quel fiore da un articolo pubblicato sulla torinese Gazzetta del Popolo della Domenica il 26 aprile 1891. Si tratta di una pianticella sradicata e dunque secca, dotata di due misere enfiagioni simili a boccioli riarsi dal sole. Scoperta in un'antica tomba, sul petto di una sacerdotessa egizia morta nella notte dei tempi, ha la misteriosa facoltà di rifiorire rigogliosamente, mostrando due ineffabili fiori, non appena bagnata. La sua resurrezione è di breve durata, ma può essere replicata all'infinito. La fonte è più che certa perché Salgari ricopiò il pezzo pressoché completamente, ripetendo nomi e date. Non sapeva però di avere a che fare con un articolo, intitolato appunto Il Fiore di Resurrezione, firmato con lo pseudonimo “Ramfis”, che intendeva veicolare messaggi mistici ed esoterici, tant'è vero che, con ingenuità, segnalò la scoperta di quel fiore come “storica”.
L'affascinante vicenda letteraria, o per meglio dire salgariana, di questo fiore — concepito appunto su un settimanale torinese — ci porterebbe molto lontano, mentre qui vorremmo soltanto dire come esista nella realtà un fiore abbastanza simile. Di piante dotate di foglie capaci di tollerare la completa disidratazione, in realtà, ne esistono parecchie: possono rimanere in condizioni di morte apparente per lunghi periodi e tornare a vivere con il ritorno dell'acqua: perciò si chiamano resurrection.
Sono felci, graminacee e altre ancora, ma quella che maggiormente richiama alla memoria il misterioso fiore salgariano, è sicuramente la rosa di Gerico (Anastatica hierochuntica), originaria del Medio Oriente. Capace di assorbire tutta la poca acqua dei territori desertici o quasi dove cresce, riesce a restare in vita durante periodi di letargo da siccità fino a dieci anni circa e, ricevendo acqua dopo tanto tempo, riesce a tornare vitale. Nulla a che vedere, peraltro, con il duplice e ineffabile fiore egizio inventato da Ramfis che, pur staccato dal terreno, rifiorisce anche dopo secoli.
Il secondo fiore che non si può fare a meno di ricordare, Salgari lo ha descritto due volte e soltanto per gli editori torinesi Speirani. Si può affermare che ne scrisse in contemporanea, per così dire. La prima volta, infatti, in un articoletto destinato ai bambini, pubblicato sul settimanale L'Innocenza il 9 giugno 1895: gli Speirani stavano utilizzando le indubbie doti pedagogiche di Salgari per divulgare argomenti diversi.
La seconda volta, facendo tuttavia molta confusione, lo ha descritto nel romanzo I naufragatori dell'Oregon, che, per essere stato pubblicato, sempre dagli Speirani, nel corso del 1896, si presume scritto l'anno precedente. L'articoletto è senza pretese, ma merita una breve sosta per via di una innocua bugia che, se da una parte intenerisce, dall'altra dimostra come Salgari coltivasse l'esigenza di millantare viaggi mai compiuti. Si legge infatti:
Voi, piccoli lettori, abituati a vedere solamente i fiori dei nostri giardini, non potete certamente credere che vi siano dei fiori tanto grandi da formare, con uno solo, il mazzo più grande che abbiate veduto. Eppure esistono questi fiori giganti e non sono rari. In un paese assai lontano, che si chiama Sumatra, io ne ho veduto di quelli che misuravano nientemeno che due metri di circonferenza. Quei fiori si chiamano rafflesie, nascono a fior di terra, poiché non potrebbero reggersi, sono rossi con numerose macchie bianche, ed uno solo pesa parecchi chilogrammi.
A parte la simpatica bugia, Salgari non esagerava. La rafflesia è infatti un genere di piante parassite, scoperta nel 1818 da una spedizione comandata da Sir Thomas Stamford Raffles da cui prende il nome. Non presenta tronco, foglie o vere radici: i suoi organi vegetativi sono rappresentati da semplici filamenti che si sviluppano nelle radici dell'ospite, in genere una pianta del genere Tetrastigma. Il fiore, che produce direttamente sul terreno, può pesare sino a dieci chili e superare il metro di diametro. Il colore è per lo più rosso arancio macchiato di crema con cinque petali enormi. L'unico suo difetto è l'odore molto sgradevole, utile peraltro ad attirare gli insetti, per lo più mosche, che trasportano poi il polline dai fiori femminili a quelli maschili.
Per quanto riguarda il romanzo, ambientato in Borneo nel 1872, si è accennato a qualche pasticcio, e per comprenderlo occorre citare il brano “incriminato”, riferito alla spedizione dei protagonisti:
Verso le dieci del mattino, dopo aver percorso una mezza dozzina di chilometri, giungevano in una piccola radura dove crescevano fiori così enormi, da strappare grida di meraviglia ad Amely e al piccolo Dik. Erano le rafflesie, chiamate dai malesi “crubul”, ossia grandi fiori. Sono i più grandi che si conoscano, avendo una circonferenza di tre metri ed un peso di sette od otto chilogrammi.
Avendo già fatto la conoscenza con la rafflesia, che cresce a terra e che è stata scoperta da Raffles, si capisce subito che Salgari – trovandosi a che fare con un altro fiore gigante e per di più maleodorante – abbia fatto confusione. Indicando lo scopritore, Odoardo Beccari, che per la verità lo scoprì un secolo dopo, nel 1878, e dandone una buona descrizione, ci consente tuttavia di sapere a quale fiore si riferisce.
Si tratta, in realtà, dell'aro titano, o aro gigante (Amorphophallus titanunum), pianta appartenente alla famiglia delle Araceae, endemica dell'isola di Sumatra. In effetti possiede la più grande infiorescenza non ramificata del mondo vegetale, e per via del suo odore è noto come “fiore cadavere” (come d'altronde la rafflesia). Il suo nome scientifico contiene il termine phallus, poiché questo vegetale esibisce un'infiorescenza a spadice che può raggiungere i tre metri di altezza. Il suo corpo vegetativo (cormo) è il più grande conosciuto e il record è detenuto da un esemplare coltivato presso il Royal Botanic Garden di Edimburgo, che dopo sette anni di crescita pesava 153,9 chili.
D'altra parte la letteratura al riguardo è copiosa e mi piace indicare in bibliografia un vecchio articolo al riguardo, perché reca la firma “Elena Accati – Università di Torino”. Nota in tutto il mondo quale esperta in materia e autrice di centinaia di pubblicazioni, ha a lungo divulgato su La Stampa, in passato, argomenti botanici. Mi piace altresì ricordare il titolo di uno dei suoi tanti articoli apparsi sul quotidiano torinese, e precisamente il 3 agosto 1983 (nel supplemento Tuttoscienze): si tratta de La pianta che sfama i ribelli di Salgari, dedicato al cosiddetto “albero del pane”, assai presente, infatti, nelle opere di Salgari, evidentemente lette anche dalla scienziata.
E per dire quanto la flora salgariana abbia messo radici, per usare un gioco di parole, nell'immaginario collettivo, fra i tanti articoli al riguardo mi piace allungare questa digressione citando Ecco le piante di Sandokan – La flora salgariana dall'albero del viaggiatore al manzanillo, pubblicato il 1° novembre 1996 (manca al ritaglio che conservo il nome del giornale) da un'altra nota esperta e autrice di numerosi libri di botanica: Gigliola Magrini. E non esiste dubbio che l'argomento meriterebbe un corposo libro che sappia accostare le pionieristiche e rutilanti pagine botaniche di fine Ottocento e del primo Novecento compilate da Salgari, alle cognizioni moderne.
Ci sono mille altri fiori più o meno estrosi che compaiono come lucciole nella notte a colorire le avventure salgariane. Quali saranno mai, ad esempio, quelli "che sprigionano un potente narcotico" di cui si legge nel già citato romanzo I misteri della Jungla Nera? Forse sono raccolti dalle fronde dell'Antiaris toxicaria, albero della famiglia delle Moraceae presente nelle regioni tropicali. A Giava è noto come Upas e dal lattice di quegli alberi gli indigeni traevano l'omonimo veleno con il quale intingevano la punta dei loro dardi mortali. Salgari, nel descrivere questa pianta velenosa nel romanzo I Robinson Italiani (1897), ha utilizzato una fonte che descriveva il grande albero isolato in una radura spoglia, poiché le sue emanazioni erano così perniciose da distruggere gli altri vegetali. E non basta: guai agli uccelli che si posassero inavvertitamente sui suoi rami: cadrebbero fulminati. E guai a sdraiarsi sotto l'ombra dei suoi rami: si rischierebbe di perdere i capelli, mentre a respirare le esalazioni del lattice si perderebbero tutti i denti. Fantasie, naturalmente.
Almeno pari a quelle che riguardano il già citato manzanillo, più volte descritto da Salgari con altrettante incursioni nel mondo delle esagerazioni e persino delle leggende. Non che l'Hippomane mancinella – questo il suo nome scientifico – sia un angioletto, poiché tutte le sue parti contengono tossine molto potenti. E davvero sostare sotto la sua chioma durante la pioggia è pericoloso, perché le gocce d'acqua, dopo essere scivolate sulle foglie, causano grosse vesciche. Il fumo che esce dal suo legno bruciato causa gravi danni agli occhi e mangiare i suoi frutti, che al primo morso sono piacevolmente dolci, può causare persino la morte o, bene che vada, lancinanti dolori.
Però non è così terribile come appare nella letteratura scientifica ottocentesca e tanto meno come è descritta in quella d'intrattenimento. E, se è per quello, neppure come appare nell'opera in cinque atti L'Africana (1865) di Eugène Scribe, musicata da Giacomo Meyerbeer, dove la dolce Selika si suicida per amore aspirando i fiori mortiferi del manzanillo.
Ma, siccome stiamo addentrandoci tra gli alberi, che se sono spesso fioriti sono anche diversi dai fiori propriamente detti, si può dire che questa è un'altra storia. Un'altra esuberante e ricchissima storia che Salgari ha regalato alle sue lettrici e ai suoi lettori, inoltrandosi con varie fantasie e ondivaghe consultazioni, in tutte le giungle, foreste e boschi del mondo.
Accati E., Fiore gigante alto 2 metri, in La Stampa, Torino, 21 giugno 1995.
Ciampi P., Gli occhi di Salgari – Avventure e scoperte di Odoardo Beccari viaggiatore fiorentino, Firenze, Edizioni Polistampa, 2003.
Pozzo F., Tanto valeva che non si fossero risvegliati dal loro sonno secolare, prefazione a: E. Salgari, Le meraviglie del Duemila, Torino, Viglongo, 1995.
Salgari E., I misteri della Jungla Nera, Genova, Donath, 1895.
Salgari E., I naufragatori dell'Oregon, Torino, Speirani, 1896.
Salgari E., I Robinson Italiani, Genova, Donath, 1897.